martedì 17 ottobre 2017

Nella «terra di mezzo». Tra disincanto e trascendenza di Giuseppe Savagnone

Nella «terra di mezzo». 
Tra disincanto e trascendenza 

di Giuseppe Savagnone






Fino a cinquant’anni fa i sociologi erano unanimi nel ritenere che stesse per avverarsi la previsione di Nietzsche – «Dio è morto» – e che la secolarizzazione, col suo progresso irreversibile, avrebbe sempre più confinato il soprannaturale ai margini della vita sociale, almeno nelle società evolute, fino alla sua totale estinzione per “morte naturale”. Da questo punto di vista si parlava, tra studiosi, di un futuro “senza sorprese”. Il progresso della scienza e della tecnica – si pensava – avrebbe sostituito all’antica visione del mondo, fondata sull’intervento di fattori imperscrutabili, irriducibili alle spiegazioni umane, quella di un universo retto da rigorose leggi fisiche e biologiche, dove non c’è posto per il mistero e tutto ciò che accade si può ridurre a semplici processi naturali. Era questa l’idea che si stava imponendo perfino tra i teologi. Uno dei più importanti, Rudolf Bultmann, scriveva a questo proposito: «Non ci si può servire della luce elettrica e della radio (…) e nello stesso tempo credere nel mondo degli spiriti e dei miracoli propostoci dal Nuovo Testamento».

La logica del mercato capitalistico, inoltre, avrebbe sempre più imposto un nuovo quadro valoriale, fondato sul primato del profitto, in cui al posto dei riti religiosi si sarebbero celebrati quelli del consumismo, non meno assorbenti e totalizzanti. Piuttosto che cercare un’aleatoria beatitudine celeste, le persone avrebbero sempre più puntato sulla soddisfazione di aspirazioni assai più concrete, di ordine materiale, basate sul successo e sul denaro. La fede sarebbe diventata sempre più irrilevante nel determinare il corso della storia e i motivi di conflitto sarebbero stati costituiti da interessi tangibili, legati all’economia e alla lotta per il potere.

Quanto ai problemi esistenziali degli individui, cominciava a delinearsi, già cinquant’anni fa, lo svuotarsi dei confessionali e il corrispondente riempirsi degli studi di psicologi e psicoanalisti. La gente cercava da loro, ormai, la pace interiore che prima chiedeva ai preti. Non certo facendosi perdonare peccati inesistenti, ma imparando col loro aiuto a convivere con dei problemi psicologici di natura esclusivamente mentale e superando i complessi di colpa che li tormentavano.

Oggi siamo in grado di dire che queste previsioni coglievano effettivamente alcuni aspetti dei processi in corso, di cui noi oggi vediamo la realizzazione, ma nel complesso si sono rivelate false. Nella società odierna il progresso della secolarizzazione c’è stato veramente, ma, invece di sradicare definitivamente il bisogno di trascendenza, l’ha reso per certi versi più struggente. Il mondo della fredda razionalità scientifica e tecnologica, col suo efficientismo, non basta agli uomini e alle donne del nostro tempo, che se ne sentono soffocati e cercano disperatamente evasioni che appaghino il loro bisogno di gratuità e di infinito.

Così anche gli enormi passi avanti della medicina non hanno impedito il ritorno in forze di maghi e guaritori, al punto che il fenomeno della magia, ritenuto ormai residuale nelle società evolute, ha avuto proprio in esse un impressionante revival. Il dilatarsi delle possibilità di appagare i propri bisogni ha dato luogo alla frustrante percezione collettiva di essere schiavi di una nuova religione senza trascendenza, quella del consumismo. La psicoanalisi, che si presentava come una via di liberazione, è stata a sua volta accusata di essere dogmatica e di determinare dipendenze altrettanto gravi di quelle del passato. I destini della storia sono stati sempre più condizionati da fattori culturali di cui la religione è un elemento imprescindibile, al punto da giustificare la nota tesi del politologo Huntington secondo cui il futuro del pianeta si sarebbe giocato in un grande «scontro di civiltà», quella cristiana e quella islamica.

Se si guarda poi alle convinzioni personali, è vero che ci sono – almeno nel mondo occidentale – meno credenti, ma forse ci sono anche meno non credenti. Diceva il cardinale Martini che nell’intimo di ogni credente c’è un non credente che alimenta il suo dubbio. Aggiungerei che anche nell’intimo del non credente c’è il seme di una oscura, indeterminata fede nella trascendenza.

Un acuto sociologo, Alessandro Castegnaro, che ho avuto recentemente il piacere di conoscere personalmente, sostiene che oggi è inappropriato parlare di “atei” o di “credenti” come di statiche categorie contrapposte. Utilizzando una suggestiva terminologia tratta da Tolkien, egli preferisce parlare di una «terra di mezzo», dove tutti gli schemi rigidi appaiono inadeguati a descrivere la realtà, perché essa è così fluida che fede e incredulità sono sempre inestricabilmente mescolate non solo nella società, ma nelle stesse persone, in un processo dinamico, di cui loro stesse non possono prevedere con sicurezza l’esito.

Un esempio particolarmente significativo di questo stato di indeterminatezza può essere offerto da questa bella pagina di un noto psicoanalista, Massimo Recalcati, che si definisce “non credente”: «È giusto insegnare ai nostri figli a pregare, se Dio è morto? Mi pongo questo problema come padre, prima che come psicoanalista (…). Un mio caro collega non sopporta di sentirmi fare questi discorsi. E’ convinto che la psicoanalisi sia un abbandono senza ritorno di ogni forma di preghiera (…). Anche io, come il mio amico, non so pregare, sebbene mi sia stato insegnato con cura da mia madre. La preghiera rivolta a Dio appartiene al tempo dell’esistenza di Dio. Eppure ho deciso, con il consenso di mia moglie, di insegnare ai miei figli che è ancora possibile pregare perché la preghiera preserva il luogo dell’Altro come irriducibile a quello dell’io. Per pregare – questo ho trasmesso ai miei figli – bisogna inginocchiarsi e ringraziare. Di fronte a chi? A quale Altro? Non so rispondere e non voglio rispondere a questa domanda». Quello che conta, sottolinea, è che «preserviamo lo spazio del mistero, dell’impossibile, del non tutto, del confronto con l’inammissibilità dell’Altro».

Forse, nella «terra di mezzo», non è Dio ad essere morto, ma gli idoli che spesso erano stati in passato proposti – anche dalle Chiese – come suoi sostituti (il vitello d’oro!). E, se è vero che ancora la ricerca di Lui passa spesso attraverso altri idoli – la magia, i fanatismi religiosi – , è vero anche che cresce nelle persone la percezione che l’ansia di trascendenza non è una invenzione dei preti, ma si radica nel più profondo della nostra umanità, al punto che, per uccidere Dio, si dovrebbe uccidere l’uomo. E questo nessuno può veramente volerlo.

(Fonte: Rubrica "I  Chiaroscuri" 28.09.2017)