venerdì 12 gennaio 2018

Chi ha paura dei poveri. Studio sulle motivazioni profonde di un disagio sempre più diffuso

Chi ha paura dei poveri. 
Studio sulle motivazioni profonde di un disagio sempre più diffuso


Non è facile spiegare come si formano le paure nella nostra mente. In genere si pensa che tutto parta dai sensi ma, a differenza delle paure di vecchio tipo, quelle contemporanee tendono a essere difficili da identificare, cioè dare un nome, comprenderne la provenienza, la connotazione. Sono imprecise ed elusive, si nutrono di un senso di precarietà diffuso che crea contagio e che induce visioni apocalittiche in un’angoscia senza fine. I sociologi la chiamano «sindrome dell’insicurezza del vivere», che è diventata un elemento diffuso e quasi normale della nostra società, della nostra vita quotidiana.
Ci pensano le parole a sgrovigliare la matassa di sensazioni eterogenee e a dare una fisionomia concreta al disagio, anche sdoganando parole che la storia credeva aver inghiottito per sempre (razza, frontiere, muri). Parole che incarnano una versione aggiornata di tutto ciò che collettivamente temiamo di più: la crisi planetaria, l’impossibilità di realizzare progetti, l’allarme economico, il rischio terroristico, il futuro dei nostri figli e soprattutto la paura dell’altro.
E così, nella ricerca di concetti che consentano una corrispondenza fra linguaggio e realtà quotidiana, la parola dell’anno 2017 in Spagna è aporofobia, che non è altro che la paura, la ripugnanza o l’avversione verso i poveri. È un neologismo coniato nel libro Aporofobia, el rechazo al pobre (Madrid, Paidós Iberica, 2017, pagine 200, euro 19,90) dalla filosofa spagnola Adele Cortina; proviene dal greco áporos (senza risorse) e phóbos (timore, paura), per identificare un atteggiamento negativo molto diffuso di ostilità verso i migranti, che però va distinto dal razzismo e dalla xenofobia. Il termine è stato incorporato nel celebre dizionario della Real Academia, organismo responsabile di elaborare le regole linguistiche della lingua spagnola per i 414 milioni di ispanofoni nel mondo, e a incoronarla è stata la prestigiosa fondazione Fundéu.
Per Adele Cortina, ciò che crea rifiuto non è la provenienza dei migranti, cioè la loro condizione di stranieri, ma è la povertà, intesa non solo come indigenza ma anche come mancata definizione di un ruolo sociale, cioè il vuoto socio-politico in cui vivono. La loro condizione esistenziale incarna l’incertezza umana, sono persone che non sanno cosa accadrà loro e quanto la loro condizione temporanea, provvisoria o sospesa, possa dimostrarsi definitiva. 
Cortina però non cade ostaggio degli stereotipi mediatici delle paure attuali nei confronti dei migranti, ma cerca il rapporto fra realtà e concetti, e fra questi e il linguaggio, preferisce inventariarne gli aspetti, interrogarsi sul loro senso. Con linguaggio tecnico ma tagliente non aggira i problemi, ma li affronta in maniera diretta: Da cosa derivano veramente le paure che affliggono le società contemporanee? Cosa hanno di diverso rispetto al passato? si chiede. Ogni giorno in Europa, in America ovunque hanno luogo infinite incomprensioni verbali, perché un riferimento troppo vago può essere frainteso: «non sono razzista ma...», «prima noi poi gli altri», «perché fanno tanti figli se sono poveri?» sono frasi che spesso rivelano un rifiuto della presenza di rifugiati, migranti, ma anche dei disoccupati, dei giovani precari. In sostanza, del crescente esercito di individui “non necessari”. Secondo la studiosa lo straniero non fa paura e non viene marginalizzato se è ricco, famoso, come ad esempio i calciatori, le modelle e così via, anzi gode di prestigio e viene imitato in quanto vincente, gli vengono attribuite svariate qualità; solo chi è povero non ha nulla da offrire e quindi non ha nessun valore, nessuna “capacità contrattuale”, fondamentali invece per la definizione nella nostra società.
È proprio in questa capacità che Adele Cortina vede il vero collante nelle società del mondo contemporaneo ed è proprio in questo modo di concepire il rapporto fra persone trova terreno fertile l’attegiamento “aporofobico”, favorito da legami ispirati al modello consumistico ed edonistico. Il miglior antidoto all’aporofobia, secondo l’autrice, è «evitare il rischio che le differenze diventino distanze», perché l’assenza di fiducia e le distanze aumentano la paura e si trasformano in preoccupanti fratture che favoriscono le patologie sociali. Legami sfilacciati e sfarinati. Persone “normali” che precipitano a un certo punto (per la perdita del lavoro, o altro), cadendo in situazioni di marginalità e sofferenza. Persone paranoiche e complottiste. È l’affresco estremizzato che la parola aporofobia ha il merito di descrivere in modo efficace.
L’unica modalità per rendere la vita degna di essere vissuta è quella di ricostruire i legami sociali, che poi è il vero tema dei nostri giorni.
(fonte: articolo di Silvina Pérez L'Osservatore Romano, 9-10 gennaio 2017)