giovedì 7 novembre 2013

"Se la morte si eclissa nel cielo della vita" di mons. Bruno Forte


"Se la morte si eclissa nel cielo della vita"
di mons. Bruno Forte



Questi giorni d'inizio novembre, specialmente dedicati alla memoria di chi non è più fra noi, ci hanno inevitabilmente ricordato un tratto costitutivo della nostra condizione umana, la sua caducità. Martin Heidegger ne parlava come del nostro essere «gettati verso la morte», e rifletteva: «La morte non è affatto un mancare ultimo... essa è, prima di tutto, un'imminenza che sovrasta». Con la morte tutti dobbiamo fare i conti, anche se volessimo illuderci che non c'è! È per questo che la vita risulta tanto spesso impastata di malinconia e la sottile striscia di terra, su cui poggiano i nostri piedi, appare fasciata dall'abisso del nulla. Da questa vertigine scaturiscono tanto la situazione emotiva dell'angoscia, così diffusamente umana, quanto quella ripulsa del nulla che suscita, come per contraccolpo, la forza del domandare. È così che il pensiero nasce dalla morte: «Dalla morte, dal timore della morte - afferma Franz Rosenzweig - prende inizio e si eleva ogni conoscenza circa il Tutto». Eppure, nella modernità occidentale e in larga parte fino ai nostri giorni la morte sembra aver conosciuto un oblio. L'ottimismo della ragione adulta, dall'Illuminismo in poi, aveva esorcizzato la morte, relegandola a semplice momento di passaggio nel processo totale dello Spirito. Per l'uomo emancipato della modernità tutto ciò che è notte deve cedere il posto alla luce della ragione. Il mito moderno del progresso svuotava la morte della sua tragicità, perché ne faceva una tappa marginale della storia dell'individuo totalmente assimilato alla causa, sacrificato al trionfo dell'idea. Questa «eclissi della morte» è culminata nella figura della «morte rovesciata», espulsa dallo svolgersi della vita, che sembra non sopportare le interruzioni e i silenzi. La morte, quando non può esser taciuta, viene trasformata in spettacolo, in modo che ne sia esorcizzato il pungolo doloroso. È il trionfo della maschera a scapito della verità: scompaiono i segni del lutto; la rassicurazione evasiva e consolatoria sembra averla vinta su tutti i fronti rispetto alla serietà tragica dell'interruzione senza riparo. Eppure, nelle inquietudini del nostro presente, pare profilarsi una «nostalgia di perfetta e consumata giustizia» (Max Horkheimer), una sorta di ricerca del senso perduto, ultimo e più forte della morte. Non si tratta di un'operazione soltanto emotiva, ma di uno sforzo di ritrovare il senso al di là del naufragio: «restituer la mort» (Ghislain Lafont) diventa un compito, che ci sfida tutti. In questa ripresa della domanda sulla morte, trova nuovo spazio anche l'interrogativo sulla vita e il suo oltre: la morte è il «vallo estremo» o è la sentinella del futuro assoluto, decisivo per le scelte del vivere, anche se non deducibile dal nostro presente? ...
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