venerdì 30 settembre 2016

«Nessuno è escluso dal perdono di Dio» Papa Francesco Udienza 28/09/2016 (foto, testo e video)

 UDIENZA GENERALE 
 28 settembre 2016 

Tra le 25mila persone presenti oggi in piazza san Pietro per l’appuntamento del mercoledì, anche un gruppo di fedeli della diocesi di Ascoli Piceno, guidati dal vescovo Giovanni D’Ercole. Il Papa è arrivato sulla jeep bianca scoperta alle 9.20 circa, in anticipo rispetto alla “tabella di marcia” consueta, e ha cominciato a salutare i tanti bambini portigli dai solerti gendarmi vaticani. Tra i doni ricevuti, anche una rosa bianca a gambo lungo che fa bella mostra di sé in una tasca portaoggetti della “papamobile”. Molti i fedeli che hanno lanciato zucchetti bianchi “di riserva” al Papa, che però ha tenuto il suo. Prima di compiere come di consueto a piedi l’ultimo tratto che lo separa dalla sua postazione al centro del sagrato, Francesco si è fermato a salutare un gruppo di sacerdoti che hanno richiamato la sua attenzione mettendosi a cantare. il Papa li ha ascoltati compiaciuti, sorridendo, ha scambiato con loro qualche parola e poi si è incamminato verso i gradini. Appena arrivati al luogo in cui fra poco terrà la catechesi, è stato salutato da un fragoroso applauso.
Al termine dell'udienza papa Francesco ha acceso una fiaccola per ricordare le famiglie di Roma e di tutto il mondo. L'accensione è avvenuta per ricordare la Settimana della Famiglia che a Roma si terrà dal 2 all'8 ottobre prossimi. In udienza era presente anche una delegazione della diocesi della capitale. "Per loro - ha spiegato Bergoglio - accenderò una fiaccola, simbolo dell'amore delle famiglie di Roma e del mondo intero".








Il Perdono sulla croce (cfr Lc 23,39-43)

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Le parole che Gesù pronuncia durante la sua Passione trovano il loro culmine nel perdono. Gesù perdona: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34). Non sono soltanto parole, perché diventano un atto concreto nel perdono offerto al “buon ladrone”, che era accanto a Lui. San Luca racconta di due malfattori crocifissi con Gesù, i quali si rivolgono a Lui con atteggiamenti opposti.

Il primo lo insulta, come lo insultava tutta la gente, come fanno i capi del popolo, ma questo povero uomo, spinto dalla disperazione dice: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!» (Lc 23,39). Questo grido testimonia l’angoscia dell’uomo di fronte al mistero della morte e la tragica consapevolezza che solo Dio può essere la risposta liberatrice: perciò è impensabile che il Messia, l’inviato di Dio, possa stare sulla croce senza far nulla per salvarsi. E non capivano, questo. Non capivano il mistero del sacrificio di Gesù. E invece Gesù ci ha salvati rimanendo sulla croce. Tutti noi sappiamo che non è facile “rimanere sulla croce”, sulle nostre piccole croci di ogni giorno. Lui, in questa grande croce, in questa grande sofferenza, è rimasto così e lì ci ha salvati; lì ci ha mostrato la sua onnipotenza e lì ci ha perdonati. Lì si compie la sua donazione d’amore e scaturisce per sempre la nostra salvezza. Morendo in croce, innocente tra due criminali, Egli attesta che la salvezza di Dio può raggiungere qualunque uomo in qualunque condizione, anche la più negativa e dolorosa. La salvezza di Dio è per tutti, nessuno escluso. E’ offerta a tutti. Per questo il Giubileo è tempo di grazia e di misericordia per tutti, buoni e cattivi, quelli che sono in salute e quelli che soffrono. Ricordatevi quella parabola che racconta Gesù sulla festa dello sposalizio di un figlio di un potente della terra: quando gli invitati non hanno voluto andare, dice ai suoi servitori: «Andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze» (Mt 22,9). 
Tutti siamo chiamati: buoni e cattivi. La Chiesa non è soltanto per i buoni o per quelli che sembrano buoni o si credono buoni; la Chiesa è per tutti, e anche preferibilmente per i cattivi, perché la Chiesa è misericordia. E questo tempo di grazia e di misericordia ci fa ricordare che nulla ci può separare dall’amore di Cristo! (cfr Rm 8,39). A chi è inchiodato su un letto di ospedale, a chi vive chiuso in una prigione, a quanti sono intrappolati dalle guerre, io dico: guardate il Crocifisso; Dio è con voi, rimane con voi sulla croce e a tutti si offre come Salvatore a tutti noi. A voi che soffrite tanto dico, Gesù è crocifisso per voi, per noi, per tutti. Lasciate che la forza del Vangelo penetri nel vostro cuore e vi consoli, vi dia speranza e l’intima certezza che nessuno è escluso dal suo perdono. Ma voi potete domandarmi: “Ma mi dica, Padre, quello che ha fatto le cose più brutte nella vita, ha possibilità di essere perdonato?” – “Sì! Sì: nessuno è escluso dal perdono di Dio. Soltanto deve avvicinarsi pentito a Gesù e con la voglia di essere da Lui abbracciato”.

Questo era il primo malfattore. L’altro è il cosiddetto “buon ladrone”. Le sue parole sono un meraviglioso modello di pentimento, una catechesi concentrata per imparare a chiedere perdono a Gesù. Prima, egli si rivolge al suo compagno: «Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena?» (Lc 23,40). Così pone in risalto il punto di partenza del pentimento: il timore di Dio. Ma non la paura di Dio, no: il timore filiale di Dio. Non è la paura, ma quel rispetto che si deve a Dio perché Lui è Dio. E’ un rispetto filiale perché Lui è Padre. Il buon ladrone richiama l’atteggiamento fondamentale che apre alla fiducia in Dio: la consapevolezza della sua onnipotenza e della sua infinita bontà. E’ questo rispetto fiducioso che aiuta a fare spazio a Dio e ad affidarsi alla sua misericordia.

Poi, il buon ladrone dichiara l’innocenza di Gesù e confessa apertamente la propria colpa: «Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male» (Lc 23,41). Dunque Gesù è lì sulla croce per stare con i colpevoli: attraverso questa vicinanza, Egli offre loro la salvezza. Ciò che è scandalo per i capi e per il primo ladrone, per quelli che erano lì e si facevano beffa di Gesù, questo invece è fondamento della sua fede. E così il buon ladrone diventa testimone della Grazia; l’impensabile è accaduto: Dio mi ha amato a tal punto che è morto sulla croce per me. La fede stessa di quest’uomo è frutto della grazia di Cristo: i suoi occhi contemplano nel Crocifisso l’amore di Dio per lui, povero peccatore. È vero, era ladrone, era un ladro, aveva rubato tutta la vita. Ma alla fine, pentito di quello che aveva fatto, guardando Gesù così buono e misericordioso è riuscito a rubarsi il cielo: è un bravo ladro, questo!

Il buon ladrone si rivolge infine direttamente a Gesù, invocando il suo aiuto: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno» (Lc 23,42). Lo chiama per nome, “Gesù”, con confidenza, e così confessa ciò che quel nome indica: “il Signore salva”: questo significa il nome “Gesù”. Quell’uomo chiede a Gesù di ricordarsi di lui. Quanta tenerezza in questa espressione, quanta umanità! E’ il bisogno dell’essere umano di non essere abbandonato, che Dio gli sia sempre vicino. In questo modo un condannato a morte diventa modello del cristiano che si affida a Gesù. Un condannato a morte è un modello per noi, un modello per un uomo, per un cristiano che si affida a Gesù; e anche modello della Chiesa che nella liturgia tante volte invoca il Signore dicendo: “Ricordati... Ricordati del tuo amore …”.

Mentre il buon ladrone parla al futuro: «quando entrerai nel tuo regno», la risposta di Gesù non si fa aspettare; parla al presente: «oggi sarai con me nel paradiso» (v. 43). Nell’ora della croce, la salvezza di Cristo raggiunge il suo culmine; e la sua promessa al buon ladrone rivela il compimento della sua missione: cioè salvare i peccatori. All’inizio del suo ministero, nella sinagoga di Nazaret, Gesù aveva proclamato «la liberazione ai prigionieri» (Lc 4,18); a Gerico, nella casa del pubblico peccatore Zaccheo, aveva dichiarato che «il Figlio dell’uomo – cioè Lui – è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto» (Lc 19,9). Sulla croce, l’ultimo atto conferma il realizzarsi di questo disegno salvifico. Dall’inizio alla fine Egli si è rivelato Misericordia, si è rivelato incarnazione definitiva e irripetibile dell’amore del Padre. Gesù è davvero il volto della misericordia del Padre. E il buon ladrone lo ha chiamato per nome: “Gesù”. È una invocazione breve, e tutti noi possiamo farla durante la giornata tante volte: “Gesù”. “Gesù”, semplicemente. E così fatela durante tutta la giornata.

Guarda il video della catechesi

Saluti:

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APPELLO

Il mio pensiero va un’altra volta all’amata e martoriata Siria. Continuano a giungermi notizie drammatiche sulla sorte delle popolazioni di Aleppo, alle quali mi sento unito nella sofferenza, attraverso la preghiera e la vicinanza spirituale. Nell’esprimere profondo dolore e viva preoccupazione per quanto accade in questa già martoriata città, dove muoiono bambini, anziani, ammalati, giovani, vecchi, tanti … rinnovo a tutti l’appello ad impegnarsi con tutte le forze nella protezione dei civili, quale obbligo imperativo ed urgente. Mi appello alla coscienza dei responsabili dei bombardamenti, che dovranno dare conto davanti a Dio!

Guarda il video dell'appello

Un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana!

Sono lieto di accogliere i fedeli delle Diocesi di Ascoli Piceno – anche voi avete sofferto! –, con il Vescovo Mons. Giovanni D’Ercole, e di Otranto con l’Arcivescovo Mons. Donato Negro, e quelli di Modena-Nonantola. Cari fratelli e sorelle, il vostro pellegrinaggio per l’Anno Santo esprima il senso di comunione con la Chiesa universale e vi renda testimoni di misericordia nelle vostre chiese locali.

Saluto la delegazione della Diocesi di Roma che ha preparato la Settimana della Famiglia, che si terrà dal 2 all’8 ottobre. Per loro accenderò tra poco una fiaccola, simbolo dell’amore delle famiglie di Roma e del mondo intero.

Un pensiero speciale rivolgo all’Arcivescovo di Potenza e al gruppo di operai licenziati della Basilicata, ed auspico che la grave congiuntura occupazionale possa trovare una positiva soluzione mediante un incisivo impegno da parte di tutti per aprire vie di speranza. Non può salire più la percentuale della disoccupazione!

Saluto le partecipanti al Capitolo Generale delle Suore Terziarie Cappuccine della Sacra Famiglia; l’Associazione Anziani con i ciclisti del Gruppo Generali; i partecipanti all’iniziativa “Italian Wonder Ways” con il Vescovo Mons. Paolo Giulietti; e i fedeli di Pieve di Soligo, qui presenti per ricordare l’anniversario della morte di Giovanni Paolo I.



Porgo infine il mio saluto ai giovani, ai malati ed agli sposi novelli. L’esempio di carità di san Vincenzo de’ Paoli, che ieri abbiamo ricordato quale patrono delle associazioni di carità, conduca voi, cari giovani, ad attuare i progetti del vostro futuro con un gioioso e disinteressato servizio al prossimo. Aiuti voi, cari ammalati, ad affrontare la sofferenza con lo sguardo rivolto a Cristo. E solleciti voi, cari sposi novelli, a costruire una famiglia sempre aperta ai poveri e al dono della vita.

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DISCERNIMENTO E RESPONSABILITÀ “Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono” (1Ts 5,21) - I MERCOLEDÌ DELLA SPIRITUALITÀ - 2016

DISCERNIMENTO E RESPONSABILITÀ 
“Vagliate ogni cosa 
e tenete ciò che è buono” (1Ts 5,21) 


I MERCOLEDÌ DELLA SPIRITUALITÀ - 2016

promossi dalla
FRATERNITA' CARMELITANA
 DI POZZO DI GOTTO

Dal 26 Ottobre al 30 Novembre

Sala del Convento 
dalle h. 20.00 alle h. 21.00



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Viaggio di Papa Francesco in Georgia e in Azerbaigian (30 settembre - 2 ottobre 2016) “Come un amico” ai confini dell’Europa ferita


Viaggio Apostolico del Santo Padre in Georgia e Azerbaijan 

(30 settembre - 2 ottobre 2016)



Francesco va per tre giorni e due notti nel Caucaso a completare il pellegrinaggio iniziato in Armenia: i profughi che scappano dall’Isis, il conflitto in Nagorno Karabakh, l’incontro con una delle Chiese ortodosse meno ecumeniche e la tappa nel paese a maggioranza musulmana sciita dove i fondamentalismi vorrebbero infiltrarsi

Quello che il Papa inizia venerdì 30 settembre è un viaggio lampo di tre giorni e due notti nel Caucaso. Francesco visiterà due paesi, Georgia e Azerbaigian, completando il pellegrinaggio iniziato lo scorso giugno in Armenia. Inizialmente il viaggio era stato concepito come un tutt’uno, ma la coincidenza con il concilio panortodosso di Creta aveva obbligato a dividerlo in due, per non intralciare la presenza del Patriarca georgiano Ilia II al grande sinodo: il Vescovo di Roma non avrebbe potuto giungere in un paese di antichissima tradizione cristiana in assenza del capo della Chiesa più importante. La sorte ha poi voluto che Ilia sia stato tra quei patriarchi che, insieme con quello di Mosca Kirill, hanno deciso all’ultimo di non prendere parte all’assise di Creta. Ma ormai il calendario del viaggio papale spezzato in due tronconi era stabilito. 

Il viaggio al confine tra l’Europa e l’Asia rientra nella tipologia delle trasferte bergogliane nel Vecchio Continente: Paesi piccoli, ancora feriti da conflitti, dove il Papa spera di incoraggiare percorsi di riconciliazione e di pace. Paesi dove i cattolici sono un «piccolo gregge» ma nei quali convivono con altre confessioni cristiane e con altre religioni. Quello in Georgia e Azerbaigian è - come già lo fu in Turchia - anche un pellegrinaggio che lambisce il dramma dei rifugiati in fuga dall’Isis. Bergoglio condividerà le sofferenze dei cristiani iracheni venerdì sera a Tbilisi nella chiesa assiro-caldea intitolata a Simone bar Sabbae. Come pure la visita lambisce il dramma di altri profughi, costretti a lasciare le zone di confine con la Federazione russa dopo gli scontri che hanno visto i carri armati di Mosca entrare in Georgia nel 2008. Ed è ancora una ferita aperta il conflitto tra Azerbaigian e Armenia per il controllo della regione del Nagorno Karabakh. 

«Ho accolto l’invito a visitare questi Paesi - spiegava lo scorso giugno Papa Francesco - per un duplice motivo: da una parte valorizzare le antiche radici cristiane presenti in quelle terre – sempre in spirito di dialogo con le altre religioni e culture – e dall’altra incoraggiare speranze e sentieri di pace. La storia ci insegna che il cammino della pace richiede una grande tenacia e dei continui passi, cominciando da quelli piccoli e man mano facendoli crescere, andando l’uno incontro all’altro. Proprio per questo il mio auspicio è che tutti e ciascuno diano il proprio contributo per la pace e la riconciliazione». 
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Il viaggio, specie nella sua prima tappa di due giorni in Georgia, ha importanti implicazioni ecumeniche. La Chiesa ortodossa georgiana, con la quale la Santa Sede intrattiene buone relazioni, è tra le poche che non riconoscono la validità del battesimo amministrato dai cattolici. Francesco e Ilia II si abbracceranno, ma non pregheranno insieme. Il Patriarca e Catholicos degli ortodossi georgiani non parteciperà personalmente alla messa celebrata dal Pontefice sabato 1° ottobre, ma ha deciso di inviare una delegazione: un segnale giudicato importante dalla Santa Sede.
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“Come un amico”. Così Papa Francesco si presenterà in Georgia e in Azerbaigian, i due paesi caucasici che visiterà da domani, 30 settembre, fino al 2 ottobre. Ad affermarlo è il cardinale Segretario di Stato Pietro Parolin nella consueta intervista con il CTV alla vigilia della partenza, durante la quale illustra i temi portanti di questo 16° viaggio apostolico internazionale: incontro, riconciliazione, pace.



giovedì 29 settembre 2016

Con Fuocoammare il dramma dei migranti arriva a Hollywood

Sarà dunque Fuocoammare di Gianfranco Rosi a rappresentare l'Italia nella corsa agli Oscar. L'Italia ha deciso di puntare su un documentario che parla di immigrazione e girato interamente a Lampedusa, uno dei luoghi simbolici dei nostri tempi.

Fuocoammare - che, lo ricordiamo, ha già vinto l'Orso d'oro a Berlino - è il frutto di un lungo lavoro del regista, uno degli specialisti del genere documentari, già premiato per la produzione sul Grande raccordo anulare. Gianfranco Rosi ha trascorso un anno intero sull'isola per raccogliere le storie che ha poi inserito nel suo film. Storie non solo di immigrati, che raggiungono l'isola dopo aver attraversato il mare sui gommoni, ma anche della gente che vive e lavora in questo avamposto, a cui anche papa Francesco ha voluto rendere omaggio in una storica. 

Fra i personaggi che il documentario porta alla luce c'è quello di Michele Bartolo, il direttore sanitario dell'Asl locale che da trent'anni cura i cittadini dell'isola e assiste a ogni singolo sbarco, stabilendo chi va in ospedale, chi va nel Centro di Accoglienza e chi è deceduto. Un uomo che, con la sua umanità, è diventato un personaggio simbolo di tutti coloro, individui, associazioni e istituzioni, che fanno quanto è possibile per accogliere in maniera dignitosa questi disperati. 

IL DRAMMA DEI MIGRANTI A HOLLYWOOD

Ora questa realtà drammatica, restituita con bravura da Gianfranco Rosi in Fuocoammare, rappresenterà il nostro Paese nella corsa all'Oscar per il miglior film straniero. Una scelta coraggiosa da parte della nostra commissione: coraggiosa e lodevole, perché porterà ancora una vola e ancora di più questo dramma epocale all'attenzione internazionale, proprio pochi giorni dopo che Obama e l'Assemblea delle nazioni uniti hanno dichiarato che il flusso dei profughi è un problema che va gestito globalmente e con le risorse adeguate. 
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Fuocoammare verrà trasmesso in prima visione su Rai3 lunedì 3 ottobre in occasione della Giornata nazionale in memoria delle vittime dell'immigrazione .


C’era una volta un piccolo luogo, un puntino sulla cartina dell’Europa, un niente in mezzo al mare, un’isola di soli venti chilometri quadrati, bizzarria rocciosa che dal profondo del Mediterraneo si erge fino a 130 metri d’altezza. Oggi è un simbolo della Storia: è Lampedusa, l’approdo dei disperati, dei diseredati, di chi cerca salvezza da più inferni sparsi nel mondo. 
«Ho scelto l’isola come avamposto mentale». È Gianfranco Rosi a parlare, il regista in concorso al Festival di Berlino con Fuocoammare, due ore d’immagini e storie che s’incrociano; sono le storie dei migranti salvati e di quelli morti, di un lampedusano di 12 anni e di un medico. 
«Sono stato a Lampedusa per un anno circa, ho preso una casa in affitto e devo ringraziare Giuseppe Del Volgo, mia guida locale e aiuto regista; m’ha aiutato a capire l’isola per raccontarla », dice Rosi.
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Fuocoammare è un film necessario per non abbassare l’attenzione su africani e asiatici che fuggono da guerre, repressione, violenza, fame, cercando un primo approdo europeo. Dice Rosi: «L’isola è il simbolo della tragedia, lo sappiamo, ma volevo mostrare anche la vita quotidiana dei lampedusani, in particolare quella di Samuele, un ragazzino che studia, va a scuola, cerca di imparare a stare in barca, gioca, costruisce onde; che vive, insomma, mentre dal mare arrivano eritrei e nigeriani, libici, somali e siriani in condizioni spesso disperate». 

LA FORZA DELLE EMOZIONI. Niente finzione nel film di Gianfranco Rosi, solo realtà, quel tipo di realtà che non si dimentica, una volta vista. «Il linguaggio dei documentari è cambiato rispetto al passato. Oggi è più personalizzato, non si filma più soltanto per mostrare. L’autore deve saper trasformare la realtà che filma, deve scuotere attraverso le emozioni». 
E di emozioni il film è pieno, dall’inizio alla fine.
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«Oggi», dice Rosi, «il Mediterraneo è una tomba d’acqua, ma temo sia solo l’inizio. Fu scioccante quando scoprimmo l’Olocausto attraverso i filmati, ma era la fine di un incubo. Quello di oggi, invece, è solo l’inizio. È un nuovo olocausto». 
Un film duro? Sì, anche. Ma è soprattutto un film compassionevole e necessario. E se lo vedranno anche negli altri Paesi d’Europa, forse all’estero capiranno meglio quanto l’Italia stia facendo e quanto la parola “aiuto” debba diventare un passaporto di speranza. Quella speranza di futuro che nutre il piccolo Samuele: all’inizio del film costruisce onde con cui uccidere gli uccellini. Alla fine, va ad accarezzarli, parlando loro delicatamente.


Guarda il trailer ufficiale di Fuocoammare

La censura sulla collera di Gesù di Enzo Bianchi

La censura sulla collera di Gesù

Jesus - Rubrica La bisaccia del mendicante
Settembre 2016
di ENZO BIANCHI


In questa stagione ecclesiale caratterizzata anche dall’interesse e della ricerca riguardo all’umanità di Gesù, permane tuttavia una certa timidezza nell’analizzare e mettere in rilievo i sentimenti di Gesù. In particolare si evita di leggere uno di questi modi di comportarsi da parte di Gesù: la collera, l’ira, lo sdegno. A volte si ha l’impressione che si voglia presentare un Gesù uomo come noi, ma dolciastro, oleografico, forse perché l’atteggiamento della collera contrasta con il dominante bisogno di dolcezza, mitezza, rimozione e negazione del conflitto. Eppure, se prendiamo il vangelo più antico, quello secondo Marco, questo tratto di Gesù – mitigato dagli altri evangelisti e talvolta addirittura assente – emerge con chiarezza: l’ira, la collera, lo sdegno non sono solo sentimenti umani che non significano modi peccaminosi, ma sono anzi segno che in Gesù c’erano passione e forte convinzione. La collera è reazione all’indifferenza, al silenzio complice, alla tolleranza acquiescente, alla clemenza a basso prezzo, tutti atteggiamenti che accompagnano chi non conosce l’amore, la passione dell’amore. La collera è l’altra faccia della compassione! Per questo non è possibile dimenticare le parole dure di Gesù, le sue invettive, i suoi atteggiamenti verso alcune situazioni e a volte anche verso gli stessi discepoli. La minaccia, l’invettiva deve essere detta, se è pronunciata come avvertimento urgente e forte, non come giudizio di condanna!

Nel vangelo secondo Marco troviamo innanzitutto il verbo orghízomai, andare in collera, che appare come sentimento di Gesù alla vista del lebbroso (cf. Mc 1,41). Perché Gesù è preso da collera di fronte al lebbroso? ...

Ma la collera di Gesù si manifesta anche verso i “giusti incalliti”, i pretesi osservanti della Legge. ...

Tutti ricordiamo inoltre come Gesù agì dopo l’ingresso trionfale in Gerusalemme. Salito a Gerusalemme, Gesù trova nel tempio ciò che non doveva esservi: vede la dimora di Dio trasformata in una casa di commercio. Allora “avendo fatto una sferza di cordicelle, scacciò tutti fuori dal tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i tavoli” (Gv 2,15). Qui c’è sdegno, collera manifestata in azioni che non sono violente verso le persone ma provocano un danno economico, un impedimento al commercio praticato nel tempio. Solitamente se si ricorda questa azione di Gesù è solo per dire che egli era violento e non mite. No, Gesù non cede alla violenza, non fa violenza sulle persone, ma compie un gesto profetico carico di significato, e lo fa con sdegno e collera.

Infine, conosciamo bene le invettive, il “Guai a voi!” ripetuto sette volte nei confronti degli scribi e farisei ipocriti (cf. Mt 23,13-32)...

Dunque sdegno, collera, ira erano presenti in Gesù, a testimonianza della sua fede convinta, della sua passione per la giustizia, della sua urgente parola profetica che voleva tenere svegli, non lasciare che gli altri si addormentassero, ammonirli finché c’era tempo. Purtroppo questo Gesù oggi viene censurato da generazioni di credenti che non amano il conflitto, che temono la voce alta, che rifuggono l’urgenza del sì o del no. Sono convinto che, se oggi Gesù tornasse, molti cristiani, soprattutto monaci e monache, non lo seguirebbero, perché lo riterrebbero troppo duro, troppo esigente, non sufficientemente mite e dolce: non hanno colpe, perché non conoscono l’amore e la sua passione forte come la morte, tenace come l’inferno (cf. Ct 8,6).



mercoledì 28 settembre 2016

Il 28 settembre del 1978, dopo solo 33 giorni dalla sua elezione, moriva Giovanni Paolo I per tutti "il Papa del sorriso"


Trentotto anni dalla morte di Papa Luciani: un fulmine e tante nuvole di dubbi e trame. Era l’estate dopo la tragedia Moro, l’elezione di Pertini e tre Papi: Paolo VI, Giovanni Paolo I e poi Giovanni Paolo II. Conoscevo Luciani da quando in San Pietro Papa Giovanni lo consacrò vescovo (1958), e in seguito insegnavo nel Seminario Romano, dove lui abitava quando era a Roma. Tre mesi interi nell’ultima sessione del Concilio: spesso per problemi di circolazione amava passeggiare a lungo e in compagnia. Toccò spesso a me: mi chiamava “il mio Gennarino”. Quel 29 settembre, prima delle 7 mi telefona l’amico R. G., della Segreteria di Stato: “Il Papa è morto!”. Da poco grazie a Sergio Zavoli collaboravo al Gr Rai e alle 8 il vaticanista Gregorio Donato mi chiama in diretta. Per me era passata un’ora, e cito il proverbio: “Morto un Papa, se ne fa un altro! ”. Scandalo e proteste! L’indomani sul Corsera, Goffredo Parise rimprovera: col cadavere ancora caldo si può essere così cinici? Seguì, sempre sul Corriere, una mia spiegazione. Morte inattesa, ma da subito notizie confuse e gran polverone: infarto, ma niente autopsia. Lo stesso amico poi mi racconta i fatti. Una premessa: alla morte di Paolo VI ero a un convegno al Passo della Mendola con don Germano Pattaro, docente di Teologia ecumenica a Venezia. Per la successione lui non sarebbe stato felice di un’elezione di Luciani, suo vescovo e Patriarca: su temi ecumenici era su posizioni tradizionali, e con parecchie riserve. Con Luciani Papa il movimento ecumenico e la realizzazione del Concilio avrebbero sofferto. Ovviamente, eletto Luciani, pensavo don Germano un po’ deluso, e invece verso il 10 settembre mi informa che viene a Roma: lo vuole il Papa stesso! In udienza il 5 settembre tra le sue braccia, e col nome di Gesù sulle labbra, era morto di infarto Nikodim, numero due del Patriarcato di Mosca. Sorpreso e ammirato, il Papa chiamò don Pattaro a Roma, suo “consigliere ecumenico”. Però morì quasi subito, e don Germano, uomo, prete e teologo magnifico, sereno e amato rimase a Venezia fino alla morte (1988). Quei 33 giorni e il mistero Luciani. Qualche anno dopo David Yallop, per il suo In Nome di Dio, volle sentirmi a lungo a casa mia, e nella prefazione sono tra coloro che egli ringrazia, ma poi stravolse tutto: bugiardo e falsario, favorito dal fatto che la verità era stata sommersa in una catena di scelte errate da chi si trovò tra le mani quel cadavere. Ecco, per me, l’essenziale dei fatti. La sera del 28 settembre non fu normale. Prima di cena il Papa ebbe un leggero malessere, ma non volle allarmare nessuno e si ritirò più presto del solito. Il segretario don Diego Lorenzi andò fuori, le suore si erano ritirate, ma lui non riusciva a dormire. Quel pomeriggio e la prima sera erano stati agitati. Aveva convocato Villot, Segretario di Stato prossimo alle “dimissioni” per età, comunicandogli alcuni cambiamenti: Segretario di Stato Giovanni Benelli, che Paolo VI a giugno 1977 aveva voluto a Firenze anche in vista di una sua rinuncia al Papato per settembre, che poi nei fatti gli fu impedita. Anche questa è una vicenda singolare. A Firenze inviava il cardinale Poletti, vicario per Roma il cardinale Pericle Felici e suo successore come Patriarca a Venezia padre Bartolomeo Sorge, cui Egli stesso aveva detto che in Vaticano gli pareva di essere come “nel labirinto di Cnosso”. Nel suo La traversata (Mondadori, 2010) lo stesso Sorge scrive che anni dopo ebbe la conferma dell’intenzione di Luciani da Giovanni Paolo II, che quindi ne aveva trovato traccia. A Milano infine con le dimissioni del cardinale Colombo andava Casaroli. E Villot? Rispose a Luciani che il Papa aveva pieno diritto, ma anche che Benelli di nuovo in Vaticano dopo soli 15 mesi era inopportuno: così si smentivano evidenti volontà di Paolo VI. Luciani era rimasto male, ma in quella stessa sera – l’ultima –aveva comunicato il progetto, per telefono, anche al card. Colombo a Milano, e chi era nei pressi parlò di una conversazione “accesa”. Obbedienza, a denti stretti e con obiezioni forti, anche personali. Si fece notte, e Luciani solo si preparò a dormire. Al mattino la fida suor Vincenza Taffarel, con Luciani già dai tempi di Venezia e di Vittorio Veneto, sorpresa nel trovare intatta davanti alla porta la consueta tazzina di caffè, bussa senza risposta, apre uno spiraglio e vede il Papa morto. Arriva mons. John Magee che chiama il Camerlengo, proprio Villot, cui per legge spetta la direzione di tutto alla morte del Papa che ora è lì, ancora seduto sul letto, lume da notte acceso, occhiali inforcati, un “foglio” tra le mani e un bicchiere sul comodino. Nessun segno di sofferenza visibile: quasi un sorriso. Lui, Villot, di fronte al cadavere del Papa che la sera prima ha contrastato secco, e il personale della Casa col peso di non essersi accorti di nulla. Che fare? Raccontare tutto? “Una donna” per prima? Non si può. Suor Vincenza Taffarel deve tacere, lo farà sempre, trasferita nel suo Veneto. Don Lorenzi non dica che non c’era, e che nulla ha sentito. Abat-jour accesa e tra le mani quel foglio con progetto di nomine? No. Niente “foglio”, ma l’Imitazione di Cristo. Spariti gli occhiali, sparito il bicchiere con tracce di acqua. Autopsia? Niente. È stato un infarto. La realtà: il Papa non riusciva a dormire e aveva chiamato al telefono il suo medico di Venezia, Da Ros, che gli consigliò un calmante, versatosi poi in eccesso. Di fatto il cuore si spense: contrario dell’infarto. Arrivò il sonno, ma l’ultimo, e al mattino Villot si trova davanti, morto, il Papa. E le leggende alla Yallop? Luciani progressista rivoluzionario eliminato dai Marcinkus e compagnia, non proprio di Gesù? Sul tema della povertà e dei poveri, Giovanni Paolo I la pensava in modo diverso, e molto vicino al modo che oggi propone Francesco. Tutto qui. Sicuro del tutto? No, ma fino a prova contraria, in 38 anni, è l’unica spiegazione credibile.
(fonte: "La notte in cui papa Luciani sbagliò la sua medicina" di Gianni Gennari - Il Fatto Quotidiano 27 settembre 2016)

“ Papa Luciani è stato il precursore di Bergoglio. La sua santità è fuori discussione”. Lo dice in questa intervista a La Fede Quotidiana il gesuita Padre Bartolomeo Sorge, noto sacerdote giornalista, già direttore de “La civiltà cattolica” e soprattutto grande amico in vita di Luciani che ha avuto la fortuna di conoscere.
...
Chi è stato Papa Luciani?
“ Possiamo intanto dire che la sua santità è evidente e fuori discussione, penso che presto la saggezza della Chiesa lo eleverà alla gloria degli altari. Da un punto di vista del personaggio posso dire che storicamente è il precursore di Bergoglio”.

Perchè?
“ Fu un grande innovatore. Lo ha dimostrato con gesti concreti e chiari, penso per esempio all’ abbandono della sedia gestatoria anche se la macchina vaticana, in particolare il cardinal Villot, fece pressioni per rispolverarla e questo avvenne in due o tre occasioni. Luciani era piccolo di statura e allora secondo la nomeklatura vaticana del tempo fedele alla tradizione era necessario che il Papa si vedesse. Anche dal punto di vista del lessico e della catechesi ricorda Papa Bergoglio e il suo approccio, semplice e diretto”.

Che rapporti aveva con la Curia?
“ Da quanto ne so, era scomodo e i cambi anche robusti che voleva portare davano mal di pancia diffusi. Si annunciavano cambiamenti seri non solo nella forma e nel cerimoniale, ma anche nella sostanza. E quando si preannunciano certe rivoluzioni inevitabilmente si creano malumori”.

Morì dopo pochi giorni dalla sua elezione e questo ha fatto sorgere voci e libri su presunti complotti..
“ Sono tesi fantasiose e sbagliate. Morì per una crisi cardiaca. Lui era molto timido, aveva il volto affaticato per come lo ricordo gli ultimi giorni ed era sofferente di cuore. Lo conoscevo bene. La storia del complotto non regge ed è stravagante”.

Vedi anche il nostro post precedente (all'interno link ad altri post):



Bambine e bambini, cristiani e musulmani, ad Aleppo il 6 ottobre insieme invocheranno la pace per tutta la Siria

Centinaia di bambini e bambine di Aleppo, cristiani e musulmani, si incontreranno il 6 ottobre, per chiedere con le loro preghiere che nella città martoriata in cui vivono, e in tutta la Siria, si fermi la spirale di morte scatenatasi in questi ultimi giorni con particolare crudeltà proprio sui più piccoli e inermi. Lo riferisce all'Agenzia Fides l'Arcivescovo Boutros Marayati, alla guida dell'arcieparchia armena cattolica di Aleppo. L'iniziativa, partita su impulso dei Padri Francescani, coinvolgerà in primo luogo gli alunni delle scuole. Metteranno anche le loro firme e le loro impronte su un appello per chiedere ai potenti del mondo di por fine alle stragi che si accaniscono con particolare crudeltà sui bambini, che in tutte le guerre sono i più vulnerabili. “Ma soprattutto pregheranno. Pregheranno per tutti i loro coetanei. E confidiamo nel fatto che la preghiera dei bambini è più potente della nostra”, aggiunge l'Arcivescovo Marayati.
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L’Arcivescovo maronita della città martire: «C’è chi dice ai cristiani in Medio Oriente: siete così pochi, che state a fare ancora lì, non vale la pena, venite via. Invece è importante che rimanga una presenza reale cristiana, lì dove c’è stata per millenni. Anche se è un piccolo resto, il resto d’Israele»

Coi suoi 45 anni, il maronita Joseph Tobji è ancora nella lista dei trenta vescovi più giovani del mondo. Chiamato a guidare l’arcidiocesi maronita di Aleppo, la città martire da dove quasi ogni giorno, da quasi cinque anni, arrivano le immagini di corpi straziati e di palazzi sventrati. Di bambini che giocano tra le macerie, bambini che muoiono sotto bombe e granate, e altri bambini che pregano affinché finisca la “guerra sporca”. «Confidiamo nel fatto che le loro preghiere sono più potenti delle nostre», ha detto un altro arcivescovo di Aleppo, l'armeno cattolico Boutros Marayati, accennando dei bambini aleppini, cristiani e musulmani, che il prossimo 6 ottobre si incontreranno per chiedere con la preghiera la liberazione della loro città dalla spirale di morte che l'avvolge.
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Avendo avuto occasione di visitare la città un paio d’anni prima dello scoppio della guerra, Aleppo non è per me qualcosa di remoto. Sono luoghi ed edifici conosciuti, monumenti ammirati, gente incontrata. Perciò la notizia, diffusasi ieri, della ripresa dei bombardamenti aerei sui suoi quartieri orientali mi tocca anche personalmente. 
Tuttavia, più che mai in questa guerra, l’informazione è così strumentalizzata e distorta che in fin dei conti ancora una volta l’unica cosa certa è che le sofferenze degli abitanti della città non accennano a finire; che il mistero del male di cui la strage degli innocenti è paradigma non cessa di riproporsi. Sappiamo, insomma, che Aleppo è di nuovo un campo di battaglia. Al di là di questo dato complessivo tutto il resto è confuso ed incerto, fermo restando un fatto sin qui sempre confermato: il grosso delle notizie sulle sofferenze dei civili a causa dei bombardamenti e dei cannoneggiamenti proviene dai quartieri orientali sotto il controllo degli “insorti”. 
Delle bombe e dei tiri di mortaio che invece prendono di mira i quartieri occidentali sotto il controllo dei governativi, dove tra l’altro vive la maggior parte dei cristiani, si sa poco, tardi e male.
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martedì 27 settembre 2016

«Nella desolazione spirituale: capire che capita a tutti e pregare con autenticità; quando è un'altra persona che soffre: starle accanto in silenzio con tanto amore, vicinanza, carezze» - Papa Francesco - S. Messa Cappella della Casa Santa Marta - (video e testo)


S. Messa - Cappella della Casa Santa Marta, Vaticano
27 settembre 2016
inizio 7 a.m. fine 7:45 a.m. 



Papa Francesco:
Tre grazie

«Riconoscere la desolazione spirituale, pregare quando saremo stati sottomessi a questo stato di desolazione spirituale e sapere accompagnare le persone che soffrono momenti brutti di tristezza e di desolazione spirituale». Sono le tre grazie da chiedere al Signore che Papa Francesco ha indicato commentando le letture di martedì 27 settembre, durante la messa mattutina a Santa Marta.

Offrendo la celebrazione del giorno, festa liturgica di san Vincenzo de’ Paoli, per le suore della comunità della Casa — che dal santo francese sono «state fondate» e la cui «vita segue la strada da lui segnata: fare la carità» — il Papa ha incentrato la propria riflessione soprattutto sulla prima lettura, tratta dal libro di Giobbe (3, 1-3.11-17.20-23). Quest’uomo «era nei guai» perché «aveva perso tutto. Tutti i suoi beni, anche i suoi figli. E poi si era ammalato di una malattia che assomiglia alla lebbra: forte, pieno di piaghe». Insomma «la sua sofferenza era tale» che «a un certo punto, aprì la bocca e maledisse il suo giorno, quello che gli accadeva», dicendo: «Perisca il giorno in cui nacqui e la notte in cui si disse: “È stato concepito un maschio”. Tutto questo sarebbe stato meglio che non fosse stato, che non fosse accaduto. Meglio la morte che vivere così».

Tuttavia, ha osservato il Pontefice, «la Bibbia dice che Giobbe era giusto, era santo». E un santo di solito non «può fare queste cose». Infatti, ha chiarito il Papa, Giobbe «non maledisse Dio. Soltanto si sfogò e questo era uno sfogo: uno sfogo di figlio davanti al Padre». Un po’ come fece il profeta Geremia, secondo quanto riportato nel capitolo ventesimo del suo libro nell’Antico Testamento: «Incomincia con una cosa tanto bella — ha fatto notare Francesco — e dice al Signore: “Io sono stato sedotto da Te, Signore”»; ma subito dopo, come Giobbe, anche Geremia dice: «Maledetto il giorno nel quale io sono stato concepito». Eppure «questi due casi non sono bestemmie: sono sfoghi». Entrambi «si sfogano davanti a Dio così», perché «tutti e due erano in una grande desolazione spirituale».

E in proposito il Pontefice ha sottolineato come la desolazione spirituale sia «una cosa che accade a tutti: può essere più forte, più debole... Ma, quello stato dell’anima oscuro, senza speranza, diffidente, senza voglia di vivere, senza vedere la fine del tunnel, con tante agitazioni nel cuore e anche nelle idee», lo vive ogni donna e ogni uomo. «La desolazione spirituale — ha spiegato — ci fa sentire come se avessimo l’anima schiacciata», che «non vuol vivere: “Meglio è la morte!” è lo sfogo di Giobbe; meglio morire che vivere così».

Ma, ha detto il Papa, «quando il nostro spirito è in questo stato di tristezza allargata, che quasi non c’è respiro, noi dobbiamo capire» che ciò «capita a tutti»: in modo più o meno accentuato, ma capita a tutti. Ecco allora l’invito a «capire cosa succede nel nostro cuore», a domandarsi «cosa si deve fare quando viviamo questi momenti oscuri, per una tragedia familiare, una malattia, qualche cosa che butta giù». Di certo, ha chiarito, non è il caso di «prendere una pastiglia per dormire e allontanarmi dai fatti, o prendere due, tre, quattro bicchierini» per dimenticare, perché «questo non aiuta». Invece «la liturgia di oggi ci fa vedere come» bisogna comportarsi «con questa desolazione spirituale, quando siamo tiepidi, giù, senza speranza».

Un aiuto viene dal salmo responsoriale: «Giunga fino a te la mia preghiera, Signore». Dunque la prima cosa da fare è pregare. «Preghiera forte, forte, forte» ha scandito Francesco, evidenziando come il «salmo 87 che abbiamo recitato insieme», insegni «come si prega, come pregare nel momento della desolazione spirituale, del buio interiore, quando le cose non vanno bene e la tristezza entra tanto forte nel cuore. “Signore, Dio della mia salvezza, davanti a Te grido giorno e notte”: le parole sono forti! È quello che ha fatto Giobbe: “Grido, giorno e notte. Per favore, tendi l’orecchio alla mia supplica”». Insomma «è una preghiera» che consiste nel «bussare alla porta, ma con forza: “Signore, io sono sazio di sventure. La mia vita è sull’orlo degli inferi. Sono annoverato tra quelli che scendono nella fossa, sono come un uomo ormai senza forze”».

Nella vita, ha osservato il Papa «quante volte ci sentiamo così, senza forze». Ma «lo stesso Signore ci insegna come pregare in questi brutti momenti: “Signore, mi hai gettato nella fossa più profonda. Pesa su di me il tuo furore. Giunga fino a te la mia preghiera”. Questa è la preghiera: così dobbiamo pregare nei momenti più brutti, più oscuri, più di desolazione, più schiacciati, che ci schiacciano», ha esortato Francesco. Perché «questo è pregare con autenticità» e, in qualche modo, serve «anche sfogarsi come si è sfogato Giobbe con i figli. Come un figlio».

Dopo aver indicato il comportamento individuale da tenere nei momenti di desolazione spirituale, il Pontefice si è poi soffermato sull’accompagnamento di chi si trova in tali situazioni. Il brano biblico, infatti, continua con il racconto degli amici che sono andati a trovare Giobbe e «sono rimasti in silenzio, tanto tempo». Infatti, ha spiegato il Papa «davanti a una persona che è in questa situazione, le parole possono fare male. Soltanto, toccarlo, essere vicino», in modo «che senta la vicinanza, e dire quello che lui domanda; ma non fare discorsi».

Invece nel caso di Giobbe «si vede che gli amici dopo un certo tempo si sono annoiati del silenzio» e hanno incominciato «a fare discorsi, a dire stupidaggini». Mentre «quando una persona soffre, quando una persona è nella desolazione spirituale, si deve parlare il meno possibile e si deve aiutare con il silenzio, la vicinanza, le carezze la sua preghiera davanti al Padre».

Da qui l’attualità delle letture liturgiche. Sulla base delle quali Francesco ha espresso l’auspicio «che il Signore ci aiuti: primo, a riconoscere in noi i momenti della desolazione spirituale, quando siamo nel buio, senza speranza, e domandarci perché; secondo, a pregare come oggi ci insegna la liturgia con questo salmo 87 nel momento del buio — “giunga fino a te la mia preghiera, Signore”». E terzo, «quando mi avvicino a una persona che soffre», sia per una malattia sia per qualsiasi altra circostanza, «ma che è proprio nella desolazione: silenzio». Un silenzio, ha concluso «con tanto amore, vicinanza, carezze. E non fare discorsi che alla fine non aiutano e, anche, fanno del male».
(fonte: L'Osservatore Romano)

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Omelia di p. Aurelio Antista (VIDEO)




Omelia di p. Aurelio Antista

- XXVI domenica del Tempo Ordinario (C) -
25.09.2016


Fraternità Carmelitana 
di Barcellona Pozzo di Gotto

...Gesù ci sta raccontando una parabola, ma nella parabola c'è un contenuto, c'è un messaggio, e il messaggio è proprio l'invito a vedere, rivolto a noi, rivolto a tutti, a noi come singole persone, a noi come comunità, a noi come umanità nel suo insieme, la capacità di vedere, di scrutare e di non essere indifferenti difronte al bisogno e alla necessità dei poveri, ma di essere capaci di condividere quei beni che abbiamo, perché anche così si costruisce quella fraternità che è la vocazione che ci accomuna tutti. 
Se guardiamo la realtà del nostro mondo di oggi vediamo quanto siamo distanti da questo progetto di fraternità che ci porta a condividere i beni. Cronaca di questi giorni, quello che sta succedendo in Siria, ad Aleppo... e questa lunga schiera interminabile di migranti che fuggono dalla fame e dalla guerra e bussano alle nostre porte... e noi Paesi dell'Occidente cosa facciamo? alziamo muri per non vedere, per non guardare, alziamo reticolati per non lasciarci raggiungere, incapaci come siamo di condividere...
Il Signore ci dia occhi per vedere e sopratutto ci dia un cuore capace di compassione e ci porti a mettere in atto strategie di giustizia e di fraternità perché tutti possano sedersi alla mensa della vita...

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Il vizio più difficile da estirpare di Enzo Bianchi

Il vizio più difficile da estirpare
di Enzo Bianchi







Fin dal suo primo discorso di fine anno rivolto alla curia romana, papa Francesco non ha perso mai occasione per stigmatizzare un vizio ricorrente in ogni curia, ma anche in ogni comunità, soprattutto monastica o religiosa: le chiacchiere e la mormorazione. E le sue parole – in discorsi ufficiali come in prediche a braccio – non temono espressioni sferzanti: ha chiesto la pratica dell’“obiezione di coscienza” di fronte alle parole vane che possono uccidere, ha condannato il “terrorismo della chiacchiera”, ha messo in guardia da “mormorazioni e invidie” anche e soprattutto chi ha un ministero nella chiesa e chi vive la vita religiosa, evidenziando il “potere distruttivo” della lingua usata come arma contro i fratelli e le sorelle.

Ma cosa sono le mormorazioni e la chiacchiera? Mormorazione è parola, discorso ostile che esprime riprovazione, malumore, ma che non viene detta ad alta voce e a chi la si dovrebbe dire come eventuale correzione fraterna, bensì viene sussurrata di nascosto, celata, più simile a un rumore indistinto che a una parola umana (murmur). Rodolfo Ardente (XI secolo) così la definisce: “Murmuratio est oblocutio depressa minoris contra maiorem ob impositam sibi rei gravitatem”.

Non si dimentichi che la mormorazione è un vizio detestabile, più volte descritto nella Bibbia. Questo atteggiamento appare nei libri in cui si attesta l’uscita dall’Egitto del popolo di Israele. Nel cammino del deserto, giunto a Mara, quando l’acqua fu accertata come amara, allora “il popolo mormorò contro Mosè” (Es 15,24). Subito dopo, ecco un’altra mormorazione nel deserto di Sin, contro Mosè e Aronne, le due guide dell’esodo: “Fossimo morti per mano del Signore nella terra d’Egitto, quando eravamo seduti presso la pentola della carne, mangiando pane a sazietà! Invece ci avete fatti uscire in questo deserto per far morire di fame tutta questa moltitudine” (Es 16,3). Ed è lo stesso Mosè a definire queste parole come “mormorazioni” (Es 16,8). Poco oltre, a Refidim, “il popolo mormorò contro Mosè” (Es 17,3). Anche Maria e Aronne, sorella e fratello di Mosè, mormorarono contro di lui (“parlarono contro Mosè”: Nm 12,1) e ricevettero da Dio il castigo della lebbra (cf. Nm 12,9-10).

Mormorazioni che sono contestazioni alla guida, all’autorità, ma non rivolte direttamente al destinatario, bensì mosse di nascosto, quando è possibile dare giudizi, aumentare fatti avvenuti, manipolarli, non essendoci chi potrebbe e avrebbe il sacrosanto diritto di spiegare, difendersi o acconsentire umilmente alla critica. I salmi storici ricorderanno queste mormorazioni e la loro sanzione, rinnovando sempre l’invito a non partecipare a esse. Solo un esempio, che mostra tra l’altro come la mormorazione sia strettamente legata alla mancanza di fede (cf. anche Es 16,8): “Non credono alla parola del Signore, nelle loro tende continuano a mormorare, non ascoltano la sua voce” (Sal 106,24-25). Colpisce, infine, che l’umile e povero resto di Israele sia presentato con un tratto che riguarda proprio l’uso della parola: “Non proferiranno menzogna, non si troverà più nella loro bocca una lingua fraudolenta” (Sof 3,13).

Nel Nuovo Testamento, oltre alle mormorazioni rivolte contro Gesù dai suoi avversari (cf. Lc 5,30; Gv 6,41.43.61) o dalle folle (cf. Gv 7,12.32), è impressionante notare con quanta insistenza gli scritti apostolici mettano in guardia da questo terribile vizio:

Non mormorate, come mormorarono alcuni di loro [i figli di Israele nel deserto], e caddero vittime dello sterminatore (1Cor 10,10).

Fate tutto senza mormorare (Fil 2,14).

Praticate l’ospitalità gli uni verso gli altri, senza mormorare (1Pt 4,9).

Le mormorazioni sembrano dunque il vizio più ricorrente delle comunità: perché? Perché sono il modo più facile di sfogare la violenza verso l’autorità e le sue decisioni o verso altri in comunità, quando non si ha il coraggio del faccia a faccia, del rivolgere la parola chiaramente a chi giudichiamo bisognoso di correzione e di critica, oppure del prendere la parola nei contesti comunitari come il capitolo quotidiano. E se non si ha il coraggio del faccia a faccia, perché non esprimere la critica a uno dei membri del consiglio, istituito anche per questo, o a due o tre anziani, secondo l’insegnamento evangelico (cf. Mt 18,15-17)? Gli ignavi, i paurosi, quelli che non hanno una postura di verità nella trasparenza, ricorrono facilmente alla mormorazione, soprattutto verso l’autorità, chiedono di non essere giudicati da quell’autorità che loro giudicano di nascosto.

La mormorazione, poi, crea complicità. Chi infatti ha una difficoltà con l’autorità o non è leale, sapendo che un altro è nella stessa difficoltà, mormora con lui: in tal modo si crea una complicità-contro, si mostra un appoggio fraterno all’altro, gli si è solidali, e così l’altro ci sente dalla sua parte, e di conseguenza sarà più solidale o amico con chi appoggia le sue critiche e le sue accuse. Queste sono operazioni a volte inconsce, ma che sono scoperte da chi s’interroga sulla propria responsabilità, cerca di conoscerci anche nelle sue zone d’ombra e di cattiveria, cerca di essere sincero e trasparente.

Sì, nella mormorazione giudichiamo l’altro, lo contestiamo, ci alleiamo contro di lui, nutrendoci dell’inimicizia che ci abita e che vorrebbe la negazione dell’altro, soprattutto se l’altro ci ricorda il limite, la legge, la regola, il Vangelo. Non è forse più semplice, a costo di sbagliare, andare dall’altro e in un faccia a faccia dirgli ciò che pensiamo e come giudichiamo, assumendoci tutta la responsabilità che è richiesta per azioni e parole proprie? Abba Iperechio diceva: “Il monaco che insinua malignità disperde una moltitudine di monaci e separa una comunione” (Agli asceti 151). E ancora: “È meglio mangiare carne e bere vino piuttosto che divorare con la maldicenza le carni dei fratelli!”(Ibid. 144).

Per trovare un’ispirazione ai reiterati interventi di papa Francesco contro i pericoli della lingua e in particolare sull’esigenza di praticare l’obiezione di coscienza alle chiacchiere, basta leggere questo detto di abba Isaia:

Se un fratello ti costringe ad ascoltare calunnie contro un suo fratello, non lasciarti intimidire e non credergli, peccando contro Dio, ma digli piuttosto: “Sono un pover’uomo: ciò che mi dici riguarda me e non sono in grado di portarne il peso”. (Discorsi ascetici 4,1)

Sappiamo tutti che la mormorazione è uno dei grandi problemi della vita monastica, forse il vizio più difficile da estirpare. È una malattia che porta a giudicare costantemente ogni azione, ogni gesto, ogni parola degli altri con occhio cattivo: “Se il tuo occhio è cattivo, allora tu sarai interamente nella tenebra” (Mt 6,23; cf. Mc 11,34), ha detto Gesù. San Benedetto propone come antidoto l’umiliazione che porta all’umiltà, e più volte nella Regola condanna la mormorazione (cf. 4,39; 5,14-19; 34,6; 35,13; 41,5; 53,18), arrivando quasi a supplicare: “Questo soprattutto raccomandiamo, di astenersi dal mormorare” (40,9). Ma in tutta la letteratura monastica – in san Pacomio, in san Basilio, nella Regola di san Colombano e in quella di san Fruttuoso, fino a san Francesco (Regola non bollata XI) – si ricorda che la mormorazione, tra i peccati più gravi, se persiste merita l’espulsione dal monastero, perché chi mormora divide, sgretola, uccide la comunità e il vincolo di carità che la tiene insieme: “Alienus sit a fratrum unitate qui murmurat” (Benedetto di Aniane).

E la chiacchiera? La chiacchiera è più quotidiana ed estesa, anche se meno grave. Non ha di mira tanto l’autorità, ma ama sostare su problemi e vicende che riguardano gli altri. Nella chiacchiera si inventano molte cose, magari senza calunnie, ma le parole hanno il loro peso e di solito influenzano chi le ascolta o lo ispirano a pensare in un determinato modo. Nella chiacchiera, inoltre, si interpretano soggettivamente i fatti o le parole, ma si pretende di essere oggettivi e soprattutto si distorcono molti messaggi, molti significati, o non dicendo tutto, oppure calcando, mettendo in evidenza alcune parole ascoltate rispetto ad altre. Sì, chiacchiera come bavardage, come pettegolezzo, come noncuranza e stupidità di chi non sa ciò che dice, come lingua irrefrenabile, incapacità di tacere portando il peso di una solitudine che è costitutiva per ciascuno di noi… Scrive Giacomo nella sua lettera: “Chi sa tenere a freno la lingua è un giusto, un maturo” (cf. Giac 3,2), perché “la lingua è un fuoco, un mondo di male” (Gc 3,6).

Nelle curie come nelle comunità c’è sempre chi, non appena incontra qualcuno, deve parlare degli altri e parlarne male. Non hanno molte cose da dirsi, perché hanno un “io minimo” e vivono in un mondo piccolo e angusto, perché restano oziosi e così riempiono con le chiacchiere il loro tempo, perché non vogliono guardarsi dentro e contemplare le proprie opacità. Diventano esperti/e a riconoscerle negli altri e a parlarne sempre, in ogni occasione. Ma i chiacchieroni e i mormoratori sono facili da discernere, basta qualche anno e si rivelano per quello che sono: fratelli e sorelle inaffidabili, che, soprattutto se corretti, hanno sempre ragioni per difendersi e per non assumere la responsabilità delle parole che dicono. Si giustificano con “il loro disagio”, con “il sentito dire”, con “la loro sofferenza”, addossando sempre la responsabilità agli altri, senza mai interrogarsi sulle proprie responsabilità.

Non sorprende allora che papa Francesco, proprio nel discorso di chiusura dell’anno della vita consacrata, abbia voluto tornare con forza sulla metafora del “terrorismo delle chiacchiere”: “Chi chiacchiera è un terrorista, è un terrorista dentro la propria comunità, perché butta come una bomba la parola contro questo o quello e poi se ne va tranquillo: chi fa questo distrugge come una bomba e lui si allontana”. Sta a ciascuno di noi disinnescare questi ordigni mortiferi.

(Fonte:Osservatore Romano)

lunedì 26 settembre 2016

Giubileo dei catechisti 18/09/2016 Papa Francesco: «Un cristiano deve fare la storia!» Omelia - «Carissimi catechisti... la Madonna vi aiuti a perseverare nel cammino della fede e a testimoniare con la vita ciò che trasmettete nella catechesi.» Angelus (foto, testo e video)

 GIUBILEO DEI CATECHISTI 

 25 settembre 2016 
 Santa Messa con Papa Francesco 


Papa Francesco è entrato in processione in piazza San Pietro e, davanti a migliaia di catechisti, arrivati a Roma da tutto il mondo e riuniti per celebrare il loro Giubileo della Misericordia, ha celebrato la Santa messa pronunciando una delle sue omelie più belle perché chiara, coraggiosa, semplice e profonda. Nelle sue riflessioni il Santo Padre ha affrontato per primo con notevole originalità la questione del rapporto fra messaggio di salvezza e comunicazione e poi la questione dell'essere autentici discepoli di Cristo. Non occorre spiegare nulla. Le parole del Papa (di seguito il testo integrale) sono precise e cristalline. Non occorrono interpretazioni.




 Omelia 

L’Apostolo Paolo nella seconda lettura rivolge a Timoteo, ma anche a noi, alcune raccomandazioni che gli stanno a cuore. Tra queste, chiede di «conservare senza macchia e in modo irreprensibile il comandamento» (1 Tm 6,14). Parla semplicemente di un comandamento. Sembra che voglia farci tenere fisso lo sguardo su ciò che è essenziale per la fede. San Paolo, infatti, non raccomanda tanti punti e aspetti, ma sottolinea il centro della fede. Questo centro attorno al quale tutto ruota, questo cuore pulsante che dà vita a tutto è l’annuncio pasquale, il primo annuncio: il Signore Gesù è risorto, il Signore Gesù ti ama, per te ha dato la sua vita; risorto e vivo, ti sta accanto e ti attende ogni giorno. Non dobbiamo mai dimenticarlo. 
In questo Giubileo dei catechisti, ci è chiesto di non stancarci di mettere al primo posto l’annuncio principale della fede: il Signore è risorto. Non ci sono contenuti più importanti, nulla è più solido e attuale. Ogni contenuto della fede diventa bello se resta collegato a questo centro, se è attraversato dall’annuncio pasquale. Invece, se si isola, perde senso e forza. Siamo chiamati sempre a vivere e annunciare la novità dell’amore del Signore: “Gesù ti ama veramente, così come sei. Fagli posto: nonostante le delusioni e le ferite della vita, lasciagli la possibilità di amarti. Non ti deluderà”.

Il comandamento di cui parla San Paolo ci fa pensare anche al comandamento nuovo di Gesù: «che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi» (Gv 15,12). È amando che si annuncia Dio-Amore: non a forza di convincere, mai imponendo la verità, nemmeno irrigidendosi attorno a qualche obbligo religioso o morale. Dio si annuncia incontrando le persone, con attenzione alla loro storia e al loro cammino. Perché il Signore non è un’idea, ma una Persona viva: il suo messaggio passa con la testimonianza semplice e vera, con l’ascolto e l’accoglienza, con la gioia che si irradia. Non si parla bene di Gesù quando si è tristi; nemmeno si trasmette la bellezza di Dio solo facendo belle prediche. Il Dio della speranza si annuncia vivendo nell’oggi il Vangelo della carità, senza paura di testimoniarlo anche con forme nuove di annuncio.

Il Vangelo di questa Domenica ci aiuta a capire che cosa vuol dire amare, soprattutto ad evitare alcuni rischi. Nella parabola c’è un uomo ricco, che non si accorge di Lazzaro, un povero che «stava alla sua porta» (Lc 16,20). Questo ricco, in realtà, non fa del male a nessuno, non si dice che è cattivo. Ha però un’infermità più grande di quella di Lazzaro, che pure era «coperto di piaghe» (ibid.): questo ricco soffre di una forte cecità, perché non riesce a guardare al di là del suo mondo, fatto di banchetti e bei vestiti. Non vede oltre la porta di casa sua, dove giace Lazzaro, perché non gli interessa quello che succede fuori. Non vede con gli occhi perché non sente col cuore. Nel suo cuore è entrata la mondanità che anestetizza l’anima. La mondanità è come un “buco nero” che ingoia il bene, che spegne l’amore, perché fagocita tutto nel proprio io. Allora si vedono solo le apparenze e non ci si accorge degli altri, perché si diventa indifferenti a tutto. Chi soffre questa grave cecità assume spesso comportamenti “strabici”: guarda con riverenza le persone famose, di alto rango, ammirate dal mondo, e distoglie lo sguardo dai tanti Lazzaro di oggi, dai poveri e dai sofferenti che sono i prediletti del Signore.

Ma il Signore guarda a chi è trascurato e scartato dal mondo. Lazzaro è l’unico personaggio, in tutte le parabole di Gesù, ad essere chiamato per nome. Il suo nome vuol dire: “Dio aiuta”. Dio non lo dimentica, lo accoglierà nel banchetto del suo Regno, insieme ad Abramo, in una ricca comunione di affetti. L’uomo ricco, invece, nella parabola non ha neppure un nome; la sua vita cade dimenticata, perché chi vive per sé non fa la storia. E un cristiano deve fare la storia! Deve uscire da se stesso, per fare la storia! Ma chi vive per sé non fa la storia. L’insensibilità di oggi scava abissi invalicabili per sempre. E noi siamo caduti, in questo momento, in questa malattia dell’indifferenza, dell’egoismo, della mondanità.

C’è un altro particolare nella parabola, un contrasto. La vita opulenta di quest’uomo senza nome è descritta come ostentata: tutto in lui reclama bisogni e diritti. Anche da morto insiste per essere aiutato e pretende i suoi interessi. La povertà di Lazzaro, invece, si esprime con grande dignità: dalla sua bocca non escono lamenti, proteste o parole di disprezzo. È un insegnamento valido: come servitori della parola di Gesù siamo chiamati a non ostentare apparenza e a non ricercare gloria; nemmeno possiamo essere tristi o lamentosi. Non siamo profeti di sventura che si compiacciono di scovare pericoli o de­viazioni; non gente che si trincera nei propri ambienti, emettendo giudizi amari sulla società, sulla Chiesa, su tutto e tutti, inquinando il mondo di negatività. Lo scetticismo lamentevole non appartiene a chi è familiare con la Parola di Dio.

Chi annuncia la speranza di Gesù è portatore di gioia e vede lontano, ha orizzonti, non ha un muro che lo chiude; vede lontano perché sa guardare al di là del male e dei problemi. Al tempo stesso vede bene da vicino, perché è attento al prossimo e alle sue necessità. Il Signore oggi ce lo chiede: dinanzi a tanti Lazzaro che vediamo, siamo chiamati a inquietarci, a trovare vie per incontrare e aiutare, senza delegare sempre ad altri o dire: “ti aiuterò domani, oggi non ho tempo, ti aiuterò domani”. E questo è un peccato. Il tempo per soccorrere gli altri è tempo donato a Gesù, è amore che rimane: è il nostro tesoro in cielo, che ci procuriamo qui sulla terra.

In conclusione, cari catechisti e cari fratelli e sorelle, il Signore ci dia la grazia di essere rinnovati ogni giorno dalla gioia del primo annuncio: Gesù è morto e risorto, Gesù ci ama personalmente! Ci doni la forza di vivere e annunciare il comandamento dell’amore, superando la cecità dell’apparenza e le tristezze mondane. Ci renda sensibili ai poveri, che non sono un’appendice del Vangelo, ma una pagina centrale, sempre aperta davanti a tutti.

Guarda il video dell'omelia


 Angelus 
Cari fratelli e sorelle,

ieri, a Würzburg (Germania), è stato proclamato Beato Engelmar Unzeitig, sacerdote della Congregazione dei Missionari di Mariannhill. Ucciso in odio alla fede nel campo di sterminio di Dachau, egli all’odio contrappose l’amore, alla ferocia rispose con la mitezza. Il suo esempio ci aiuti ad essere testimoni di carità e di speranza anche in mezzo alle tribolazioni.

Mi associo ben volentieri ai Vescovi del Messico nel sostenere l’impegno della Chiesa e della società civile in favore della famiglia e della vita, che in questo tempo richiedono speciale attenzione pastorale e culturale in tutto il mondo. E inoltre assicuro la mia preghiera per il caro popolo messicano, perché cessi la violenza che in questi giorni ha colpito anche alcuni sacerdoti.

Oggi ricorre la Giornata Mondiale del Sordo. Desidero salutare tutte le persone sorde, qui pure rappresentate, e incoraggiarle a dare il loro contributo per una Chiesa e una società sempre più capaci di accogliere tutti.

E infine rivolgo il mio speciale saluto a tutti voi, carissimi catechisti! Grazie del vostro impegno nella Chiesa al servizio dell’evangelizzazione, nella trasmissione della fede. La Madonna vi aiuti a perseverare nel cammino della fede e a testimoniare con la vita ciò che trasmettete nella catechesi.

Angelus Domini…

Guarda il video integrale