mercoledì 31 agosto 2016

Papa Francesco istituisce il dicastero «per il servizio dello sviluppo umano integrale» e si occuperà personalmente della sezione che seguirà la questione di profughi e migranti


Nasce il dicastero «per il servizio dello sviluppo umano integrale». Il nuovo organismo è stato istituito da Papa Francesco con il motu proprio approvato il 17 agosto scorso, su proposta del Consiglio di cardinali, e pubblicato sull’Osservatore Romano insieme al relativo statuto.

Nel dicastero confluiranno, dal 1° gennaio 2017, gli attuali Pontifici Consigli della giustizia e della pace, Cor Unum, della pastorale per i migranti e gli itineranti e della pastorale per gli operatori sanitari. In quella data i quattro dicasteri cesseranno dalle loro funzioni e verranno soppressi, essendo abrogati gli articoli 142-153 della costituzione apostolica Pastor bonus. In tal modo il nuovo organismo assumerà «la sollecitudine della Santa Sede per quanto riguarda la giustizia e la pace, incluse le questioni relative alle migrazioni, la salute, le opere di carità e la cura del creato», come si legge nel primo paragrafo dello statuto.

Una sezione del nuovo dicastero esprime in maniera speciale la sollecitudine del Papa per i profughi ed i migranti. Infatti, non può esserci oggi un servizio allo sviluppo umano integrale senza una particolare attenzione al fenomeno migratorio. Per questo tale sezione è posta ad tempus direttamente sotto la guida del Pontefice, come dispone il paragrafo 4 dell’articolo 1 dello statuto. Presso il dicastero sono costituite anche tre commissioni: per la carità, per l’ecologia e per gli operatori sanitari.
I testi del motuproprio e dello statuto sono stati resi noti nella mattina di mercoledì 31, insieme con la nomina del prefetto del nuovo dicastero, affidato da Francesco al cardinale Peter Kodwo Appiah Turkson, attualmente presidente del Pontificio Consiglio della giustizia e della pace.
(fonte: L'Osservatore Romano 31 agosto 2016)

Di seguito il testo integrale del motu proprio


LETTERA APOSTOLICA
IN FORMA DI «MOTU PROPRIO»
DEL SOMMO PONTEFICE
FRANCESCO
con la quale si istituisce il
Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale

In tutto il suo essere e il suo agire, la Chiesa è chiamata a promuovere lo sviluppo integrale dell’uomo alla luce del Vangelo. Tale sviluppo si attua mediante la cura per i beni incommensurabili della giustizia, della pace e della salvaguardia del creato. Il Successore dell’apostolo Pietro, nella Sua opera in favore dell’affermazione di tali valori, adatta continuamente gli organismi che collaborano con Lui, affinché possano meglio venire incontro alle esigenze degli uomini e delle donne che essi sono chiamati a servire.

Pertanto, allo scopo di attuare la sollecitudine della Santa Sede nei suddetti ambiti, come pure in quelli che riguardano la salute e le opere di carità, istituisco il Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale. Tale Dicastero sarà particolarmente competente nelle questioni che riguardano le migrazioni, i bisognosi, gli ammalati e gli esclusi, gli emarginati e le vittime dei conflitti armati e delle catastrofi naturali, i carcerati, i disoccupati e le vittime di qualunque forma di schiavitù e di tortura.

Nel nuovo Dicastero, retto dallo Statuto che in data odierna approvo ad experimentum, confluiranno, dal 1° gennaio 2017, le competenze degli attuali seguenti Pontifici Consigli: il Pontificio Consiglio per la Giustizia e per la Pace, il Pontificio Consiglio “Cor Unum”, il Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti ed il Pontificio Consiglio della Pastorale per gli Operatori Sanitari. In quella data questi quattro Dicasteri cesseranno dalle loro funzioni e verranno soppressi, rimanendo abrogati gli articoli 142-153 della Costituzione apostolica Pastor Bonus.

Quanto deliberato con questa Lettera apostolica in forma di “motu proprio”, ordino che abbia fermo e stabile vigore, nonostante qualsiasi cosa contraria anche se degna di speciale menzione, e che sia promulgato tramite pubblicazione su L’Osservatore Romano, quindi pubblicato sugli Acta Apostolicae Sedis, entrando in vigore il 1° gennaio 2017.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 17 agosto 2016, Giubileo della Misericordia, quarto del mio Pontificato.
Francesco


STATUTO DEL DICASTERO
PER IL SERVIZIO DELLO SVILUPPO UMANO INTEGRALE

Articolo 1

Nome

§1. Il Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale assume la sollecitudine della Santa Sede per quanto riguarda la giustizia e la pace, incluse le questioni relative alle migrazioni, la salute, le opere di carità e la cura del creato.

§2. Il Dicastero promuove lo sviluppo umano integrale alla luce del Vangelo e nel solco della dottrina sociale della Chiesa. A tal fine, esso intrattiene relazioni con le Conferenze Episcopali, offrendo la sua collaborazione affinché siano promossi i valori concernenti la giustizia, la pace, nonché la cura del creato.

§3. Il Dicastero esprime pure la sollecitudine del Sommo Pontefice verso l’umanità sofferente, tra cui i bisognosi, i malati e gli esclusi, e segue con la dovuta attenzione le questioni attinenti alle necessità di quanti sono costretti ad abbandonare la propria patria o ne sono privi, gli emarginati, le vittime dei conflitti armati e delle catastrofi naturali, i carcerati, i disoccupati e le vittime delle forme contemporanee di schiavitù e di tortura e le altre persone la cui dignità è a rischio.

§4. Una Sezione del Dicastero si occupa specificamente di quanto concerne i profughi e migranti. Questa sezione è posta ad tempus sotto la guida del Sommo Pontefice che la esercita nei modi che ritiene opportuni.
...


Leggi il testo integrale dello statuto del nuovo dicastero



Dio non è onnipotente: la fede e i dubbi davanti al dolore di Alberto Maggi


IL DIO IMPOTENTE
di Alberto Maggi

Il Concilio Vaticano II richiama l’enorme responsabilità, da parte dei cristiani, della presentazione di un Dio che, spesso, in nessun modo corrisponde a quello delvangelo, errata immagine che è una delle cause del rifiuto di Dio. Questo fa sì che molti non credenti “si rappresentano Dio in modo tale che quella rappresentazione che essi rifiutano, in nessun modo è il Dio del vangelo” (GS 19). Una delle cause dell’ateismo è il rifiuto di un Dio onnipotente. La logica non lascia scampo: se Dio è onnipotente allora non è buono, se è buono allora non è onnipotente. Altrimenti come si spiegherebbe l’impassibilità di Dio di fronte alle calamità che affliggono l’umanità? Come può permettere questo Dio onnipotente la sofferenza degli innocenti? E così questo Dio viene rifiutato.

Ma Dio è onnipotente? Vanamente si cercherebbe nella Bibbia questo attributo divino, anche se in certe edizioni confessionali della Scrittura si mantiene il termine per poi negarlo in nota. Esempio clamoroso è la Bibbia di Gerusalemme (testo CEI), dove si legge: “Quando Abram ebbe novantanove anni, il Signore gli apparve e gli disse: Io sono Dio l’Onnipotente” (Gen 17,1). Ma poi nella nota al versetto si legge: “La traduzione comune “onnipotente”, seguita dalla BC, è inesatta”.

Ma da dove nasce questa traduzione errata che tanto ha influito (negativamente) nella spiritualità e nella formazione dei credenti invitati a credere in un Dio onnipotente, ma della cui onnipotenza non avevano alcuna esperienza?

Nell’ebraismo, nel lungo cammino verso l’unicità di un solo Dio, JHWH, vennero assunti parecchi tratti delle divinità pagane, che sarà compito poi dei profeti e degli autori dei testi sacri eliminare via via per far risaltare l’originalità di quest’unica divinità. JHWH era il Dio più importante, il Dio nazionale di Israele, ma conviveva con altre divinità fenicie, assire e babilonesi (Es 15,11) e nella figura di JHWH vengono fuse due divinità chiamate Zebaoth e Shaddaj, cioè le schiere celesti, considerate animate, e il dio delle montagne. Questi due nomi vengono assorbiti e fatti proprio da Dio, che viene presentato come JHWH Zebaoth (Signore degli eserciti)

Girolamo, il grande intellettuale incaricato da papa Damaso nel 380 di tradurre in latino l’Antico Testamento dall’ebraico e di rivedere le varie traduzioni dei vangeli, trovandosi di fronte a questi due nomi difficili da interpretare, tradusse entrambi con “Deus Omnipotens” (Gen 17,1; 1 Sam 4,4), pensando così di rendere la traduzione greca (LXX) che aveva tradotto entrambi i termini con pantokrator,“Signore di tutto/Sovrano universale”.

Si può pertanto ancora continuare a sostenere che Dio è onnipotente? Dipende da che cosa s’intende per Dio. Se è il Padre di Gesù, che è Amore, senz’altro l’amore è onnipotente, ma per manifestarsi deve trovare chi accoglie questo amore. Nell’immagine della vite e dei tralci Gesù paragona se stesso a una vigna e i credenti a dei tralci: la linfa vitale scorre nella vite ma per portare frutto deve trovare un tralcio che l’accolga. (Gv 15,1-17), in questo caso l’amore è onnipotente e produce vita. Solo così si comprende lo scandalo dell’impotenza di un Dio che lascia morire l’unico figlio nel patibolo riservato agli infami. La sua onnipotenza non si manifesta facendo scendere il Figlio dal patibolo, ma dandogli la forza di avere sempre e solo risposte d’amore anche verso i suoi carnefici: “Padre, perdona loro…” (Lc 23,43).


martedì 30 agosto 2016

Omelia di p. Aurelio Antista (VIDEO) - 28/08/2016 - XXII Domenica del Tempo Ordinario / C




Omelia di p. Aurelio Antista

- XXII Domenica del Tempo Ordinario (C) -
28.08.2016


Fraternità Carmelitana 
di Barcellona Pozzo di Gotto


... Dio in Gesù, nel Figlio, sceglie per sé l'ultimo posto. Adesso Gesù, che è in cammino verso Gerusalemme e sta instaurando il Regno di Dio, ci propone alcuni atteggiamenti che fanno crescere in noi il Regno e rendono noi cittadini di questo Regno. Lui ci chiede di scegliere l'ultimo posto, di essere umili; l'umiltà che non è disprezzo di sé, non è non valorizzare i propri doni, le proprie capacità, l'umiltà è la consapevolezza di ciò che siamo, tutti quanti, siamo creature deboli e fragili e gli eventi di questi giorni ce lo hanno ricordato in modo drammatico. Facciamo la corsa per avere, per accumulare, per stare bene, tutte cose belle e giuste, ma basta un momento, un tremolio della terra e possiamo perdere la vita, la casa, ogni bene, La fragilità estrema della nostra condizione umana rappresentata in questo dramma estremo del terremoto come in tanti altri drammi della vita e della storia...

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L'uomo davanti alla rabbia della natura di Enzo Bianchi


L'uomo davanti alla rabbia della natura
 di Enzo Bianchi

Davanti alla tragicità di eventi come questo terremoto dovremmo vigilare affinché l’angoscia del restare “senza parole” non sia anestetizzata dal ripetere parole senza senso. Sentire che ai sopravvissuti Dio avrebbe fatto la grazia di non essere travolti dal terremoto, fa intendere che Dio l’avrebbe al contempo rifiutata a chi invece è morto. Chi si è salvato potrebbe allora gridare al miracolo, ma quanti sono rimasti schiacciati dalle macerie, a cominciare da tanti bambini, avrebbero conosciuto solo il volto di un Dio irato.

Non è questa la fede cristiana, così come non lo è l’affibbiare implicitamente al Dio di Gesù Cristo il nome di “destino”: retaggio di una mentalità “pagana” che secoli di cristianesimo non hanno mai superato definitivamente. La nostra vita è stata affidata alle nostre mani, mani fragili, mani capaci anche di commettere il male, mani più sovente responsabili di omissioni nei confronti del bene. La tradizione ebraica – che per secoli ha dovuto tragicamente confrontarsi con l’abisso del male, sovente compiuto dagli esseri umani, pur creati a immagine e somiglianza di Dio – ha elaborato la nozione dello tzim-tzum, del “ritrarsi” di Dio di fronte alla creazione per fare spazio a questa realtà autonoma. Secondo i rabbini, Dio nella sua onnipotenza è riuscito a creare una montagna che neppure lui è in grado di scalare: questa montagna che ormai si erge di fronte a Dio è l’essere umano nella sua libertà, ma è anche la creazione nella sua autonomia. Dio non ha abbandonato la creazione, non si è isolato impassibile altrove, ma per garantire all’essere umano pienezza di libertà e per non esercitare alcun tipo di costrizione, non si nasconde cinicamente dietro forze caotiche e cieche, come un regista che mette in scena la storia a suo piacimento.

Allora, di fronte a una tragedia naturale come quella del terremoto, i cristiani, in nome della loro sequela di un Signore crocifisso che ha preso su di sé la violenza e il dolore, fino alla morte ignominiosa patita da innocente, devono impegnarsi nell’acquisire e nel condividere una sapienza necessaria all’intera umanità. Essi sanno che l’essere umano possiede la tecnica – di per sé “neutra” – e la capacità di orientarla e anche pervertirla con la sua volontà egoistica, con l’accaparramento dei beni della terra, eludendo l’esigenza di una distribuzione universale delle risorse del pianeta. Così come, credenti e non credenti, sappiamo tutti che la natura possiede sì forze intrinseche che sfuggono al controllo umano, ma sappiamo anche che prevenzione, salvaguardia del territorio, atteggiamento di rispetto del creato e di ricerca di armonia con esso possono contenerne la forza bruta che si scatena.

Ora sta a tutti, in una solidarietà umana che varca ogni confine di religione e fede, impegnarsi in modo serio e perseverante nell’aiuto alle popolazioni colpite: non basta l’emotività passeggera, non basta la commozione di un momento, tanto più intensa quanto più da vicino la tragedia ci riguarda: occorre un impegno serio e continuo, non solo per ricostruire, ma per farlo in modo previdente e lungimirante, perché ai nostri giorni le cause di una tragedia “naturale” e soprattutto le sue dimensioni, non sono mai interamente ineluttabili, ma sono determinate anche da comportamenti e scelte politiche ed economiche, dalle priorità assegnate ai diversi campi di ricerca e di investimento, dal modo di sfruttare la terra e le sue risorse.

Anche da questa consapevolezza dipenderà la capacità dei cristiani di trovare il modo di agire per il bene comune e le parole per narrare, anche di fronte all’atrocità di tante morti assurde, la propria fede in un Dio di amore.

Pubblicato su: La Stampa 28/08/2016


lunedì 29 agosto 2016

"Dio paga molto di più degli uomini!" Papa Francesco Angelus 28/08/2016 (testo e video)



 28 agosto 2016 


Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

L’episodio del Vangelo di oggi ci mostra Gesù nella casa di uno dei capi dei farisei, intento ad osservare come gli invitati a pranzo si affannano per scegliere i primi posti. È una scena che abbiamo visto tante volte: cercare il posto migliore anche “con i gomiti”. Nel vedere questa scena, egli narra due brevi parabole con le quali offre due indicazioni: una riguarda il posto, l’altra riguarda la ricompensa.

La prima similitudine è ambientata in un banchetto nuziale. Gesù dice: «Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: “Cedigli il posto!”… Invece, quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto» (Lc 14,8-9). Con questa raccomandazione, Gesù non intende dare norme di comportamento sociale, ma una lezione sul valore dell’umiltà. La storia insegna che l’orgoglio, l’arrivismo, la vanità, l’ostentazione sono la causa di molti mali. E Gesù ci fa capire la necessità di scegliere l’ultimo posto, cioè di cercare la piccolezza e il nascondimento: l’umiltà. Quando ci poniamo davanti a Dio in questa dimensione di umiltà, allora Dio ci esalta, si china verso di noi per elevarci a sé; «perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato» (v. 11).

Le parole di Gesù sottolineano atteggiamenti completamente diversi e opposti: l’atteggiamento di chi si sceglie il proprio posto e l’atteggiamento di chi se lo lascia assegnare da Dio e aspetta da Lui la ricompensa. Non dimentichiamolo: Dio paga molto di più degli uomini! Lui ci dà un posto molto più bello di quello che ci danno gli uomini! Il posto che ci dà Dio è vicino al suo cuore e la sua ricompensa è la vita eterna. «Sarai beato – dice Gesù – … Riceverai la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti» (v. 14).

È quanto viene descritto nella seconda parabola, nella quale Gesù indica l’atteggiamento di disinteresse che deve caratterizzare l’ospitalità, e dice così: «Quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi e ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti» (vv. 13-14). Si tratta di scegliere la gratuità invece del calcolo opportunistico che cerca di ottenere una ricompensa, che cerca l’interesse e che cerca di arricchirsi di più. Infatti i poveri, i semplici, quelli che non contano, non potranno mai ricambiare un invito a mensa. Così Gesù dimostra la sua preferenza per i poveri e gli esclusi, che sono i privilegiati del Regno di Dio, e lancia il messaggio fondamentale del Vangelo che è servire il prossimo per amore di Dio. Oggi, Gesù si fa voce di chi non ha voce e rivolge a ciascuno di noi un accorato appello ad aprire il cuore e fare nostre le sofferenze e le ansie dei poveri, degli affamati, degli emarginati, dei profughi, degli sconfitti dalla vita, di quanti sono scartati dalla società e dalla prepotenza dei più forti. E questi scartati rappresentano in realtà la stragrande maggioranza della popolazione.

In questo momento, penso con gratitudine alle mense dove tanti volontari offrono il loro servizio, dando da mangiare a persone sole, disagiate, senza lavoro o senza fissa dimora. Queste mense e altre opere di misericordia – come visitare gli ammalati, i carcerati… – sono palestre di carità che diffondono la cultura della gratuità, perché quanti vi operano sono mossi dall’amore di Dio e illuminati dalla sapienza del Vangelo. Così il servizio ai fratelli diventa testimonianza d’amore, che rende credibile e visibile l’amore di Cristo.

Chiediamo alla Vergine Maria di condurci ogni giorno sulla via dell’umiltà, Lei che è stata umile tutta la vita, e di renderci capaci di gesti gratuiti di accoglienza e di solidarietà verso gli emarginati, per diventare degni della ricompensa divina.

Dopo l'Angelus:

Cari fratelli e sorelle,

desidero rinnovare la mia vicinanza spirituale agli abitanti del Lazio, delle Marche e dell’Umbria, duramente colpiti dal terremoto di questi giorni. Penso in particolare alla gente di Amatrice, Accumoli, Arquata e Pescara del Tronto, Norcia. Ancora una volta dico a quelle care popolazioni che la Chiesa condivide la loro sofferenza e le loro preoccupazioni. Preghiamo per i defunti e per i superstiti. La sollecitudine con cui Autorità, forze dell’ordine, protezione civile e volontari stanno operando, dimostra quanto sia importante la solidarietà per superare prove così dolorose. Cari fratelli e sorelle, appena possibile anch’io spero di venire a trovarvi, per portarvi di persona il conforto della fede, l’abbraccio di padre e fratello e il sostegno della speranza cristiana. Preghiamo per questi fratelli e sorelle tutti insieme:
Ave Maria…
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...

Giovedì prossimo, 1° settembre celebreremo la Giornata mondiale di preghiera per la cura del Creato, insieme con i fratelli ortodossi e di altre Chiese: sarà un’occasione per rafforzare il comune impegno a salvaguardare la vita, rispettando l’ambiente e la natura.

Saluto adesso tutti i pellegrini provenienti dall’Italia e da diversi Paesi, in particolare ...

A tutti auguro una buona domenica e, per favore non dimenticatevi di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci!


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IL CASTIGO DI DIO… di Alberto Maggi

IL CASTIGO DI DIO…
di Alberto Maggi

Puntuali, a ogni calamità emergono i tenebrosi necrofori. Sembra che non aspettino altro che le disgrazie, sono il loro abietto alimento. I necrofori sanno che le loro argomentazioni, tremende quanto ridicole, spietate quanto disumane, non hanno alcun fondamento, ma approfittano del momento in cui le persone sono stordite dal dolore e affogate nella disperazione per scagliare le loro inappellabili sentenze, e il verdetto è sempre quello: è il castigo di Dio! E di motivi a Dio per castigare l’umanità non ne mancano, ha solo da scegliere. C’è del sadico piacere in queste persone nell’affondare il coltello sulla piaga del dolore per rivendicare che avevano ragione: l’immoralità della società, la depravazione dei costumi, l’abbandono della pratica religiosa, che cosa altro potevano portare se non terribili castighi divini?

Pur rifacendosi a Dio questi beccamorti mostrano di non conoscerlo minimamente. Dio è Amore (1 Gv 4,8), e nell’amore non c’è alcuna parvenza di castigo. Nel ritratto di Dio che l’apostolo Paolo fa nella Lettera ai Corinti si legge che “l’amore non si adira, non tiene conto del male ricevuto”, che “tutto scusa” (1 Cor 13,5.7), e la buona notizia di Gesù non contiene alcuna minaccia di castighi divini. Il Padre non castiga, perdona, lui è un Dio che nel suo amore arriva a essere “benevolo verso gli ingrati e i malvagi” (Lc 6,35). In nessun brano del vangelo si annunziano castighi per i peccatori, ma si afferma che “Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui”(Gv 3,17). È una bestemmia pensare che Dio, che ha inviato il suo unico Figlio per salvare il mondo, poi lo voglia distruggere a forza di cataclismi.

domenica 28 agosto 2016

Preghiera dei Fedeli - Fraternità Carmelitana di Pozzo di Gotto (ME) - XXII Domenica T.O. - / C





Fraternità Carmelitana 
di Pozzo di Gotto (ME)





Preghiera dei Fedeli

"Un cuore che ascolta - lev shomea" - n. 39/2015-2016 (C) di Santino Coppolino

'Un cuore che ascolta - lev shomea'
"Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere
giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male" (1Re 3,9)




Traccia di riflessione
sul Vangelo della domenica
di Santino Coppolino


Vangelo: 
Lc 14,1.7-14



Tutti veniamo invitati al banchetto di nozze, ma soltanto chi è stato guarito da Gesù dall' "idropisia""dall'egolatria" che ci rende gonfi e ci deforma, può passare dalla porta stretta ed entrare al banchetto di nozze dell'Agnello. Con questo insegnamento Gesù ci esorta ad assumere il suo stesso Spirito, lo Spirito di umiltà che è l'opposto dello spirito di protagonismo che ci trasforma in tanti idropici. Non si tratta certamente di norme di galateo o di piccoli accorgimenti per ottenere la tanto agognata poltroncina in Paradiso: è il lievito del Regno, la rivelazione del progetto del Padre che si è manifestato nel suo Figlio Gesù. Egli si è umiliato a tal punto da occupare l'ultimo posto, facendosi servo umile di tutti i fratelli. Solo in Lui, in pienezza, contempliamo come il Padre agisce nella nostra storia, facciamo esperienza che l'umiltà è la caratteristica di Dio così come Egli si è rivelato in Cristo Gesù, il quale "svuotò se stesso assumendo la forma di schiavo"(Fil 2,7). Scegliere allora nella Chiesa l'ultimo posto, scegliendo di servire gli ultimi. "L'ultimo è il posto da scegliere e da cui scegliere" (cit.) Scrive il Beato Charles de Foucauld, dopo che si era stabilito nel deserto algerino in mezzo ad una poverissima tribù di Tuareg, che egli avrebbe voluto mettersi all'ultimo posto fra i più poveri dei poveri, ma "Gesù ha già occupato l'ultimo posto a tal punto che nessuno mai ha più potuto toglierglielo ".  



sabato 27 agosto 2016

"Il posto di Dio è sempre fra gli ultimi della fila" di p. Ermes Ronchi - XXII Domenica Tempo Ordinario - anno C

Il posto di Dio è sempre fra gli ultimi della fila

Commento
XXII Domenica Tempo Ordinario (Anno C)

Letture: Siracide 3,19-21.30-31; Salmo 67; Ebrei 12,18-19.22-24; Luca 14,1.7-14


Avvenne che un sabato Gesù si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi stavano a osservarlo. Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i primi posti: «Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: “Cèdigli il posto!”. Allora dovrai con vergogna occupare l'ultimo posto. Invece, quando sei invitato, va' a metterti all'ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: “Amico, vieni più avanti!”. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato». (...)

Gesù spiazzava i benpensanti: era un rabbi che amava i banchetti, gli piaceva stare a tavola al punto di essere chiamato «mangione e beone, amico dei peccatori» (Luca 7,34); ha fatto del pane e del vino i simboli eterni di un Dio che fa vivere, del mangiare insieme un'immagine felice e vitale del mondo nuovo. 
Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i primi posti. I farisei: così devoti, così ascetici all'apparenza, e dentro divorati dall'ambizione. Gesù li contesta, citando un passo famoso, tratto dalla antica saggezza di Israele: «Non darti arie davanti al re e non metterti al posto dei grandi, perché è meglio sentirsi dire “Sali quassù”, piuttosto che essere umiliato davanti a uno più importante» (Proverbi 25,7). 
Diceva: Quando sei invitato, va a metterti all'ultimo posto, ma non per umiltà o per modestia, bensì per amore: mi metto dopo di te perché voglio che tu sia servito prima e meglio. L'ultimo posto non è un'umiliazione, è il posto di Dio, che «comincia sempre dagli ultimi della fila» (don Orione); il posto di quelli che vogliono assomigliare a Gesù, venuto per servire e non per essere servito. 
Gesù reagisce alla eterna corsa ai primi posti opponendo «a questi segni del potere il potere dei segni». Una espressione di don Tonino Bello che illustra la strategia del Maestro: Vai all'ultimo posto, non per un senso di indegnità o di svalutazione di te, ma per segno d'amore e di creatività. Perché gesti così generano un capovolgimento, un'inversione di rotta nella nostra storia, aprono il sentiero per un tutt'altro modo di abitare la terra.
Disse poi a colui che l'aveva invitato: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini». Perché poi loro ti inviteranno a loro volta, e questi sono i legami che tengono insieme un mondo immobile e conservatore, che si illude di mantenere se stesso, in un illusorio equilibrio del dare e dell'avere.
Tu invece fa come il Signore, che ama per primo, ama in perdita, ama senza contraccambio, ama senza contare e senza condizioni: Quando offri una cena invita poveri, storpi, zoppi, ciechi. Accogli quelli che nessuno accoglie, dona a quelli che non ti possono restituire niente. E sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Che strano: sembrano quattro categorie di persone infelici, eppure nascondono il segreto della felicità. Sarai beato, troverai la gioia. La troverai, l'hai trovata ogni volta che hai fatto le cose non per interesse, ma per generosità.
L'uomo per star bene deve dare. È la legge della vita. Perciò anche legge di Dio 
Sarai beato, è il segreto delle beatitudini: Dio regala gioia a chi produce amore.


TERREMOTO La storia di suor Mariana, della sua fotografia, ormai simbolo del terremoto, e la sua richiesta di impegno per i sopravvissuti

TERREMOTO
La storia di suor Mariana, 
della sua fotografia, diventata simbolo del terremoto, 
e la sua richiesta di impegno per tutti i sopravvissuti

La storia che parte da questa foto, che ritrae suor Mariana sdraiata a terra, ad Amatrice, con il volto insanguinato e l’abito coperto di polvere, è diventata l’immagine-simbolo del terremoto. 
Ma chi è suor Mariana che, lo ricordiamo, un vicino ha estratto dalle macerie della struttura religiosa nella quale si occupava di anziani? Ecco il servizio di Lucia Ascione per il TG di TV2000

GUARDA IL VIDEO
Servizio TV2000


"Bisogna stare fisicamente vicini a coloro che sono sopravvissuti e soffrono,
per poter ridare la speranza nella vita!!"
GUARDA IL VIDEO
(piccolo estratto video da "AGORA' ESTATE - Raitre del 26.08.2016)


Distruzione, morte e umanità Dov'è Dio e dov'è l'uomo di Enzo Bianchi

Il terremoto in Centro Italia

Distruzione, morte e umanità
 
Dov'è Dio dov'è l'uomo
di Enzo Bianchi


Il giorno dei funerali delle vittime del terremoto è il momento in cui il dolore dei singoli assume una dimensione e una visibilità comunitaria, sociale. Nelle bare, che sono sempre troppe, insopportabilmente troppe, sono rinchiuse le speranze di chi è rimasto sotto le macerie e di chi da quelle macerie è uscito distrutto nei suoi sentimenti più cari.

In modo misterioso, i veri celebranti del rito funebre sono proprio i morti: sono infatti le loro vite spezzate, la comunione che alimentavano attorno a sé, l’amore di cui si sono mostrati capaci ad aver convocato quanti li hanno amati e quanti hanno tragicamente scoperto la fragilità di ogni esistenza, la solidarietà nella comune debolezza umana. Non ci sono parole all’altezza di questi eventi: ciò che spetta a noi tutti è assumere, ciascuno con i propri limiti, la responsabilità di farsi prossimo con umiltà e nella compassione.

Da alcuni giorni non cessano di risuonare due domande che sono un unico grido di dolore: "Perché?" e "Dio, dove sei?". Sono domande antiche come il mondo e brutalmente nuove di fronte a ogni catastrofe. Soprattutto sono domande che ciascuno sente sgorgare in sé all’improvviso, dopo che tante volte aveva potuto illudersi che riguardassero solo gli altri. Poi, più ancora che la forza delle immagini trasmesse dai media, basta l’evocazione di un luogo conosciuto, la somiglianza con un volto familiare, il ricordo di un’amicizia lontana per rendere la disgrazia vicina, nostra.

Il "perché?" riguarda le cause del terremoto, che non sono mai solo naturali, e che dovrebbero essere affrontate con lucidità e serietà nell’immediato, ma ancor più nelle fasi successive, per dare non una risposta ma un fine a questo "perché" e renderlo un "affinché", così che il "mai più!" non risuoni come generica promessa, reiterata in modo scandalosamente inutile a ogni sciagura.

"Dio, dove sei?" invece è l’interrogativo che scuote la nostra fede nel Dio narratoci da suo figlio Gesù: un Padre che non castiga né punisce, ma che perdona, resta misericordioso e invita tutti a non peccare più. È l’antica domanda rilanciata da Voltaire dopo il terremoto di Lisbona del 1755: «O Dio è onnipotente, e allora è cattivo, oppure Dio è impotente, e allora non è il Dio in cui gli uomini credono».

Eppure tutta la tradizione spirituale ebraica e cristiana, ci dice che Dio non è lontano, è con le vittime, accanto a loro, in qualche misura partecipa alle sofferenze umane e accompagna silenziosamente ciascuna di loro per abbracciarla al di là della morte e darle quella vita promessa che è stata contraddetta e negata nella storia. Dio è misericordioso, compassionevole, fedele nell’amore: egli ci accompagna senza mai abbandonarci, anche se il male, la sofferenza e la morte restano un enigma che solo a fatica, grazie alla fede e a Gesù Cristo, può diventare mistero di vita.

Ma chiediamoci anche: può Dio intervenire nel mondo con eventi di cui lui è protagonista senza l’azione degli uomini? Può intervenire castigando o compiendo materialmente il bene senza la cooperazione degli uomini? Oppure Dio interviene solo inviando il suo spirito nella mente e nel cuore delle persone che poi agiscono per il bene o per il male? Molti cristiani oggi sono persuasi che il mondo abbia una propria autonomia da Dio, che siamo veramente liberi e che Dio non può costringerci né con il castigo né con il premio terreno e che quindi la vera domanda da porsi è "Dov’è l’uomo?".

Già Rousseau rispondeva in questi termini all’interrogativo di Voltaire. Sì, dov’è l’uomo con le sue responsabilità concrete nella mancata prevenzione, nella cattiva gestione del territorio, nel prevalere dell’interesse personale su quello comune? Eppure questi tragici eventi ci rivelano un duplice volto dell’essere umano: quello assente, irresponsabile, cinico che purtroppo ben conosciamo. Ma anche quello radicalmente "umano", quello della compassione, della dedizione spontanea, volontaria, del lanciarsi in soccorso di sconosciuti, dell’umanissimo piangere con gli altri, del ritrovare proprio scavando tra le macerie del dolore l’appartenenza all’unica famiglia umana che era andata smarrita. Ecco dov’è l’uomo, l’essere umano nella sua verità più profonda: lì, a mani nude e a cuore aperto, accanto al fratello, alla sorella nella disgrazia.

Anche oggi che siamo senza parole dobbiamo ripeterci gli uni altri che l’ultima parola non è e non sarà la morte, ma la vita piena che Dio dona a tutti noi, suoi figli e figlie: l’ultima parola spetterà a Dio, nella Pasqua eterna, quando asciugherà le lacrime dai nostri occhi, distruggerà la morte e, perdonando il male da noi compiuto, trasfigurerà questa terra in terra nuova, dimora del suo Regno.
(fonte: Avvenire 27/08/2016)


“I preti devono crescere nella capacità di discernere" Papa Francesco

“I preti devono crescere 
nella capacità di discernere"
 Papa Francesco 


La Civiltà Cattolica ha pubblicato la trascrizione del dialogo tra Papa Francesco e 28 gesuiti polacchi che l’hanno incontrato nel pomeriggio dello 30 luglio 2016 a Cracovia. Il Papa ha risposto anche ad alcune domande sui giovani, le Università dei Gesuiti e alcuni ricordi personali



Il suo messaggio arriva al cuore dei giovani. Come fa a parlare loro così efficacemente? Potrebbe darci qualche consiglio per lavorare con i giovani?
Quando parlo, devo guardare la gente negli occhi. Non è possibile guardare gli occhi di tutti, ma io guardo gli occhi di questo, di questo, di questo… e tutti si sentono guardati. È qualcosa che mi viene spontaneo. Così faccio con i giovani. Ma poi i giovani, quando parli con loro, fanno domande… Oggi a pranzo, mi hanno fatto alcune domande… Mi hanno persino chiesto come mi confesso! Loro non hanno pudore. Fanno domande dirette. E a un giovane bisogna sempre rispondere con la verità. Oggi a pranzo a un certo punto siamo arrivati a parlare della confessione. Una giovane mi ha chiesto: «Lei come si confessa?». E ha cominciato a parlarmi di sé. Mi ha detto: «Nel mio Paese ci sono stati scandali legati ai preti, e noi non abbiamo il coraggio di confessarci con il tal prete che ha vissuto questi scandali. Non ce la faccio». Vedete: ti dicono la verità, a volte ti rimproverano… 
...
Ecco: bisogna essere diretti, diretti con la verità.

Qual è il ruolo dell’Università dei gesuiti?

Una Università retta dai gesuiti deve puntare a una formazione globale e non solamente intellettuale, una formazione di tutto l’uomo. Infatti se l’Università diviene semplicemente una accademia di nozioni o una «fabbrica» di professionisti, o nella sua struttura prevale una mentalità centrata sugli affari, allora è davvero fuori strada. Noi abbiamo in mano gli Esercizi. Ecco la sfida: portare l’Università sulla strada degli Esercizi. Questo significa rischiare sulla verità e non sulle «verità chiuse» che nessuno discute. La verità dell’incontro con le persone è aperta e richiede di lasciarsi interpellare davvero dalla realtà. E l’Università dei gesuiti deve essere coinvolta anche nella vita reale della Chiesa e della Nazione: anche questa è realtà, infatti. Una particolare attenzione deve essere sempre data agli emarginati, alla difesa di coloro che hanno più bisogno di essere protetti. E questo — sia chiaro — non è essere comunisti: è semplicemente essere davvero coinvolti con la realtà. In questo caso, in particolare una Università dei gesuiti deve essere pienamente coinvolta con la realtà esprimendo il pensiero sociale della Chiesa. Il pensiero liberista, che sposta l’uomo dal centro e ha messo al centro il denaro, non è il nostro. La dottrina della Chiesa è chiara e bisogna andare avanti in questo senso.

Come mai si è fatto gesuita?
Quando sono entrato in seminario, avevo già una vocazione religiosa. Ma a quel tempo il mio confessore era anti-gesuita. Mi piacevano pure i domenicani e la loro vita intellettuale. Poi mi sono ammalato, ho dovuto subire un intervento chirurgico al polmone. In seguito  ...

In questo gruppo ci sono alcuni preti appena ordinati. Ha consigli per il loro futuro?
Tu sai: il futuro è di Dio. Il massimo che noi possiamo fare sono i futuribili. E i futuribili sono tutti del cattivo spirito! Un consiglio: il sacerdozio è una grazia davvero grande; il tuo sacerdozio come gesuita sia bagnato della spiritualità che tu hai vissuto fino ad ora: la spiritualità del Suscipe di sant’Ignazio (1).

[In questo momento l’incontro sembra terminare con la consegna al Pontefice di doni da parte di alcuni gesuiti che hanno seguito i giovani legati alla spiritualità ignaziana, che sono venuti da tutto il mondo alla GMG. Francesco però desidera aggiungere una raccomandazione, e tutti si siedono nuovamente]


Voglio aggiungere adesso una cosa. Vi chiedo di lavorare con i seminaristi. Soprattutto date loro quello che noi abbiamo ricevuto dagli Esercizi: la saggezza del discernimento. 
La Chiesa oggi ha bisogno di crescere nella capacità di discernimento spirituale. Alcuni piani di formazione sacerdotale corrono il pericolo di educare alla luce di idee troppo chiare e distinte, e quindi di agire con limiti e criteri definiti rigidamente a priori, e che prescindono dalle situazioni concrete: «Si deve fare questo, non si deve fare questo…». E quindi i seminaristi, diventati sacerdoti, si trovano in difficoltà nell’accompagnare la vita di tanti giovani e adulti. Perché molti chiedono: «Questo si può o non si può?». Tutto qui. E molta gente esce dal confessionale delusa. Non perché il sacerdote sia cattivo, ma perché il sacerdote non ha la capacità di discernere le situazioni, di accompagnare nel discernimento autentico. Non ha avuto la formazione necessaria. Oggi la Chiesa ha bisogno di crescere nel discernimento, nella capacità di discernere. E soprattutto i sacerdoti ne hanno davvero bisogno per il loro ministero. Per questo occorre insegnare ai seminaristi e ai sacerdoti in formazione: loro abitualmente riceveranno le confidenze della coscienza dei fedeli. La direzione spirituale non è un carisma solamente sacerdotale, ma anche laicale, è vero. Ma, ripeto, bisogna insegnare questo soprattutto ai sacerdoti, aiutarli alla luce degli Esercizi nella dinamica del discernimento pastorale, che rispetta il diritto, ma sa andare oltre. Questo è un compito importante per la Compagnia. Mi ha colpito tanto un pensiero del padre Hugo Rahner (2). Lui pensava chiaro e scriveva chiaro! Hugo diceva che il gesuita dovrebbe essere un uomo dal fiuto del soprannaturale, cioè dovrebbe essere dotato di un senso del divino e del diabolico relativo agli avvenimenti della vita umana e della storia. Il gesuita deve essere dunque capace di discernere sia nel campo di Dio sia nel campo del diavolo. Per questo negli Esercizi sant’Ignazio chiede di essere introdotto sia alle intenzioni del Signore della vita sia a quelle del nemico della natura umana e ai suoi inganni. È audace, è audace veramente quello che ha scritto, ma è proprio questo il discernimento! Bisogna formare i futuri sacerdoti non a idee generali e astratte, che sono chiare e distinte, ma a questo fine discernimento degli spiriti, perché possano davvero aiutare le persone nella loro vita concreta. Bisogna davvero capire questo: nella vita non è tutto nero su bianco o bianco su nero. No! Nella vita prevalgono le sfumature di grigio. Occorre allora insegnare a discernere in questo grigio.


[L’incontro termina qui, soprattutto per la necessità di proseguire nel programma della giornata fatta presente al Santo Padre dai suoi collaboratori. Prima di andar via, però, Francesco ha voluto nuovamente salutare uno per uno i gesuiti presenti, concludendo con una benedizione finale]

1. Il Suscipe è una preghiera che sant’Ignazio inserisce nei suoi Esercizi Spirituali all’interno della cosiddettaContemplatio ad amorem (n. 234): «Prendi, o Signore, e accetta tutta la mia libertà, la mia memoria, il mio intelletto, la mia volontà, tutto quello che ho e possiedo. Tu me lo hai dato; a te, Signore, lo ridono. Tutto è tuo: tutto disponi secondo la tua piena volontà. Dammi il tuo amore e la tua grazia, e questo solo mi basta». Ricordiamo che anche Benedetto XVI aveva raccomandato il Suscipe ignaziano, rispondendo ai seminaristi durante una visita al Seminario Romano Maggiore, il 17 febbraio 2007.


2. Qui il Pontefice si riferisce a un testo di Hugo Rahner nato in seguito a una sessione di studi sulla spiritualità ignaziana. L’edizione italiana più recente è la seguente:Come sono nati gli Esercizi. Il cammino spirituale di sant’Ignazio di Loyola, Roma, AdP, 2004. Francesco qui si sta riferendo alle riflessioni che Hugo Rahner scrive nel capitolo ottavo del volume. Notiamo che il capitolo terzo dello stesso studio fu citato dal beato Paolo VI il 3 dicembre 1974, parlando alla XXXII Congregazione generale della Compagnia di Gesù.


venerdì 26 agosto 2016

Giovanni Paolo I il Papa «apostolo del Concilio» a cui tanto somiglia Papa Francesco

Il 26 agosto 1978 un Conclave brevissimo elesse il patriarca di Venezia. Il suo pontificato durò solo 33 giorni, ma fu ricco di innovazioni. Il passaggio dal "noi" all'"io", l'abolizione della sedia gestatoria, l'umiltà di parlare di sé, il chiamare accanto bambini durante l'udienza generale: c'è molto Giovanni Paolo I nei gesti e nelle parole di papa Francesco.

Quello che lo elesse fu un Conclave a suo modo storico: fu breve, brevissimo (durò appena un giorno); fu il primo che vide esclusi dal voto i cardinali ultraottantenni (così come stabilito daPaolo VI con il motu proprio Ingravescentem Aetatem, del 21 novembre 1970) e fu il primo ad essere seguito in diretta, in mondovisione, dalle tv di tutto il pianeta. Albino Luciani pensava di essere fuori dalla cerchia dei "papabili". A sua sorella aveva confidato: «Difficile trovare una persona adatta ad andare incontro a tanti problemi, che sono croci pesantissime. Per fortuna io sono fuori pericolo. E' già gravissima responsabilità dare il voto in questa circostanza». Non andò come auspicato dal Patriarca di Venezia. I 111 cardinali elettori entrarono nella Cappella Sistina la sera del 25 agosto 1978. La fumata bianca si levò alta nel cielo alle 18,24 del giorno successivo, il 26 agosto, trentotto anni fa. 
Giovanni Paolo I con il card. Karol Wojtyla

Una curiosità: tra gli scrutatori venne sorteggiato anche un cardinale polacco, Karol Wojtyla.

Guardando oggi quel che accadde allora, si scopre che in Giovanni Paolo I c'è molto papa Francesco. O meglio: si avverte che molte novità introdotte da Albino Luciani sono state portate a compimento da Jorge Mario Bergoglio. Semplicità, umiltà, profonda fede in Dio trasmessa con modi familiari e con linguaggio colloquiale. Il pastore venuto da Canale d'Agordo (Belluno) e il pastore giunto da Buenos Aires hanno molti tratti simili. Albino Luciani fu il primo pontefice a desiderare di parlare alla folla dopo l'elezione ma, poiché non era consuetudine, preferì rinunciare. Non a caso, poi, la cerimonia di inizio pontificato così com'è stata vissuta da papa Francesco (e, prima di lui, da papa Benedetto XVI e da papa Giovanni Paolo II) è figlia delle radicali novità volute dall'ex patriarca di Venezia nel 1978. Giovanni Paolo I iniziò il suo ministero petrino il 3 settembre di quell'anno con una Messa celebrata nella Piazza antistante la Basilica. Per la prima volta nella storia un Papa non fu incoronato. Luciani cambiò anche il linguaggio abolendo il termine intronizzazione. D'altronde fu il Papa che rifiutò trono, sedia gestatoria (ripristinata in seguito solo in certe determinate occasioni, e unicamente per motivi di visibilità) e il pluralis maiestatis. Il Papa smise di esprimersi usando il "noi". E passò all'"io". 

Le sue uniche quattro udienze generali sono tutte caratterizzate da temi o da gesti particolari. La prima è dedicata all'umiltà: il Papa chiama a sé un chierichetto per far capire il senso di questo modo d'essere. La seconda udienza è dedicata alla fede e in quella speciale occasione Giovanni Paolo I recita una poesia di Trilussa. La terza è dedicata alla speranza. Il Papa parla della iucunditas e cita San Tommaso d'Aquino. Nella quarta e ultima udienza generale, un giorno prima della morte, il Papa parla della carità, cita alcuni passaggi della Populorum progressio (l'enciclica di Paolo VI) e, dicendo anche del progresso divino, invita, a dare un aiuto al Papa, Daniele, un bambino frequentante la quinta elementare. 

Che volesse attingere al tesoro di misericordia del Vangelo, tanto nella forma quanto nella sostanza, Luciani lo confessò in un libro uscito nel 1976, Illustrissimi, un insieme di lettere scritte ai più svariati personaggi della storia e della finzione letteraria.«Personalmente», scrisse Albino Luciani, «quando parlo da solo a Dio e alla Madonna, più che adulto, preferisco sentirmi fanciullo. La mitria, lo zucchetto, l'anello scompaiono; mando in vacanza l'adulto e anche il vescovo, per abbandonarmi alla tenerezza spontanea, che ha un bambino davanti a papà e mamma. (...) Il rosario, preghiera semplice e facile, a sua volta, mi aiuta a essere fanciullo, e non me ne vergogno punto».

Lo confermò diventato Papa con il programmatico nome di Giovanni Paolo I. «Noi siamo oggetto, da parte di Dio, di un amore intramontabile», disse all'Angelus di domenica 10 settembre 1978. E proseguì: «Sappiamo: Dio ha sempre gli occhi aperti su di noi, anche quando sembra ci sia notte. E' papà; più ancora è madre. Non vuol farci del male; vuol farci solo del bene, a tutti. I figlioli, se per caso sono malati, hanno un titolo di più per essere amati dalla mamma. E anche noi se per caso siamo malati di cattiveria, fuori di strada, abbiamo un titolo di più per essere amati dal Signore. Con questi sentimenti io vi invito a pregare insieme al Papa per ciascuno di noi». 

L'accento sulla tenerezza di Dio, patrimonio comune di tutta la Chiesa e dunque di tutti i Papi, ha in ogni caso un precedente illustre. Prima di papa Francesco a insistere su questo aspetto fu papa Giovanni Paolo I. Ma c'è dell'altro che lega profondamente i due Pontefici.



Alla vigilia della sua elezione, citando Avito di Vienne - santo vescovo del VI secolo - Albino Luciani appuntava nella sua agenda personale: «Se il Vescovo di Roma è messo in discussione, non è il Vescovo, ma l’intero episcopato che vacilla». In un’omelia inedita, l’esatto momento della sua elezione a Vescovo di Roma, il cardinale argentino Eduardo Francisco Pironio lo ricordava così: «Ero proprio di fronte a lui, e lo guardavo. Ed eravamo tutti i cardinali in attesa del suo sì. Il suo sì a Cristo, un sì alla Chiesa come servitore, un sì all’umanità come pastore buono. Io l’ho visto con una serenità profonda, che proveniva da una interiorità che non si improvvisa». 

Con un consenso unanime, «che aveva il sapore dell’acclamazione» - secondo l’espressione attribuita al cardinale belga Léon-Joseph Suenens -, dopo un Conclave rapidissimo, durato soltanto ventisei ore, il 26 agosto 1978, Albino Luciani saliva al soglio di Pietro. O meglio, vi discendeva, come Servus servorum Dei, abbassandosi al vertice dell’autorità che è quella del sevizio voluto da Cristo, se nella agenda personale del pontificato siglava in calce, con queste parole, l’essere ministri nella Chiesa: «Servi, non padroni della Verità». 

Non fu dunque senza significato quella convergenza massiccia e spontanea dei centoundici elettori, per la maggior parte dei quali si trattava della prima esperienza di Conclave, e che non parevano disposti a sbrigare solo un 'cambio della guardia'. Quanto basta per dire che quella scelta era stata espressione di una comune mentalità ecclesiale ed era arrivata come frutto di una più lontana e attenta riflessione. E proprio questa unanimità rivelava che non era un Papa programmato per un determinato progetto politico. Il Conclave che elesse il successore di Paolo VI è stato il primo dopo la conclusione del Concilio ecumenico Vaticano II. E quell’elezione voleva significare la volontà di progredire nell’attuazione degli orientamenti. I cardinali avevano mirato pertanto alla virtù dirimente della pastoralità. E avevano scelto il pastore. Non ci fu bisogno di particolari valutazioni o compromessi sul suo nome. Il valore di Luciani, riconosciuto da tempo, era tutto nella sua fisionomia incentrata sull’essenziale. Era il pastore nutrito di umana e serena saggezza e di forti virtù evangeliche, che precede e vive nel gregge con l’esempio, senza alcuna separazione tra la vita personale e la vita pastorale, tra la vita spirituale e l’esercizio di governo, nell’assoluta coincidenza tra quanto insegnava e quanto viveva. 

Esperto di umanità e delle ferite del mondo, delle esigenze dell’immensa moltitudine dei derelitti che vivono fuori dall’opulenza, un sacerdote di vasta e profonda sapienza che sapeva coniugare in felice e geniale sintesi nova et vetera. E se il Concilio voleva essere «un segno della misericordia del Signore sopra la sua Chiesa», come prospettato nella giovannea Gaudet Mater Ecclesia - ed effettivamente è stato la sede in cui la Chiesa ha scelto 'la medicina della misericordia' -, era stato eletto un apostolo del Concilio, che aveva fatto del Concilio il suo noviziato episcopale, di cui spiegò con cristallina lucidità gli insegnamenti e ne tradusse rettamente in pratica, con coraggio perseverante, le direttive. Anzi le incarnava. Naturaliter et simpliciter. In primis nella povertà, che per Luciani costituiva la fibra del suo essere sacerdote e nell’essere propter homines, nella feriale, evangelica carità. 

Con l’inedita scelta del binomio 'Giovanni Paolo', aveva eretto l’arco di congiunzione di coloro che erano stati le colonne portanti di tale opera. Colonne che furono da taluni giudicate staccate. Luciani conosceva questo dissidio serpeggiante in seno alla Chiesa e lo considerava offensivo della verità e nemico dell’unità e della pace. La scelta del binomio è stata pertanto una delle espressioni non rare dell’intuito geniale con cui il Papa di origini bellunesi sapeva con prontezza afferrare le questioni, vedendone con sicurezza il fondo, e sciogliere il nodo delle situazioni e dei problemi difficili nella Chiesa. 

Nel corso del pur breve pontificato si sono così manifestate le priorità di un Pontefice che ha fatto progredire la Chiesa lungo la dorsale di quelle che sono le strade maestre indicate dal Concilio: la risalita alle fonti del Vangelo e una rinnovata missionarietà, la collegialità, il servizio nella povertà ecclesiale, il dialogo con la contemporaneità, la ricerca dell’unità con i fratelli ortodossi, il dialogo interreligioso, la ricerca della pace. In ognuna di queste priorità lo abbiamo visto esprimersi, nei gesti e nelle parole dei trentatré giorni di pontificato. Come frutto di un lavoro da tempo cominciato, attraverso un magistero inauditamente suadente e attrattivo, piantato nella radicale scelta teologica di un linguaggio semplice, conversevole e accessibile, di quel sermo humiliscanonizzato da sant’Agostino, che è comprensivo del mondo e degli uomini ed è con essi dialogante e comprensibile, affinché il messaggio della salvezza possa giungere a tutti. Ed è proprio sull’espressione di queste priorità il filo diretto con il presente. 

La stringente e provocante attualità di Luciani. Non occorre perciò chiedersi quale sarebbe stata la strada che con lui avrebbe percorso la Chiesa. L’immagine che della Chiesa nutriva Giovanni Paolo I è quella del discorso delle Beatitudini, dei poveri di spirito, più vicina al dolore delle genti e alla loro sete di carità, che non si nasconde né si confonde con la logica degli scribi e dei farisei, né con quella dei manipolatori ideologici o degli spiriti mondani mischiati nella trama dei partiti. È quella che affonda le radici nel mai dimenticato tesoro di una Chiesa antichissima, senza trionfi mondani, che vive della luce riflessa di Cristo, vicina all’insegnamento dei grandi Padri, e alla quale era risalito il Concilio. È qui che va riconsiderato lo spessore della sua opera. È qui che va ripresa la valenza storica del suo pontificato. 
...

Albino Luciani non è passato come una meteora, il suo passaggio ha lasciato un segno duraturo e bruciante con la sua sconvolgente pietà. Non explevit tempora multa. È rimasta nel tempo come la brace sotto la cenere, forte e indeclinabile testimonianza di ciò che è l’essenza, il fondamento autentico del vivere nella Chiesa e per la Chiesa. Non si è chiuso perciò con lui un capitolo della storia dei Papi, non si torna indietro, non si incomincia da capo. Ciò che la Chiesa sta rivivendo nel suo interno da Giovanni XXIII, dal Concilio Vaticano II, da Paolo VI, non è una parentesi. 

Se il governo di Albino Luciani non poté dispiegarsi nella storia egli ha concorso più di ogni altro a rafforzare oggi e a testimoniare oggi il disegno di una Chiesa che con il Concilio è risalita alle sorgenti, più essenziale, più evangelica. Non parrà poco. Perché il segno di questa storia è quello della Grazia che entra nel mondo, e per vie misteriose lo compenetra per vincere, come l’alba la notte, le ipocrite finzioni, le inenarrabili alienazioni di questa nostra umanità lacerata. Fuori e dentro la Chiesa.



LA FEDE ALLA PROVA DEL TERREMOTO di don Giovanni Berti

LA FEDE ALLA PROVA DEL TERREMOTO
di don Giovanni Berti

Dove sei Dio quando la terra trema e scuote le nostre sicurezze?

Dove è la tua onnipotente mano a sorreggere un campanile che crolla su una famiglia che dorme sicura in una casa sicura...

Dove è la tua protezione quando in una notte serena di agosto si trasformano in incubi i sogni sereni dei bambini?

Dove sei andato così lontano da far apparire le chiese sventrate come un monumento alla nostra solitudine nel dolore?

Difficile sentire la tua risposta o Dio nel frastuono degli edifici che cadono a terra e delle grida che si alzano al cielo...

Provo ad ascoltare cosa mi dice in cuore...

Mi pare di sentire una risposta piccola e fragile sepolta nel profondo dell'animo...

Forse sei negli orecchi di chi ascolta attentamente il grido dei sopravvissuti...

Forse Dio sei proprio nelle mani di chi aiuta con una pala e un piccone...

Forse sei proprio nella bocca di chi ha parole semplici di conforto...

Forse sei dentro il mio cuore affranto e mi spingi a fare qualcosa per chi soffre...

Le mie domande non hanno trovato la risposta definitiva che cercavo... e il dolore rimane sempre ingiusto e la fede ne esce lesionata...

Ma sento che se se ti tolgo di mezzo, o Dio, non ho davvero più nessuno a cui chiedere aiuto, la desolazione del cuore diventa totale e ogni mio sogno di felicità è perduto...



giovedì 25 agosto 2016

«Lasciamoci commuovere con Gesù» Papa Francesco Udienza 24/08/2016 (foto, testo e video)

 UDIENZA GENERALE 
 Piazza San Pietro 
 24 agosto 2016 

Papa Francesco ha effettuato come sempre il suo giro in piazza San Pietro per salutare i fedeli in attesa baciando e accarezzando tanti bambini.





Al momento di pronunciare la catechesi inaspettatamente perché non era mai accaduto che il Papa annunciasse ai fedeli e ai pellegrini riuniti in Piazza San Pietro, in Vaticano, per l'Udienza generale del mercoledì, di aver deciso di rinviare la lettura della sua allocuzione per la prossima settimana.
Papa Francesco ha spiegato questa decisione ricordando, con dolore e partecipazione, le gravi conseguenze dei terremoti che hanno colpito poche ore fa, dalle 3.35 della notte, ampie zone dell'Italia centrale, lasciando morti, feriti, persone ancora sotto le macerie e ingenti devastazioni materiali.
Guarda il video

L'annuncio della decisione del Santo Padre è stato proposto in diverse lingue.
Poi il Papa ha voluto presiedere la recita dei Misteri dolorosi del Santo Rosario.

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Avevo preparato la catechesi di oggi, come per tutti i mercoledì di questo Anno della Misericordia, sull’argomento della vicinanza di Gesù, ma dinanzi alla notizia del terremoto che ha colpito l’Italia centrale, devastando intere zone e lasciando morti e feriti, non posso non esprimere il mio grande dolore e la mia vicinanza a tutte le persone presenti nei luoghi colpiti dalle scosse, a tutte le persone che hanno perso i loro cari e a quelle che ancora si sentono scosse dalla paura e dal terrore. Sentire il Sindaco di Amatrice dire: “Il paese non c’è più”, e sapere che tra i morti ci sono anche bambini, mi commuove davvero tanto.

E per questo voglio assicurare a tutte queste persone - nei pressi di Accumoli, Amatrice e altrove, nella Diocesi di Rieti e di Ascoli Piceno e in tutto il Lazio, nell’Umbria, nelle Marche - la preghiera e dire loro di essere sicure della carezza e dell’abbraccio di tutta la Chiesa che in questo momento desidera stringervi con il suo amore materno, anche del nostro abbraccio, qui, in piazza.

Nel ringraziare tutti i volontari e gli operatori della protezione civile che stanno soccorrendo queste popolazioni, vi chiedo di unirvi a me nella preghiera affinché il Signore Gesù, che si è sempre commosso dinanzi al dolore umano, consoli questi cuori addolorati e doni loro la pace per l’intercessione della Beata Vergine Maria.

Lasciamoci commuovere con Gesù.

Dunque rimandiamo alla prossima settimana la catechesi di questo mercoledì. E vi invito a recitare con me una parte del Santo Rosario: “Misteri dolorosi”.


Saluti:

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APPELLO PER L’UCRAINA

In queste ultime settimane, gli Osservatori internazionali hanno espresso preoccupazione per il peggioramento della situazione nell’Ucraina orientale. Oggi, mentre quella cara Nazione celebra la sua festa nazionale, che coincide quest’anno con il 25° anniversario dell’indipendenza, assicuro la mia preghiera per la pace e rinnovo il mio appello a tutte le parti coinvolte e alle istanze internazionali affinché rafforzino le iniziative per risolvere il conflitto, rilasciare gli ostaggi e rispondere all’emergenza umanitaria.

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Dò il benvenuto ai pellegrini di lingua italiana!
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Rivolgo infine un pensiero ai giovani, agli ammalati e agli sposi novelli. Oggi è la festa dell’Apostolo San Bartolomeo. Cari giovani, imparate da lui che la vera forza è l’umiltà; cari ammalati, non stancatevi di chiedere nella preghiera l’aiuto del Signore; e voi, cari sposi novelli, gareggiate nello stimarvi e aiutarvi a vicenda.

Guarda il video integrale