martedì 31 maggio 2016

«Un popolo è libero, una Chiesa è libera quando ha memoria, quando lascia posto ai profeti, quando non perde la speranza» - Papa Francesco - S. Messa Cappella della Casa Santa Marta - (video e testo)


S. Messa - Cappella della Casa Santa Marta, Vaticano
30 maggio 2016
inizio 7 a.m. fine 7:45 a.m. 



Papa Francesco:
Spirito in gabbia
«Profezia, memoria e speranza»: sono le tre caratteristiche che rendono liberi la persona, il popolo, la Chiesa, impedendo di finire in un «sistema chiuso» di norme che ingabbia lo Spirito Santo. Lo ha ricordato Papa Francesco nella messa celebrata lunedì mattina 30 maggio nella cappella della Casa Santa Marta.

«È chiaro a chi Gesù parla con questa parabola: ai capi dei sacerdoti, agli scribi e agli anziani del popolo» ha fatto subito notare il Papa riferendosi al passo evangelico di Marco (12, 1-12) proposto dalla liturgia. Dunque «per loro» il Signore usa «l’immagine della vigna», che «nella Bibbia è l’immagine del popolo di Dio, l’immagine della Chiesa e anche l’immagine della nostra anima». Così, ha spiegato Francesco, «il Signore cura la vigna, la circonda, scava una buca per il torchio, costruisce una torre».

Proprio in questo lavoro si riconosce «tutto l’amore e la tenerezza di Dio per fare il suo popolo: questo il Signore lo ha fatto sempre con tanto amore e con tanta tenerezza». E «lui ricorda sempre a questo popolo quando gli era fedele, quando lo seguiva nel deserto, quando cercava il suo volto». Ma «poi la situazione si è rovesciata e il popolo si impadronì di questo dono di Dio» al grido di: «Noi siamo noi, siamo liberi!». Quel popolo «non pensa, non ricorda che sono state le mani, il cuore di Dio a farlo, e così diventa un popolo senza memoria, un popolo senza profezia, un popolo senza speranza».

È dunque «ai dirigenti di questo popolo» che Gesù si rivolge «con questa parabola: un popolo senza memoria ha perso la memoria del dono, del regalo; e attribuisce a se stesso quello che è: noi possiamo!». Tante volte nella Bibbia si parla di «asceti, profeti» — ha affermato il Papa — e «Gesù stesso sottolinea l’importanza della memoria: un popolo senza memoria non è popolo, dimentica le sue radici, dimentica la sua storia».

Mosè, nel libro del Deuteronomio, ripete più volte questo concetto: «Ricordate, ricorda!». Quello è infatti «il libro della memoria del popolo, del popolo di Israele; è il libro della memoria della Chiesa, ma è anche il libro della nostra memoria personale». È proprio «quella dimensione deuteronomica della vita, della vita di un popolo o della vita di una persona, che fa tornare sempre alle radici per ricordare e poter non sbagliare nel cammino». Invece le persone a cui Gesù si rivolge con la parabola «avevano perso la memoria: avevano perso la memoria del dono, del regalo di Dio che aveva fatto loro»

«Persa la memoria, è un popolo incapace di fare posto ai profeti», ha proseguito Francesco. Gesù stesso, infatti, «dice loro che hanno ucciso i profeti, perché i profeti ingombrano, i profeti sempre ci dicono quello che noi non vogliamo sentire». E così «Daniele a Babilonia si lamenta: “Noi, oggi, non abbiamo profeti!”». Parole in cui è racchiusa la realtà di «un popolo senza profeti» che indichino «loro la via e ricordino loro: il profeta è quello che prende la memoria e fa andare avanti». Ecco perché «Gesù dice ai capi del popolo: “Voi avete perso la memoria e non avete profeti. Anzi: quando sono venuti i profeti, voi li avete uccisi!”».

Del resto, l’atteggiamento dei capi del popolo era evidente: «Noi non abbiamo bisogno dei profeti, noi siamo noi!». Ma «senza memoria e senza profeti — ha ammonito il Pontefice — diviene un popolo senza speranza, un popolo senza orizzonti, un popolo chiuso in se stesso che non si apre alle promesse di Dio, che non aspetta le promesse di Dio». Dunque «un popolo senza memoria, senza profezia e senza speranza: questo è il popolo che i capi dei sacerdoti, gli scribi, gli anziani hanno fatto del popolo di Israele».

E «la fede dov’è?», si è chiesto Francesco. «Nella folla» ha risposto, evidenziando che nel Vangelo si legge: «Cercavano di catturarlo, ma ebbero paura della folla». Quelle persone, infatti, «avevano capito la verità e, in mezzo ai loro peccati, avevano memoria, erano aperti alla profezia e cercavano la speranza». Un esempio, in tal senso, viene dai «due vecchietti, Simeone e Anna, persone di memoria, di profezia e si speranza».

Invece «i capi del popolo» legittimavano il loro pensiero circondandosi «di avvocati, di dottori della legge, che fanno loro un sistema giuridico chiuso: credo — ha commentato il Pontefice — che ci fossero quasi seicento comandamenti». E così «chiuso, sicuro», era il loro pensiero, con l’idea che «si salveranno quelli che fanno questo; degli altri non ci interessa, la memoria non interessa». Per quanto riguarda «la profezia: meglio che non vengano i profeti». E «la speranza? Ma, ognuno la vedrà». Questo «è il sistema attraverso il quale legittimano: dottori della legge, teologi che sempre vanno sulla via della casistica e non permettono la libertà dello Spirito Santo; non riconoscono il dono di Dio, il dono dello Spirito e ingabbiano lo Spirito, perché non permettono la profezia nella speranza».

E proprio «questo è il sistema religioso al quale Gesù parla». Un sistema «di corruzione, di mondanità e di concupiscenza», come dice il passo tratta dalla seconda lettera di san Pietro (1, 2-7), proposto nella prima lettura. Persino Gesù stesso «è stato tentato di perdere la memoria della sua missione, di non dare posto alla profezia e di prendere la sicurezza al posto della speranza». In proposito il Papa ha ricordato «le tre tentazioni del deserto: “Fai un miracolo e mostra il tuo potere!”; “Buttati giù dal tempio e così tutti crederanno!”; “Adorami!”».

«A questa gente Gesù, perché conosceva in se stesso la tentazione» del «sistema chiuso», rimprovera di girare «mezzo mondo per avere un proselito» e per farlo «schiavo». E così «questo popolo così organizzato, questa Chiesa così organizzata, fa schiavi». Tanto che «si capisce come reagisce Paolo, quando parla della schiavitù della legge e della libertà che ti dà la grazia». Perché «un popolo è libero, una Chiesa è libera quando ha memoria, quando lascia posto ai profeti, quando non perde la speranza».

«Il Signore ci insegni questa lezione, anche per la nostra vita» ha auspicato Francesco in conclusione, suggerendo di domandare a se stessi in un vero e proprio esame di coscienza: «Io ho memoria delle meraviglie che il Signore ha fatto nella mia vita? Ho memoria dei doni del Signore? Io sono capace di aprire il cuore ai profeti, cioè a quello che mi dice: “questo non va, devi andare di là, vai avanti, rischia”, come fanno i profeti? Io sono aperto a quello o sono timoroso e preferisco chiudermi nella gabbia della legge?». E alla fine: «Io ho speranza nelle promesse di Dio, come ha avuto nostro padre Abramo, che uscì dalla sua terra senza sapere dove andasse, soltanto perché sperava in Dio?».
(fonte: L'Osservatore Romano)
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lunedì 30 maggio 2016

Omelia p. Alberto Neglia - Corpus Domini (VIDEO)


Omelia p. Alberto Neglia

Solennità del Corpus Domini
29 maggio 2016

Fraternità Carmelitana
di Barcellona Pozzo di Gotto



... Il Dio di Gesù ha un grande rispetto per ognuno di noi, ci guarda negli occhi, ci ama singolarmente, non siamo amati come una folla anonima... 
Gesù non moltiplica i pani, Gesù li divide, ed è proprio così, se siamo capaci di dividere ce n'è per tutti... 
Bisogna educarsi a saper dividere, nel nostro mondo c'è tanta roba che si getta, si è però incapaci di condividere con gli altri; tant'è vero che nel momento in cui si divide... e si distribuisce basta per tutti e ne avanzano dodici ceste, il numero è simbolico... ce n'è per tutto il popolo... 
Gesù che ci nutre con la sua presenza, con la sua parola e con il suo pane ci sta dicendo quale deve essere la logica del regno di Dio... condividere, a partire dalle proprie famiglie... non si ha bisogno solo di pane, il pane è la cifra di tutto ciò che serve per far crescere l'uomo... con dignità e con gioia...

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In tre giorni 700 uomini, donne, bambini, anche neonati, annegati nel nostro mare... ma è davvero possibile che ormai queste tragedie non ci scuotano più?


I 91 superstiti del naufragio di giovedì: “Eravamo 500”. In tre giorni settecento vittime

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Strage di bambini 
Si dispera la ragazza nigeriana: «Abbiamo provato in tutti i modi a difenderci dal mare che entrava nella barca. Con le mani, con i bicchieri di plastica. Per due ore abbiamo combattuto con l’acqua ma non c’è stato nulla da fare. Il mare ha cominciato a invadere, ad allagare la stiva. E chi si trovava al piano di sotto non ha avuto scampo. Donne, uomini e bambini, tanti bambini sono rimasti intrappolati. E sono annegati». Anche i mediatori culturali, i funzionari della questura, i volontari delle associazioni che si occupano di accoglienza sono sconvolti. Dice Simona Fernandez, del centro accoglienza Salam: «Ogni storia racconta nuove sofferenze. Nuove violenze. È terribile il racconto di questo naufragio».
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Le voci dei superstiti 
I giornalisti non possono entrare nell’hotspot, ma grazie alle testimonianze dei volontari e alle conferme dei funzionari di polizia, emerge la ricostruzione della drammatica odissea di 1200 migranti. «Siamo stati rinchiusi in capannoni sul mare per diversi giorni in attesa di imbarcarci. Mercoledì siamo salpati. Eravamo più di mille e duecento, eritrei e nigeriani soprattutto. C’era solo una barca a motore, tipo un rimorchiatore che trainava le altre due barche. Nella prima e nella seconda c’erano cinquecento persone, nella terza duecento». Giovedì mattina succede qualcosa che fa precipitare la situazione. Uno strappo e si rompe la cordata. Il rimorchiatore si allontana, la terza barca va alla deriva. La seconda si trasforma in una trappola infernale. Con lo strappo si apre una falla nell’imbarcazione e l’acqua comincia a entrare. Dopo due ore arrivano le navi della Marina militare. Kidane, 13 anni, è eritreo: «Ho visto morire mia madre e una sorellina di 11 anni - racconta -. Quando sono arrivati a salvarci c’erano tanti cadaveri che galleggiavano, i marinai non riuscivano a prenderli tutti». E poi ci sono i pianti di disperazione delle donne, molte imbarcatesi giovedì, che così racconta un mediatore culturale: «È impressionante il numero dei dispersi. Ogni donna piange la morte di un figlio, di una madre, di una sorella».

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Leggi tutto: Mediterraneo cimitero di migranti: 400 corpi nella stiva della nave affondata


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La donna quasi decapitata mentre stava vomitando
Quando la barca è affondata, si sono salvati in sei-7, quelli che sono riusciti a tuffarsi e a raggiungere la prima imbarcazione. I dettagli dei verbali raccolti dalla Questura di Ragusa, la Guardia di Finanza di Pozzallo e la Compagnia dei Carabinieri di Modica sono agghiaccianti: nei minuti concitati in cui le due carrette del mare si avvicinavano e allontanavano, la corda tesa ha ucciso, ferendola violentemente al collo, una donna di colore: la poveretta aveva la testa fuori dalla sponda perché stava vomitando.

I racconti ai volontari
E altri particolari emergono dai racconti dei profughi ai volontari di Emergency, che hanno accolto a Pozzallo 699 persone, tra cui molte donne e tanti bambini. Migranti che arrivavano dall’Eritrea, dall’Etiopia, dalla Somalia, dal Ghana, dalla Nigeria, dal Pakistan. «Sono tutti esausti. Abbiamo incontrato H. in ipotensione: aveva avuto una crisi nervosa sulla nave. Quando si è ripreso è riuscito a dirmi solo il suo nome, che ha 16 anni e che ha visto morire un suo amico in mare. Poi ha pianto. Un pianto strozzato, quasi a non voler disturbare» racconta Giulia, mediatrice culturale di Emergency. «Abbiamo incontrato ragazzi picchiati in Libia per mesi. E abbiamo incontrato R., 5 anni, che ha perso la mamma in Libia. Sta bene, non ha bisogno del medico, non ha bisogno di medicine. Avrebbe bisogno di scuse. Vorremmo chiedere scusa a lei, a H. e a tutti coloro che arrivano. Vi chiediamo scusa per questo continente sordo e cieco» conclude Giulia.

Mattarella: «Fuggono, come farebbe chiunque»
«Questi bambini, queste donne e questi uomini, fuggono da guerre, carestie, oppressione. Cercano, semplicemente, una vita migliore, come farebbe chiunque di noi nelle stesse condizioni».
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Nel naufragio di giovedì nel canale di Sicilia sono morti quaranta bambini, molti dei quali neonati. Nell’ultima settimana su oltre tredicimila migranti sbarcati novecento sono morti. Le tragedie che colpiscono i profughi senza nome e senza volto si susseguono senza sosta e provocano una pericolosa assuefazione. Aumentando la distanza tra chi soffre e noi

... I superstiti del naufragio di giovedì hanno raccontato che dei quattrocento morti, quaranta erano bambini, molti dei quali neonati. In trecento, quelli che avevano pagato di meno ed erano stati fatti entrare nella stiva, sono morti intrappolati senza neanche sapere quello che stava accadendo in superficie. Un sommario bilancio dice che su tredicimila migranti sbarcati nell’ultima settimana in Italia, più di novecento non ce l’hanno fatta. Papa Francesco, incontrando un gruppo di bambini sabato mattina in Vaticano, ha mostrato loro il giubbetto di una piccola migrante siriana annegata vicino a Lesbo e regalatogli da un volontario. Un gesto simbolico per tenere desta l’attenzione su quella che il Pontefice, volato qualche settimana fa sull’isola greca per abbracciare la carne martoriata di quegli uomini, donne e bambini che l’Europa non vuole, ha definito la più grave emergenza umanitaria dalla fine della Seconda Guerra mondiale.

Gli esperti dicono che nelle prossime settimane gli sbarchi non solo continueranno ma aumenteranno. Sui giornali duecento o quattrocento morti o dispersi in mare non finiscono quasi più in prima pagina. Al massimo si dà risalto a quelle che in gergo giornalistico si chiamano “storie” come quella della piccola Favour, la neonata di nove mesi arrivata a Lampedusa dopo aver perso la sua mamma nella traversata e che ora molti vorrebbero adottare. 

Di là da tutti i dibattiti politici, le tragedie dei profughi in cerca di salvezza quasi non ci scuotono più. Forse perché quei disperati non hanno né un nome né un volto. O forse perché quelle tragedie non sono più un’eccezione, sia pur frequente, bensì una regola. Sono diventati cronaca consueta alla quale ci abbiamo fatto bene o male l’abitudine. 
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Vedi anche i nostri post precedenti:

domenica 29 maggio 2016

Il Corpus Domini di Don Tonino Bello



Non riesco a liberarmi dal fascino di una splendida riflessione di Garaudy a proposito dell’Eucaristia: «Cristo è nel pane. Ma lo si riconosce nello spezzare il pane». Sicché oggi, festa del Corpo e del Sangue del Signore, mi dibatto in una incertezza paralizzante.
Parlerò dell’Eucaristia come vertice dell’amore di Dio che si è fatto nostro cibo? Dirò della presenza di Cristo che ci ha amati a tal punto da mettere la sua tenda in mezzo a noi? Spiegherò alla gente che partecipare al pane consacrato significa anticipare la gioia del banchetto eterno del cielo? Mi sforzerò di far comprendere che l’Eucaristia è il memoriale (che parola difficile, ma pure importante!) della morte e della risurrezione del Signore? Illustrerò il rapporto di reciproca causalità tra Chiesa ed Eucaristia, spiegando con dotte parole che se è vero che la Chiesa costruisce l’Eucaristia è anche vero che l’Eucaristia costruisce la Chiesa?

Non c’è che dire: sarebbero suggestioni bellissime, e istruttive anche, e capaci forse di accrescere le nostre tenerezze per il Santissimo Sacramento, verso il quale la disaffezione di tanti cristiani si manifesta oggi in modo preoccupante. Ma ecco che mi sovrasta un’altra ondata di interrogativi.
Perché non dire chiaro e tondo che non ci può essere festa del «Corpus Domini» finché un uomo dorme nel porto sotto il «tabernacolo» di una barca rovesciata, o un altro passa la notte con i figli in un vagone ferroviario? Perché aver paura di violentare il perbenismo borghese di tanti cristiani, magari disposti a gettare fiori sulla processione eucaristica dalle loro case sfitte, ma non pronti a capire il dramma degli sfrattati? Perché preoccuparsi di banalizzare il mistero eucaristico se si dice che non può onorare il Sacramento chi presta il denaro a tassi da strozzino; chi esige quattro milioni a fondo perduto prima di affittare una casa a un povero Cristo; chi insidia con i ricatti subdoli l’onestà di una famiglia?

Perché non gridare ai quattro venti che la nostra credibilità di cristiani non ce la giochiamo in base alle genuflessioni davanti all’ostensorio, ma in base all’attenzione che sapremo porre al «corpo e al sangue» dei giovani drogati che, qui da noi, non trovano un luogo di accoglienza e di riscatto?

...

Purtroppo, l’opulenza appariscente delle nostre città ci fa scorgere facilmente il corpo di Cristo nell’Eucaristia dei nostri altari. Ma ci impedisce di scorgere il corpo di Cristo nei tabernacoli scomodi della miseria, del bisogno, della sofferenza, della solitudine. Per questo le nostre eucaristie sono eccentriche. Miei cari fratelli, perdonatemi se il discorso ha preso questa piega. Ma credo che la festa del Corpo e Sangue di Cristo esiga la nostra conversione. Non l’altisonanza delle nostre parole. Né il fasto vuoto delle nostre liturgie.



Preghiera dei Fedeli - Fraternità Carmelitana di Pozzo di Gotto (ME) - Corpus Domini





Fraternità Carmelitana 
di Pozzo di Gotto (ME)





Preghiera dei Fedeli

"Il miracolo del pane condiviso, amare significa dare" di p. Ermes Ronchi - Santissimo Corpo e Sangue di Cristo - anno C

Il miracolo del pane condiviso,
amare significa dare
di padre Ermes Ronchi
Commento
Santissimo Corpo e Sangue di Cristo (Anno C)

Festa della vita donata, del Corpo e del Sangue dati a noi: partecipare al Corpo e al Sangue di Cristo non tende ad altro che a trasformarci in quello che riceviamo (Leone Magno). Dio è in noi: il mio cuore lo assorbe, lui assorbe il mio cuore, e diventiamo una cosa sola. L'uomo è l'unica creatura che ha Dio nel sangue (Giovanni Vannucci), abbiamo in noi un cromosoma divino.

Gesù parlava alle folle del Regno e guariva quanti avevano bisogno di cure. Parlava del Regno, annunciava la buona notizia che Dio è vicino, con amore.

E guariva. Il Vangelo trabocca di miracoli. Gesù tocca la carne dei poveri, ed ecco che la carne guarita, occhi nuovi che si incantano di luce, un paralitico che danza nel sole con il suo lettuccio, diventano come il laboratorio del regno di Dio, il collaudo di un mondo nuovo, guarito, liberato, respirante.

E i cinquemila a loro volta si incantano davanti a questo sogno, e devono intervenire i Dodici: Mandali via, tra poco è buio, e siamo in un luogo deserto. Si preoccupano della gente, ma adottano la soluzione più meschina: Mandali via. Gesù non ha mai mandato via nessuno.

Il primo passo verso il miracolo, condivisione piuttosto che moltiplicazione, è una improvvisa inversione che Gesù imprime alla direzione del racconto: Date loro voi stessi da mangiare. Un verbo semplice, asciutto, pratico: date.

Nel Vangelo il verbo amare si traduce sempre con un altro verbo concreto, fattivo, di mani: dare (Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio (Gv 3,16), non c'è amore più grande che dare la vita per i propri amici (Gv 15,13).

Gli apostoli non possono, non sono in grado, hanno soltanto cinque pani, un pane per ogni mille persone: è poco, quasi niente. Ma la sorpresa di quella sera è che poco pane condiviso, che passa di mano in mano, diventa sufficiente; che la fine della fame non consiste nel mangiare da solo, voracemente, il proprio pane, ma nel condividerlo, spartendo il poco che hai: due pesci, il bicchiere d'acqua fresca, olio e vino sulle ferite, un po' di tempo e un po' di cuore. La vita vive di vita donata.

Tutti mangiarono a sazietà. Quel tutti è importante. Sono bambini, donne, uomini. Sono santi e peccatori, sinceri o bugiardi, nessuno escluso, donne di Samaria con cinque mariti e altrettanti divorzi. Nessuno escluso. Pura grazia.

È volontà di Dio che la Chiesa sia così: capace di insegnare, guarire, dare, saziare, accogliere senza escludere nessuno, capace come gli apostoli di accettare la sfida di mettere in comune quello che ha, di mettere in gioco i suoi beni.

Se facessimo così ci accorgeremmo che il miracolo è già accaduto, è in una prodigiosa moltiplicazione: non del pane ma del cuore.


"Un cuore che ascolta - lev shomea" - n. 26/2015-2016 (C) di Santino Coppolino

'Un cuore che ascolta - lev shomea'
"Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere
giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male" (1Re 3,9)


Traccia di riflessione
sul Vangelo della domenica
di Santino Coppolino


Vangelo: Lc 9,11-17



Per Gesù l'annuncio del Regno di Dio non è solo una questione di parole da proclamare, esso si traduce sempre nell'assunzione della fragilità e dei bisogni dell'uomo, come frutto del seme della Parola annunciata e che adesso si fa pane di vita per la folla. E questo pane realmente diviene la vita e la forza per quanti lo seguiranno nel cammino verso Gerusalemme. L'evangelista utilizza il segno della moltiplicazione dei pani e dei pesci alludendo alla celebrazione dell'ultima cena, come anticipazione del mistero eucaristico della morte e resurrezione del Signore. "I Dodici - che ne continueranno l'azione - sono i servi, non i padroni, di questo banchetto. Convocano, accolgono, ricevono e distribuiscono a tutti, nel Nome di Gesù, il pane spezzato e donato dal Signore" (cit.).
E' il pane benedetto, spezzato e donato a tutti, buoni e cattivi, giusti e peccatori E' il pane di vita eterna, la stessa Vita di Dio. E' in questo pane che veniamo introdotti nel mistero del Regno, mistero inteso come progetto di vita e di amore del Padre sull'umanità. Questo è il pane che ci situa - come figli nel Figlio per mezzo dello Spirito - nel cuore stesso della SS. Trinità, trasformandoci in ascoltatori obbedienti della sua Parola. E' il Pane di Vita Eterna che, a differenza della manna se conservata marciva, "si può e si deve raccogliere perché non marcisce mai, anzi ha il potere di preservare dalla morte coloro che ne mangiano " (cit.)


sabato 28 maggio 2016

Papa Francesco incontra 500 giovanissimi del “Treno dei bambini” - “Portati dalle onde”: I migranti "non sono un pericolo, ma sono in pericolo".



Un incontro con il dramma dell’immigrazione visto dal punto di vista dei bambini.
È stato soprattutto questo il momento vissuto da Papa Francesco con 500 giovanissimi di varie etnie e religioni giunti in Vaticano dalla Calabria con il “Treno dei bambini”, l’annuale iniziativa organizzata dal Pontificio Consiglio della Cultura, quest’anno con il titolo “Portati dalle onde”.

Il Frecciargento, messo a disposizione da Ferrovie dello Stato Italiane, è partito alle sei di questa mattina da Vibo Valentia - Pizzo. Una breve sosta a Roma Termini dove i bambini sono stati salutati dalla presidente del Gruppo FS Italiane, Gioia Ghezzi, che ha proseguito insieme a loro per la stazione di Città del Vaticano. Proprio qui i bambini sono stati accolti dal Cardinale Giuseppe Bertello, Presidente del Governatorato della Città del Vaticano e dal Cardinale Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura. Il treno è ripartito per la Calabria nel primo pomeriggio. 
Durante la breve passeggiata dalla stazione ferroviaria del Vaticano alla sala Nervi, i bambini hanno fatto volare in aria centinaia di palloncini bianchi, in ricordo di tutti quei piccoli che, purtroppo, non sono mai arrivati. 
Nella Sala Nervi, a mezzogiorno in punto, i bambini hanno incontrato Papa Francesco.

 

“Buongiorno, Papa”, volevo chiederti “di pregare per la mia famiglia che è andata in cielo”, e “per i miei amici”, anche loro “sono andati in cielo”, “sono morti nell’acqua”. 
È Sayende, un ragazzino della Nigeria – carne di Cristo che ha già conosciuto la morte senza aver conosciuto la vita – a dare in due parole il senso della festa, perché questa vuole essere, portata in Vaticano dal “Treno dei bambini”; lui che ha lasciato il suo paese con i genitori per fuggire dalla guerra, ma nel viaggio ha perso papà e mamma in una delle tante e drammatiche tragedie del mare. Lui ce l'ha fatta e si è fermato a Lamezia dove, in una comunità per minori stranieri, ha trovato un'altra famiglia che lo ha accolto come un figlio.

È un treno in cui il dolore del vissuto dei suoi piccoli passeggeri è una trama sulla quale si intreccia l’ordito della cura e dell’affetto donati ai ragazzini dall’Associazione Giovanni XXIII, dall’Orchestra infantile “Quattrocanti” di Palermo in cui cantano ragazzi di otto etnie, dall’intraprendenza di Maria Salvia, preside di una scuola di Vibo Marina, che porta a Francesco i soldi di una colletta per i bimbi di Lesbo e una lettera, firmata dai suoi alunni, rivolta al mondo, sono i bambini italiani che hanno accolto in Calabria i piccoli fratelli migranti; la lettera viene letta al Papa dal cardinale Ravasi: 
"Abbiamo riflettuto su tutti quegli adulti e bambini che lasciano la loro terra a causa della guerra e delle persecuzioni. Molti non riescono nemmeno a raggiungere la meta a causa di quelle onde che dovrebbero garantirgli la salvezza e che, invece, li tradiscono e li portano alla morte. Pensiamo a loro e non riusciamo a capire come nel mondo possano esserci tante ingiustizie. Promettiamo di accogliere chiunque arriverà nel nostro paese, senza considerare chi ha un colore di pelle diverso, chi parla una lingua differente o professa un'altra religione, un nemico pericoloso".

È il mondo che i bambini sognano, e non solo loro. 

Francesco come un nonno paziente, ascolta, sorride, si commuove davanti alle loro storie. Scherza, botta e risposta, quando il microfono passa a lui, maestro di una classe che vuole sentire le parole del Papa della tenerezza. 


Si fa portare il disegno di un bambino – col sole, il mare, le onde che si muovono. Onde, dice il piccolo, che possono “far morire la gente”. Una storia di carta, cui Francesco fa seguire una di terribile attualità. Mercoledì scorso all’udienza generale tre soccorritori volontari lo salutano e gli donano piangendo un oggetto: "Mi ha portato questo giubbetto e piangendo un po' mi ha detto: 'Padre, non ce l'ho fatta. C'era una bambina, sulle onde, ma non ce l'ho fatta a salvarla. Soltanto è rimasto il giubbetto'. Questo giubbetto è di quella bambina".


"Non voglio rattristarvi, - ha detto il Papa - ma voi siete coraggiosi e conoscete la verità. Sono in pericolo: tanti ragazzi, bambini, bambine, uomini, donne, sono in pericolo... Pensiamo a questa bambina … Come si chiamava? Ma, non so: una bambina senza nome. Ognuno di voi le dia il nome che vuole, nel suo cuore. Lei è in cielo, lei ci guarda". 

I bambini ascoltano e dicono la loro sul dramma dei migranti: "È un'ingiustizia", dicono i bambini, parlando di chi non lascia passare gli immigrati. E quando un bimbo li definisce "bestie", Francesco gli dice scherzando: "Ma tu hai studiato con Heidegger!".

Poi il Papa spiega: "lui non ha voluto insultare, lui non ha fatto un insulto. Ha detto che una persona che chiude il cuore non ha cuore umano, perché non lascia passare, ha un cuore animale, diciamo, come una bestia, che non capisce". 

Invece i bambini capiscono e il Papa le amplifica per loro, parole come “pace, fratellanza, compassione, bene, uguaglianza”, “accoglienza”. 
Tra i bambini, ve ne sono 50 dell’Associazione romana “Sport senza frontiera”. Una bambina chiede a Francesco cosa sia per lui “essere Papa”. Significa, è la risposta, fare il “bene che io posso fare”:
“Ma io sento che Gesù mi ha chiamato per questo. Gesù ha voluto che io fossi cristiano, e un cristiano deve fare questo. E anche Gesù ha voluto che io fossi sacerdote, vescovo e un sacerdote e un vescovo devono fare questo. Io sento che Gesù mi dice di fare questo: questo è quello che sento”.

Il Papa chiude l'incontro invitando all'accoglienza: "pace, fratellanza, compassione, bene, uguaglianza".

I migranti "non sono un pericolo, ma sono in pericolo". 
Con questo gioco di parole Papa Francesco ha fotografato la situazione di profughi e migranti in fuga da guerre, persecuzioni.


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BIBBIA APERTA- Il banchetto di Matteo Crimella - Gli ultimi saranno i primi (Luca 13,30), chi si esalta sarà umiliato (Luca 14,11)..

BIBBIA APERTA 

Il banchetto 
di Matteo Crimella

Gli ultimi saranno i primi (Luca 13,30), 
chi si esalta sarà umiliato (Luca 14,11)...




Quali posti occupare?

Il silenzio generale dei farisei e dei dottori della Legge offre a Gesù un vantaggio, di cui egli approfitta per narrare la prima parabola (Luca 14,7-11, cfr il riquadro a p. seguente). Il racconto fittizio prende le mosse dall’attenta osservazione del comportamento degli invitati al banchetto che vogliono assicurarsi i primiposti. Anche nella Bibbia ebraica la cosa era conosciuta, al punto che l’autore dei Proverbi così ammonisce: Non darti arie davanti al re e non metterti al posto dei grandi, perché è meglio sentirsi dire: “Sali quassù”, piuttosto che essere umiliato davanti a uno più importante (Proverbi 25,6- 7). Tuttavia Gesù non intende offrire una regola di prudenza, di buona educazione o di modestia; tanto meno vuole suggerire una tecnica raffinata ma subdola per essere onorati in pubblico. Al cuore della parabola c’è una preoccupazione teologica riguardante il mistero di Dio che in Gesù non cerca i primi ranghi ma si rivolge a chi è emarginato. La battuta finale (Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato, Luca 14,11) conferma che il discorso non è sociologico ma teologico; infatti nelle parole di Gesù vi sono due passivi (sarà umiliato e sarà esaltato) che sono da ritenere passivi divini, ossia verbi che hanno Dio come soggetto. Quasi a dire: nella logica del Regno inaugurato da Gesù v’è un vero e proprio capovolgimento delle regole umane; tuttavia questo capovolgimento non può essere solo escatologico (cioè riguardante l’aldilà) ma interessa anche la vita di tutti i giorni, la quale è interpretata secondo la logica di Dio, cioè del Vangelo.
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Il senso della convivialità per noi
Che cosa rappresenta dunque la convivialità nel Vangelo di Luca?
Essa non è semplicemente la cornice ambientale dove si svolge una scena, ma attraverso i dialoghi e le azioni intorno alla tavola l’evangelista tratteggia l’identità di Gesù, il quale accoglie gli inviti a tavola, prende cibo, racconta, guarisce, rimprovera, esorta, rivela il mistero del Regno. 
Per mezzo della convivialità, uno dei simboli fondamentali di condivisione e di comunione, Luca rivela che Gesù si è seduto a tavola con ogni persona. 
Il mistero dell’incarnazione non è solo da leggere nei termini dell’assunzione della fragilità della carne, ma anche come assunzione di tutto quello che è dell’uomo, della sua natura e della sua cultura di cui il banchetto è segno. Inoltre, sedendosi alla nostra tavola il santo ci ospita alla sua mensa, entra in comunione con noi, ci offre se stesso, manifesta la sua misericordia, ci salva. Il banchetto diventa così una cifra della salvezza offerta da Dio in Gesù. Non è certamente un caso che Gesù abbia anticipato il senso della sua morte salvifica proprio a tavola, spezzando il pane e condividendo il calice, ordinando ai discepoli di ripetere quel gesto in sua memoria. Lettori e destinatari del testo lucano, anche noi ci troviamo oggi sollecitati a chiederci quale sia il senso della convivialità nella nostra società alla luce del modo di viverla di Gesù, quali siano le persone ai margini da invitare alla nostra tavola per condividere non solo il cibo ma anche le storie, intessute di speranze e fatiche, di gioie e sofferenze. Da questa convivialità del Signore con noi nascono relazioni nuove. Chi è stato raggiunto dalla grazia della salvezza ha un altro sguardo sulla realtà, ha un altro modo di sedersi alla tavola del mondo, ha un’altra considerazione delle persone, da lui ritenute fratelli. 

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«L’Eucaristia è il centro e la forma della vita della Chiesa» Papa Francesco Corpus Domini Santa Messa e Processione Eucaristica 26 maggio 2016 (Foto, testo e video)


È arrivato poco prima delle 19, Papa Francesco, all’appuntamento con i fedeli che già da qualche ora hanno gremito il sagrato di San Giovanni in Laterano per la tradizionale Messa del Corpus Domini, complice anche una bella giornata di sole che ora ha fatto posto al “ponentino”.  
La liturgia è iniziata con l’inno del Giubileo, “Misericordes Sicut Pater”, intonato dal coro della Cappella Sistina, diretto dal maestro Massimo Palombella, e dal coro della diocesi di Roma, diretto dal maestro Marco Frisina. 
Appena entrato in basilica, il Papa si è avvicinato all’altare per incensarlo. Poco dopo il canto del “Kiryie” e il “Gloria”, preludio alla liturgia della Parola.





 Ecco l'omelia del Santo Padre:

«Fate questo in memoria di me» (1 Cor 11,24.25).

Per due volte l’apostolo Paolo, scrivendo alla comunità di Corinto, riporta questo comando di Gesù nel racconto dell’istituzione dell’Eucaristia. E’ la testimonianza più antica sulle parole di Cristo nell’Ultima Cena.

«Fate questo». Cioè prendete il pane, rendete grazie e spezzatelo; prendete il calice, rendete grazie e distribuitelo. Gesù comanda di ripetere il gesto con cui ha istituito il memoriale della sua Pasqua, mediante il quale ci ha donato il suo Corpo e il suo Sangue. E questo gesto è giunto fino a noi: è il “fare” l’Eucaristia, che ha sempre Gesù come soggetto, ma si attua attraverso le nostre povere mani unte di Spirito Santo.

«Fate questo». Già in precedenza Gesù aveva chiesto ai discepoli di “fare”, quello che Lui aveva già chiaro nel suo animo, in obbedienza alla volontà del Padre. Lo abbiamo ascoltato poco fa nel Vangelo. Davanti alle folle stanche e affamate, Gesù dice ai discepoli: «Voi stessi date loro da mangiare» (Lc 9,13). In realtà, è Gesù che benedice e spezza i pani fino a saziare tutta quella gente, ma i cinque pani e i due pesci vengono offerti dai discepoli, e Gesù voleva proprio questo: che, invece di congedare la folla, loro mettessero a disposizione quel poco che avevano. E poi c’è un altro gesto: i pezzi di pane, spezzati dalle mani sante e venerabili del Signore, passano nelle povere mani dei discepoli, i quali li distribuiscono alla gente. Anche questo è “fare” con Gesù, è “dare da mangiare” insieme con Lui. E’ chiaro che questo miracolo non vuole soltanto saziare la fame di un giorno, ma è segno di ciò che Cristo intende compiere per la salvezza di tutta l’umanità donando la sua carne e il suo sangue (cfr Gv 6,48-58). E tuttavia bisogna sempre passare attraverso quei due piccoli gesti: offrire i pochi pani e pesci che abbiamo; ricevere il pane spezzato dalle mani di Gesù e distribuirlo a tutti. Fare e anche spezzare!

Spezzare: questa è l’altra parola che spiega il senso del «fate questo in memoria di me». Gesù si è spezzato, si spezza per noi. E ci chiede di darci, di spezzarci per gli altri. Proprio questo “spezzare il pane” è diventato l’icona, il segno di riconoscimento di Cristo e dei cristiani. Ricordiamo Emmaus: lo riconobbero «nello spezzare il pane» (Lc 24,35). Ricordiamo la prima comunità di Gerusalemme: «Erano perseveranti […] nello spezzare il pane» (At 2,42). E’ l’Eucaristia, che diventa fin dall’inizio il centro e la forma della vita della Chiesa. Ma pensiamo anche a tutti i santi e le sante – famosi o anonimi – che hanno “spezzato” se stessi, la propria vita, per “dare da mangiare” ai fratelli. Quante mamme, quanti papà, insieme con il pane quotidiano, tagliato sulla mensa di casa, hanno spezzato il loro cuore per far crescere i figli, e farli crescere bene! Quanti cristiani, come cittadini responsabili, hanno spezzato la propria vita per difendere la dignità di tutti, specialmente dei più poveri, emarginati e discriminati! Dove trovano la forza per fare tutto questo? Proprio nell’Eucaristia: nella potenza d’amore del Signore risorto, che anche oggi spezza il pane per noi e ripete: «Fate questo in memoria di me».

Possa anche il gesto della processione eucaristica, che tra poco compiremo, rispondere a questo mandato di Gesù. Un gesto per fare memoria di Lui; un gesto per dare da mangiare alla folla di oggi; un gesto per spezzare la nostra fede e la nostra vita come segno dell’amore di Cristo per questa città e per il mondo intero.

Guarda il video dell'omelia


Guarda il video della Santa Messa

Al termine della Messa la Processione Eucaristica  dalla basilica lateranense si è diretta verso la basilica di Santa Maria Maggiore, lungo via Merulana.
Il Papa, come di consueto, non ha partecipato alla Processione proprio per lasciare la centralità dell’evento a Gesù-Eucaristia, ma si è recato privatamente alla Basilica Liberiana, da cui ha impartito la benedizione solenne con il Santissimo Sacramento ai numerosi fedeli presenti.

Guarda il video della processione eucaristica


Guarda il video integrale




venerdì 27 maggio 2016

Nel giorno del Corpus Domini torna alla Casa del Padre il Cardinale Loris Francesco Capovilla fedele segretario, amico e confidente di Papa Giovanni XXIII

«Nel giorno della solennità liturgica del Corpus Domini, oggi 26 maggio, il Signore ha chiamato a sé Sua Eminenza il Cardinale Loris Francesco Capovilla, nel suo centesimo anno di età. Questa significativa coincidenza fa sgorgare la preghiera della Chiesa di Bergamo perché nell’Anno Giubilare della Misericordia il Signore accolga la sua anima nella liturgia del cielo, all’altare della grazia, dinanzi alla presenza di quel Dio che ha amato e servito come cristiano, come prete, come vescovo e per volontà di Papa Francesco come Cardinale».

«Il cardinale Capovilla, per il legame con il Santo Papa Giovanni XXIII, ha onorato la nostra Diocesi di Bergamo con la sua presenza discreta e saggia fin dal 1988 quando ha scelto di abitare a Ca’ Maitino, nell’abitazione che fu di Papa Roncalli. La Chiesa che vive in Bergamo ringrazia il Signore per il dono di quello che in diverse occasioni il vescovo Francesco Beschi ha definito un “padre saggio” per il suo legame forte di affetto con la nostra terra e con la nostra comunità ecclesiale, un “punto cardinale” che ha orientato i passi di tanta gente sulla strada della santità che Papa Giovanni ha tracciato».

L’addio al cardinale Capovilla
«L’ultimo saluto al telefono con il Papa»

Amava definirsi con parole semplici, umili. «Modesto contubernale di Giovanni XXIII», diceva di sé Loris Francesco Capovilla, il cardinale testimone della vita del Papa bergamasco.

Altrettanto essenziale ha voluto la camera ardente, allestita in quella che fu la casa di Angelo Giuseppe Roncalli, dimora estiva dal 1925, quando venne consacrato vescovo, al 1958 alla vigilia dell’elezione al Sommo pontificio. Una cassa di povertà custodisce le sue spoglie, una bara in pino - come aveva richiesto - adagiata nella sala dell’accoglienza dell’abitazione, spoglia se non fosse per il cero, la croce e l’inginocchiatoio, quest’ultimo proveniente dalla camera del Santo, con adagiati sopra l’aspersorio e il libro con il Rito delle esequie. Capovilla, zucchetto sul capo e la berretta sulla cornice della bara, con l’abito cardinalizio, la casula rossa, veste liturgica per celebrare la Messa, ha al collo un crocefisso in materiale povero, argento e legno d’ulivo, realizzati negli ultimi giorni dall’amico e scultore Giancarlo Frison.
La camera ardente a Sotto il Monte 
(Foto by Yuri Colleoni)

Il cardinale Capovilla
con il vescovo Francesco Beschi
Nel silenzio, intervallato dalle preghiere della vicaria generale, suor Anita Moroni, e delle altre suore poverelle custodi di Camaitino, compagne della vita ritirata sul colle di Sotto il Monte dove il cardinale aveva voluto restare fin dal 1988, l’andirivieni dei fedeli è composto e silenzioso, ricordando a bassa voce l’ultima uscita pubblica di Capovilla, quando la domenica delle Palme aveva trovato la forza di affacciarsi sul cortile e salutare i tanti che non avevano voluto perdere il tradizionale appuntamento in attesa della Pasqua.Tutti con impresse nella memoria le lacrime del porporato nell’abbracciare la Madonna di Loreto, giunta nella Bergamasca nel suo pellegrinare per l’Italia a fine dello scorso anno.

Il senatore Marco Boato era molto amico di Capovilla ed era con lui il 16 maggio quando è squillato il telefono alla Clinica Beato Palazzolo di Bergamo. Dall’altra parte della cornetta, Papa Francesco: «Don Loris non riusciva più a parlare, ma quando ha riconosciuto la voce si è illuminato in viso. Ha avuto la forza solo di ringraziare».
(fonte: L'Eco di Bergamo)

Loris Capovilla, nato il 14 ottobre 1915 a Pontelongo (Padova), ha attraversato quasi tutto l’ultimo secolo ed è stato testimone di un pontificato di cui ancora oggi si parla. E’ stato amico e confidente del nostro Papa Giovanni e con lui ha condiviso gioie e amarezze, gli attimi palpitanti del Concilio. A pochi minuti dalla notizia della sua morte da tutto il mondo sono arrivati ricordi e messaggi di vicinanza alla famiglia del cardinale e a tutta la Chiesa. Foto, video storici, citazioni: dal Giappone fino al Sudamerica sono stati postati migliaia di Tweet per ricordare il cardinale che fino all’ultimo ha testimoniato al mondo il pensiero e le opere di Papa Giovanni XXIII. La camera ardente è stata allestita al museo di Camaitino a Sotto il Monte.

Capovilla: il cardinale umile 
e l’aurora della Chiesa

Dall’esperienza del Concilio Vaticano II e del papato di Giovanni XXIII, Capovilla aveva tratto due insegnamenti: la mitezza e l’umiltà del cuore. Fino all’ultimo, don Loris è rimasto fedele alla lezione. Lui, humilis episcopus Ecclesiae Dei, che viveva ancora alla prima ora del giorno. Testimone eccezionale di una stagione che ha cambiato il volto della Chiesa

Dopo venti secoli di evangelizzazione, viviamo ancora l’aurora della Chiesa. Era la convinzione del cardinale Loris Francesco Capovilla, che si è spento oggi a Bergamo. Una data che non può essere casuale, quella della solennità liturgica del Corpus Domini, per un uomo che ha trascorso i cento anni della sua vita dividendosi tra l’altare e la gente. Testimone eccezionale di una stagione che ha cambiato il volto della Chiesa, don Loris si era ritirato ormai da tempo a Sotto il Monte Giovanni XXIII, nel paese natale dell’amato Papa Roncalli di cui conservava intatta la memoria.
Non era un prete da copertina e non amava le luci della ribalta. Quando Francesco ne annuncia la creazione a cardinale, nel gennaio 2014, le condizioni precarie di salute gli impediscono di essere presente al concistoro e il Papa affida al cardinale Angelo Sodano, decano del Sacro Collegio, il compito di imporgli la berretta a Sotto il Monte. Per lui, però, nulla cambiava: “Ogni giorno mi domando:

ma tu, piccolo Capovilla, che ti chiami addirittura vescovo della Chiesa, sei cristiano? Perché non basta essere vescovo o cardinale.

Per essere cristiano bisogna essere fedele e costante discepolo di Gesù, e questo è molto arduo per tutti noi”. Nutriva una fiducia incondizionata negli uomini, senza distinzioni: “Non ci sono buoni o cattivi per me, ci sono fratelli. Se sono buoni, sono tanto contento. Se hanno dei difetti e li dobbiamo rilevare, allora dobbiamo farlo senza astio o paura. Come stringo la mano di un bambino, così stringo la mano di ogni uomo. Ogni uomo è mio fratello, ogni donna è mia sorella”.
Dall’esperienza del Concilio Vaticano II e del papato di Giovanni XXIII, Capovilla aveva tratto due insegnamenti: la mitezza e l’umiltà del cuore. Raccontava che il giorno dell’elezione Angelo Roncalli, affacciandosi al balcone di San Pietro per benedire la folla, sentì le grida di gioia provenire dalla piazza ma non vide niente, perché accecato dai fari di cineoperatori e fotografi. Rientrando dal balcone, dietro al crocifero, confidò di aver guardato il Crocifisso con la sensazione che Gesù gli dicesse: “Angelino hai cambiato nome, ora ti chiami Giovanni, e hai cambiato anche il vestito. Ricordati che se non rimarrai mite e umile di cuore come me, sarai sempre cieco. Nulla vedrai della storia del mondo e della Chiesa e nulla potrai dire ai fedeli”. Fino all’ultimo, don Loris è rimasto fedele alla lezione. Lui, humilis episcopus Ecclesiae Dei, che viveva ancora alla prima ora del giorno. Tantum aurora est.
(fonte: Sir)

Vedi anche il nostro post precedente:
AUGURI PER I 100 ANNI DEL CARDINALE LORIS CAPOVILLA



"La Maddalena predicatrice" di Valentina Alberici


La Maddalena predicatrice 
di Valentina Alberici

«La predicazione non è anzitutto questione di parole o di termini, e neppure questione di regolamenti o di leggi, ma ha come fondamento il libero incontro dell'amore che ama e che viene ricevuto. È dunque in primo luogo questione di gioia e di bisogno di comunicare, che - come un fiume che non può impedirsi di scorrere - diviene per i predicatori, uomini e donne, una necessità vitale di testimoniare, insegnare, annunciare e servire».

Vorrei prendere spunto da questa bellissima riflessione di Catherine Aubin (disponibile integralmente a questo link) per soffermarmi molto brevemente su colei che fu la prima predicatrice di Gesù risorto: la discepola Maria, soprannominata "la Maddalena".

Secondo il vangelo giovanneo non vi sono dubbi a riguardo: Maria la Maddalena fu la prima a vivere l'esperienza dell'incontro con il Risorto - fondamento di ogni predicazione e, ancor prima, di ogni desiderio di predicare. E proprio "come un fiume che non può impedirsi di scorrere", corse a dare la buona notizia al resto della comunità.

È interessante esaminare il destino iconografico di Maria Maddalena in relazione a questo episodio evangelico. Innumerevoli sono le opere in cui è stata ritratta nel ruolo di testimone del Cristo risorto, anche se spesso si è scelto di sottolinearne lo stupore e la confusione, oppure si è voluto contrapporre il suo slancio emotivo verso il Maestro all'atteggiamento oltremodo schivo di Gesù.

Fortunatamente non tutti gli artisti hanno adottato una schema tanto riduttivo, tuttavia è indubbio che le raffigurazioni di Maria Maddalena in qualità di testimone del Risorto siano numerosissime, mentre le opere d'arte che la vedono come predicatrice della buona notizia sono rare, anzi rarissime.

Tra queste spicca, per bellezza e forza espressiva, una miniatura del Salterio di St. Albans in cui la Maddalena - con grande autorità - annuncia agli apostoli la resurrezione di Gesù (qui l'immagine) e forse non è un caso che questo splendido manoscritto fosse destinato ad una donna.

Eppure, a ben vedere, è un peccato che il primo annuncio del Cristo risorto sia stato tanto trascurato dagli artisti e dai loro committenti: una donna che predica agli uomini la buona notizia può forse risultare difficile da "digerire", ma fa comunque parte di quel susseguirsi di note che tutte insieme compongono la straordinaria melodia del Vangelo.
(Fonte: Vino Nuovo)