domenica 9 marzo 2025

Il Papa: nei deserti di povertà i volontari sono segni di speranza e umanità nuova (cronaca/commento e testo integrale omelia di Papa Francesco)


Il Papa: nei deserti di povertà i volontari sono segni di speranza e umanità nuova

Il cardinale Czerny, delegato da Francesco, presiede la Messa per il Giubileo del mondo del volontariato e legge l'omelia del Pontefice, che ai protagonisti della giornata dice: al fianco di sofferenti, carcerati, giovani e anziani, “la vostra dedizione infonde speranza a tutta la società”. E commentando il Vangelo domenicale: “Il mondo sta in mano a potenze malvagie, che schiacciano i popoli con l’arroganza dei loro calcoli e la violenza della guerra”, ma Dio ha redento l'umanità


Spiccano le divise fluorescenti di migliaia di volontari in piazza San Pietro, mentre il cielo grigio è squarciato dai raggi del sole e l'emiciclo del Bernini viene pian piano rischiarato totalmente. Sono in trentamila a partecipare alla Messa del Giubileo del mondo del volontariato, nella prima domenica di Quaresima, e i colori variopinti dei loro giubbini creano un colpo d'occhio cromatico, dove risaltano anche i paramenti viola del tempo liturgico che conduce alla Pasqua. Ci sono oltre un centinaio di concelebranti - fra cardinali, vescovi e sacerdoti - alla liturgia presieduta dal cardinale Michael Czerny, prefetto del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, delegato dal Papa dal 14 febbraio ricoverato al Policlinico Gemelli. Ma la sua presenza spirituale nella celebrazione è simboleggiata dal drappo pontificio con lo stemma papale sulla Loggia centrale della basilica vaticana.

Alcuni partecipanti alla Messa

Grazie ai volontari, germogli di umanità nuova

L’omelia preparata da Papa Francesco, e letta dal cardinale Czerny, è centrata sull’inizio del cammino quaresimale, ma con un pensiero particolare per i volontari di tutti i continenti giunti a Roma in pellegrinaggio. A loro il Papa, rivolge il suo saluto affettuoso ricordando il loro servizio e il loro impegno al fianco di tante persone, “tanti piccoli gesti di servizio gratuito” che “nei deserti della povertà e della solitudine” fanno sbocciare “germogli di umanità nuova: quel giardino che Dio ha sognato e continua a sognare per tutti noi”.

Vi ringrazio molto, carissimi, perché sull’esempio di Gesù voi servite il prossimo senza servirvi del prossimo. Per strada e tra le case, accanto ai malati, ai sofferenti, ai carcerati, coi giovani e con gli anziani, la vostra dedizione infonde speranza a tutta la società.

Il cardinale Czerny mentre legge l'omelia del Papa

Gesù apre la via attraverso il deserto

Commentando il Vangelo domenicale, il Papa si sofferma, in particolare, sulle tentazioni che Gesù affronta nel deserto, dove è “condotto dallo Spirito”. Questo luogo in cui “l’uomo sperimenta la propria indigenza materiale e spirituale, il bisogno di pane e di parola”, è uno “spazio” che Cristo “attraversa e trasforma per noi”. Perché in quel “luogo del silenzio” che “diventa ambiente dell’ascolto”, l’ascolto è “messo alla prova” e allora “occorre scegliere a chi dare retta tra due voci del tutto contrarie”. Nel deserto Gesù sperimenta la fame ed è tentato dalla parola del diavolo, ma la respinge.

Pure noi siamo tentati, ma non siamo soli: con noi c’è Gesù, che ci apre la via attraverso il deserto. Il Figlio di Dio fatto uomo non si limita a darci un modello nel combattimento contro il male. Ben di più: ci dona la forza per resistere ai suoi assalti e perseverare nel cammino.

L’inizio della tentazione

Nel testo dell’omelia, Francesco spiega le “tre caratteristiche della tentazione di Gesù e anche della nostra: l’inizio, il modo, l’esito” ed invita ciascuno a confrontare “queste due esperienze” per trovare sostegno nel proprio “itinerario di conversione”. Specifica, poi, riguardo l’inizio della tentazione, che Cristo “va nel deserto non per spavalderia, per dimostrare quanto è forte, ma per la sua filiale disponibilità verso lo Spirito del Padre”, mentre “la nostra tentazione, invece, è subita: il male precede la nostra libertà, la corrompe intimamente come un’ombra interiore e un’insidia costante”.

Mentre chiediamo a Dio di non abbandonarci nella tentazione, ricordiamoci che Egli ha già esaudito questa preghiera mediante Gesù, il Verbo incarnato per restare con noi, sempre. Il Signore ci è vicino e si prende cura di noi soprattutto nel luogo della prova e del sospetto, cioè quando alza la voce il tentatore.

Quest’ultimo “è padre della menzogna, corrotto e corruttore”, chiarisce il Pontefice, “perché conosce la parola di Dio, ma non la capisce. Anzi, la distorce”. È ciò che ha fatto “dai tempi di Adamo, nel giardino dell’Eden” e che fa con “Gesù, nel deserto”.

Il demonio vorrebbe far credere che Dio è lontano da noi

Quanto al “modo col quale Cristo viene tentato” riguarda la “relazione con Dio, il Padre suo”. “Il diavolo è colui che separa, il divisore”, aggiunge il Papa, tenta Gesù provocandolo in quanto Figlio di Dio. Cristo, invece, “è colui che unisce Dio e uomo”, è “il mediatore”. E se “nella sua perversione, il demonio vuole distruggere questo legame”, Gesù ne fa “una relazione che coinvolge tutti, senza escludere nessuno” e che “condivide nel mondo per la nostra salvezza”. All’uomo, al contrario, il diavolo cerca di far credere “che Dio non è davvero nostro Padre; che in realtà ci ha abbandonati”.

Satana mira a convincerci che per gli affamati non c’è pane, tanto meno dalle pietre, né gli angeli ci soccorrono nelle disgrazie. Semmai, il mondo sta in mano a potenze malvagie, che schiacciano i popoli con l’arroganza dei loro calcoli e la violenza della guerra. Proprio mentre il demonio vorrebbe far credere che il Signore è lontano da noi, portandoci alla disperazione, Dio viene ancora più vicino a noi, dando la sua vita per la redenzione del mondo.

Gesù ha vinto il male e ci ha redenti

Gesù “vince il male”, questo è “l’esito delle tentazioni”, conclude Francesco, “respinge il diavolo, che tuttavia”, come si legge nel Vangelo, “tornerà a tentarlo ‘al momento fissato’”, ossia quello in cui “sul Golgota, ancora una volta sentiremo chiedere a Gesù: ‘Se tu sei Figlio di Dio, scendi dalla croce’”. Ma “nella sua Pasqua di morte e risurrezione” Cristo sconfigge definitivamente “il tentatore”. Noi, invece, non sempre siamo capaci di vincere le tentazioni.

Davanti alla tentazione, noi talvolta cadiamo: siamo tutti peccatori. La sconfitta, però, non è definitiva, perché Dio ci solleva da ogni caduta con il suo perdono, infinitamente grande nell’amore. La nostra prova non finisce dunque con un fallimento, perché in Cristo veniamo redenti dal male.

In pratica, Gesù “apre per noi questa strada nuova, di liberazione e di riscatto”, sintetizza il Papa, e, seguendolo “con fede”, “da vagabondi diventiamo pellegrini”.

Nelle preghiere dei fedeli, tra le invocazioni a Dio, quelle in hindi per le "comunità cristiane", perché "vivendo un generoso servizio all'umanità ferita, possano resistere sempre alle tentazioni del maligno"; in francese per i governanti, perché "cercando sempre il bene comune, vivano il loro mandato nella giustizia e nella verità"; e in tedesco per i volontari, perché "donandosi senza riserve al prossimo, sperimentino la forza dello Spirito e la gioia che viene dalla carità".

A chiusura della Messa, infine, il canto dell' Ave, Regina Caelorum e dell'Inno del Giubileo Pellegrini di speranza.
(fonte: Vatican News, articolo di Tiziana Campisi 09/03/2025)

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GIUBILEO DEL MONDO DEL VOLONTARIATO

SANTA MESSA

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO 
LETTA DAL CARDINALE MICHAEL CZERNY

Piazza San Pietro
I Domenica di Quaresima, 9 marzo 2025


Gesù è condotto dallo Spirito nel deserto (Lc 4,1). Ogni anno, il nostro cammino di Quaresima inizia seguendo il Signore in questo spazio, che Egli attraversa e trasforma per noi. Quando Gesù entra nel deserto, infatti, accade un cambiamento decisivo: il luogo del silenzio diventa ambiente dell’ascolto. Un ascolto messo alla prova, perché occorre scegliere a chi dare retta tra due voci del tutto contrarie. Proponendoci questo esercizio, il Vangelo attesta che il cammino di Gesù inizia con un atto di obbedienza: è lo Spirito Santo, la stessa forza di Dio, che lo conduce dove nulla di buono cresce dalla terra né piove dal cielo. Nel deserto, l’uomo sperimenta la propria indigenza materiale e spirituale, il bisogno di pane e di parola.

Anche Gesù, vero uomo, ha fame (cfr v. 2) e per quaranta giorni è tentato da una parola che non viene affatto dallo Spirito Santo, bensì da quello malvagio, dal diavolo. Appena entrati nei quaranta giorni di Quaresima, riflettiamo sul fatto che pure noi siamo tentati, ma non siamo soli: con noi c’è Gesù, che ci apre la via attraverso il deserto. Il Figlio di Dio fatto uomo non si limita a darci un modello nel combattimento contro il male. Ben di più: ci dona la forza per resistere ai suoi assalti e perseverare nel cammino.

Consideriamo allora tre caratteristiche della tentazione di Gesù e anche della nostra: l’inizio, il modo, l’esito. Confrontando queste due esperienze, troveremo sostegno per il nostro itinerario di conversione.

Anzitutto, nel suo inizio la tentazione di Gesù è voluta: il Signore va nel deserto non per spavalderia, per dimostrare quanto è forte, ma per la sua filiale disponibilità verso lo Spirito del Padre, alla cui guida corrisponde con prontezza. La nostra tentazione, invece, è subita: il male precede la nostra libertà, la corrompe intimamente come un’ombra interiore e un’insidia costante. Mentre chiediamo a Dio di non abbandonarci nella tentazione (cfr Mt 6,13), ricordiamoci che Egli ha già esaudito questa preghiera mediante Gesù, il Verbo incarnato per restare con noi, sempre. Il Signore ci è vicino e si prende cura di noi soprattutto nel luogo della prova e del sospetto, cioè quando alza la voce il tentatore. Costui è padre della menzogna (cfr Gv 8,44), corrotto e corruttore, perché conosce la parola di Dio, ma non la capisce. Anzi, la distorce: come dai tempi di Adamo, nel giardino dell’Eden (cfr Gen 3,1-5), così fa ora contro il nuovo Adamo, Gesù, nel deserto.

Cogliamo qui il singolare modo col quale Cristo viene tentato, cioè nella relazione con Dio, il Padre suo. Il diavolo è colui che separa, il divisore, mentre Gesù è colui che unisce Dio e uomo, il mediatore. Nella sua perversione, il demonio vuole distruggere questo legame, facendo di Gesù un privilegiato: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ a questa pietra che diventi pane» (v. 3). E ancora: «Se tu sei Figlio di Dio, gettati giù» (v. 9) dal pinnacolo del Tempio. Davanti a queste tentazioni Gesù, il Figlio di Dio, decide in che modo essere figlio. Nello Spirito che lo guida, la sua scelta rivela come vuole vivere la propria relazione filiale col Padre. Ecco cosa decide il Signore: questo legame unico ed esclusivo con Dio, del quale è l’Unigenito Figlio, diventa una relazione che coinvolge tutti, senza escludere nessuno. La relazione col Padre è il dono che Gesù condivide nel mondo per la nostra salvezza, non un tesoro geloso (cfr Fil 2,6) da vantare per ottenere successo e attrarre seguaci.

Anche noi veniamo tentati nella relazione con Dio, ma all’opposto. Il diavolo, infatti, sibila alle nostre orecchie che Dio non è davvero nostro Padre; che in realtà ci ha abbandonati. Satana mira a convincerci che per gli affamati non c’è pane, tanto meno dalle pietre, né gli angeli ci soccorrono nelle disgrazie. Semmai, il mondo sta in mano a potenze malvagie, che schiacciano i popoli con l’arroganza dei loro calcoli e la violenza della guerra. Proprio mentre il demonio vorrebbe far credere che il Signore è lontano da noi, portandoci alla disperazione, Dio viene ancora più vicino a noi, dando la sua vita per la redenzione del mondo.

Ed ecco il terzo aspetto: l’esito delle tentazioni. Gesù, il Cristo di Dio, vince il male. Egli respinge il diavolo, che tuttavia tornerà a tentarlo «al momento fissato» (v. 13). Così dice il Vangelo, e ce ne ricorderemo quando, sul Golgota, ancora una volta sentiremo chiedere a Gesù: «Se tu sei Figlio di Dio, scendi dalla croce» (Mt 27,40; cfr Lc 23,35). Nel deserto il tentatore viene sconfitto, ma la vittoria di Cristo non è ancora definitiva: lo sarà nella sua Pasqua di morte e risurrezione.

Mentre ci prepariamo a celebrare il Mistero centrale delle fede, riconosciamo che l’esito della nostra prova è diverso. Davanti alla tentazione, noi talvolta cadiamo: siamo tutti peccatori. La sconfitta, però, non è definitiva, perché Dio ci solleva da ogni caduta con il suo perdono, infinitamente grande nell’amore. La nostra prova non finisce dunque con un fallimento, perché in Cristo veniamo redenti dal male. Attraversando con Lui il deserto, percorriamo una via dove non ne era tracciata alcuna: Gesù stesso apre per noi questa strada nuova, di liberazione e di riscatto. Seguendo con fede il Signore, da vagabondi diventiamo pellegrini.

Care sorelle e cari fratelli, vi invito a iniziare così il nostro cammino di Quaresima. E poiché, lungo la strada, ci occorre quella buona volontà, che lo Spirito Santo sempre sostiene, sono contento di salutare tutti i volontari che oggi sono presenti a Roma per il loro pellegrinaggio giubilare. Vi ringrazio molto, carissimi, perché sull’esempio di Gesù voi servite il prossimo senza servirvi del prossimo. Per strada e tra le case, accanto ai malati, ai sofferenti, ai carcerati, coi giovani e con gli anziani, la vostra dedizione infonde speranza a tutta la società. Nei deserti della povertà e della solitudine, tanti piccoli gesti di servizio gratuito fanno fiorire germogli di umanità nuova: quel giardino che Dio ha sognato e continua a sognare per tutti noi.


"Un cuore che ascolta - lev shomea" n° 18 - 2024/2025 anno C

"Un cuore che ascolta - lev shomea"

"Concedi al tuo servo un cuore docile,
perché sappia rendere giustizia al tuo popolo
e sappia distinguere il bene dal male" (1Re 3,9)



Traccia di riflessione sul Vangelo
a cura di Santino Coppolino


 I DOMENICA DI QUARESIMA ANNO C

Vangelo:
Lc 4,1-13

Dopo il suo Battesimo al Giordano, Gesù è spinto dallo Spirito nel deserto, come avvenne per il popolo di Israele, ma, a differenza di Israele, che cadde nella prova e vi perì, Gesù ne viene fuori da vincitore. Se i progenitori, dopo il loro peccato, persero il paradiso terrestre e finirono nel deserto, Gesù, nuovo Adamo, partendo proprio dal deserto, supera la prova e inaugura l'ingresso nella terra promessa introducendoci nel Regno. L'episodio evangelico delle tentazioni altro non è che il tessuto della vita di tutti i giorni di ogni creatura umana, la continua lotta contro il male e i costi del bene. Luca fa subito chiarezza circa il messianismo incarnato da Gesù e il suo categorico rifiuto di viverlo all'insegna dell'esercizio del potere: economico (il pane), politico (i regni), religioso (il tempio). In luogo del potere, Gesù sceglie l'ascolto obbediente della Parola del Padre, nell'umiltà, nella povertà e nel servizio agli ultimi. Gesù non cade nel tranello del divisore (diàbolos), quello, cioè, di utilizzare il potere nemmeno per fini nobili, nemmeno a fin di bene, perché il potere è in se stesso diabolico e «utilizzare i mezzi del nemico significa lavorare per lui, il cui fine è quello di far utilizzare tali mezzi all'uomo per renderlo idolatra» (cit). Il nostro Maestro ci insegna - e ce lo insegna perché lo vive lui per primo - che esiste una realtà-altra che vale più del pane, più del potere politico, più del potere religioso, molto più dell'effimera gloria dell'uomo: la realtà di vivere alla Presenza del Padre come figli amati, obbedienti alla Sua Parola, totalmente rivolti a Lui nell'amore vicendevole e nel servizio agli ultimi.


sabato 8 marzo 2025

DALLE CENERI ALLA LUCE La tecnica vincente di Gesù è opporre per tre volte al Nemico dell’uomo, un bene maggiore; al volare basso, orizzonti liberi; alla cenere, la luce; al deserto, un mondo dove anche le pietre sono sillabe del discorso di Dio. - I DOMENICA DI QUARESIMA ANNO C - Commento al Vangelo a cura di P. Ermes Maria Ronchi

DALLE CENERI ALLA LUCE

La tecnica vincente di Gesù è opporre per tre volte al Nemico dell’uomo, un bene maggiore; al volare basso, orizzonti liberi; alla cenere, la luce; al deserto, un mondo dove anche le pietre sono sillabe del discorso di Dio.


In quel tempo, Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano ed era guidato dallo Spirito nel deserto, per quaranta giorni, tentato dal diavolo. Non mangiò nulla in quei giorni, ma quando furono terminati, ebbe fame. Allora il diavolo gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ a questa pietra che diventi pane». Gesù gli rispose: «Sta scritto: "Non di solo pane vivrà l’uomo"». Il diavolo lo condusse in alto, gli mostrò in un istante tutti i regni della terra e gli disse: «Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio. Perciò, se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo». Gesù gli rispose: «Sta scritto: "Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto"». Lo condusse a Gerusalemme, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù di qui; sta scritto infatti: "Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo affinché essi ti custodiscano"; e anche: "Essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra"». Gesù gli rispose: «È stato detto: "Non metterai alla prova il Signore Dio tuo"».Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato. Lc 4,1-13
 
DALLE CENERI ALLA LUCE
 
La tecnica vincente di Gesù è opporre per tre volte al Nemico dell’uomo, un bene maggiore; al volare basso, orizzonti liberi; alla cenere, la luce; al deserto, un mondo dove anche le pietre sono sillabe del discorso di Dio.

Cenere sul capo e nardo profumato sui capelli di Gesù: sono le due parentesi che aprono e chiudono il tempo di quaresima, che va dal mercoledì delle ceneri, all’ultimo mercoledì, vigilia dei giorni supremi. Cenere e nardo sul capo: tra questi due poli si snoda il percorso quaresimale. O anche: dalle ceneri all’acqua, quella versata da Gesù sui piedi degli apostoli, nell’ultima sera, nell’ultima e prima di infinite cene in suo ricordo. Povertà e bellezza, fragilità e servizio sono le due grandi prediche che la chiesa affida ai segni, più che alle parole.

Segni altrettanto potenti, che incidono a fondo il cuore, sono le tre tentazioni raccontate dal vangelo.

Tentazioni strane: nessuno di noi pensa di mangiare pietre, o di ordinare che diventino pane; nessuno pensa di arrampicarsi sui pinnacoli del tempio e di volare giù. Eppure: “togliete le tentazioni e più nessuno si salverà” (Sant’Antonio Abate, IV sec). Perché nessuno avrà più la possibilità di scegliere, e scegliere è vivere, il nostro decreto di libertà, una chiamata al futuro.

Nelle tentazioni sono racchiuse le tre connessioni di fondo di ogni esistenza umana: io e le cose, io e gli altri, io e l’Altro.

Scelgo quindi la relazione esatta da instaurare con le cose, non predatoria ma grata. Scelgo tra fede o superstizione, tra un Dio che è miracolo e un Dio che è ossigeno. Tra impormi sugli altri o servirli.

Le tentazioni non si evitano, si attraversano, e come si fa? Con un grande sforzo di volontà? La strategia di Gesù è un’altra: rilanciare, alzare la posta in gioco mostrando che ci sono cose che nutrono più del pane...

Egli oppone all’offerta del tentatore parole più alte, e le trova nella Bibbia, e tutte contengono un di più di vita: non di solo pane vive l’uomo, c’è dell’ altro che fa vivere le persone, è tutto ciò che è venuto dalla bocca di Dio. E dalla bocca di Dio son venuti la luce, le stelle, l’intero creato, la bontà e la bellezza, e sei venuto tu, mio prossimo, mio amato, amore mio che mi fai vivere.

La tecnica vincente di Gesù è opporre per tre volte al Nemico dell’uomo, un bene maggiore; al volare basso, orizzonti liberi; alla cenere, la luce; al deserto, un mondo dove anche le pietre sono sillabe del discorso di Dio: nel cuore della pietra Dio sogna il suo sogno (G. Vannucci).

Lo Spirito che ha condotto Gesù nel deserto non lo ha abbandonato, è lì con lui; e fra le pietre di Giudea fa vibrare il sussurro della brezza leggera, il brivido del silenzio, come per Elia sul monte quando Dio passava.

Noi credenti non siamo più bravi degli altri, noi siamo soltanto i non-da-soli, i non-abbandonati, quelli al sicuro sulla rotta da percorrere perché sulla loro vela soffia sempre il vento di Dio, la ‘ruah’ che accende parole di fuoco e di miele.

8 marzo Giornata Internazionale della donna - Tonio Dell'Olio: "Le donne non" e "Ruah"

Tonio Dell'Olio


Le donne non

PUBBLICATO IN MOSAICO DEI GIORNI  IL 6 MARZO 2025

Non serve fare largo alle donne: ci pensano già da sole. E nemmeno varare leggi che garantiscano loro il diritto ad occupare uno spazio, un ruolo.

Le donne si siedono, camminano, giocano, parlano, sorridono o piangono quando, come, se, con chi vogliono. Mi spaventa piuttosto che abbiamo bisogno di immaginare – ancora oggi – misure e leggi per riconoscere la pari dignità alle donne. Il problema non è nella legge che manca ma nel pensiero inciso a fuoco nella testa di molti uomini con la formula de “le donne non”. 

Non sono capaci, non sono adatte, non ce la fanno. Le donne non sono dotate naturalmente, non possono perché poi sono loro che restano incinte, non devono trascurare la casa, non sono tagliate per le scienze dure. Le donne non hanno la misura, non hanno capacità organizzativa, non seguono la logica giusta, non hanno la nostra stessa esperienza. 
È questo muro di cemento armato di pregiudizi e luoghi comuni che bisogna abbattere dentro la coscienza di ognuno. 

Altro che mimose!

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Ruah

PUBBLICATO IN MOSAICO DEI GIORNI  IL 7 MARZO 2025

Una danza infinita con le donne del mondo che hanno i colori della terra e del cielo. E l’ansimare del ritmo diventa il respiro della vita.

Perché le donne sono il filo della vita stessa che dice concepimento e generazione non solo da utero ma anche da anima e spirito. Per questo ogni donna è chiamata a dare la vita. Da madre. Talvolta da martire. Anche quando non ha mai partorito, ha sicuramente generato. Gli ebrei per dire questo usano il femminile con ruah e pertanto è femmina la terza persona della Trinità, è il femminile di Dio. Si direbbe Spirita! E non è affatto un caso. È colei che genera a vita nuova e come vento scompiglia ogni cosa, gli dà volo, gli dà cielo. Ci costringe a sollevare lo sguardo verso l’alto, verso l’altra o l’altro. È il fiato primordiale di Dio che risveglia il primo Adamo, aleggia sulle acque e tiene in vita l’universo.

La donna come respiro del genere umano, questo si dovrebbe celebrare.

Le donne e la pace

Sguardi sulla vita e l’umano  

Le donne e la pace


L’ultima enciclica di Giovanni XXIII, affrontando la questione della pace, si confronta anche con l’ingresso delle donne nella vita pubblica, riconoscendolo come una conquista dei popoli di civiltà cristiana. La Pacem in Terris sottolinea come, in questa tradizione, la “coscienza della propria dignità” appaia, per le donne, più marcata e operante (§ 22 del capitolo sull’ordine conviviale tra gli esseri umani, 11 aprile 1963).

Il tema della dignità, sollevato sul piano dei diritti civili, emerge infine anche sul piano teologico e salvifico, senza ridursi alla sola — seppur legittima ed edificante — emancipazione sociale. Negli anni Settanta, nel periodo della “Contestazione”, la Chiesa attribuisce infatti la “singolare dignità” delle donne non tanto alla giurisprudenza quanto all’adorazione, eminentemente femminile, del “neonato Principe della Pace”. In questa prospettiva mariana, viene dunque proposto un modello alternativo.

Per questo motivo, Paolo VI istituisce la Giornata mondiale della pace l’8 dicembre, in occasione della festa dell’Immacolata Concezione, poi celebrata ogni anno, secondo la riforma liturgica del rito romano, il 1º gennaio, nella solennità di Maria Santissima Madre di Dio. In tal modo si richiama il ruolo di Maria, definita “nuova Donna”, nel “mistero della salvezza” (Marialis Cultus, 2 febbraio 1974).

Il “genio della donna” è evocato nella lettera apostolica Mulieris Dignitatem, in cui la “dignità” femminile, oltre a riguardare la sfera sociale, abbraccia «ciò che è essenzialmente umano». Essa si fonda sull’affidamento, da parte di Dio, «in un modo speciale», della cura dell’essere umano alla donna (15 agosto 1988).

Questo concetto si inserisce nel solco del concilio Vaticano II, che, nella sua sessione conclusiva, aveva riconosciuto nelle donne il «mistero della vita che comincia», assegnando loro il compito di «salvare la pace del mondo» («Spetta a voi…», si legge nel messaggio dell’8 dicembre 1965).

Seguendo questa prospettiva, Giovanni Paolo II dedica alle donne la 28ª Giornata mondiale della pace, ponendo l’accento sul tema dell’educazione e quindi sul ruolo dell’“educatrice”. Egli sottolinea la responsabilità «che Maria assume, tra tutte le donne e in particolare tra le madri, nel progetto che Dio realizza «in lei per la salvezza dell’intera umanità» (1º gennaio 1995).

Nella Lettera alle donne, papa Wojtyła richiama nuovamente il loro “genio”, che, nella figura della Madonna, si esprime nell’unione tra il regno di Dio e il servizio d’amore (29 giugno 1995), inserendolo in un contesto di particolare rilevanza per la politica internazionale.

Nel nuovo millennio, Benedetto XVI esorta a riscoprire nelle donne il patrimonio di fede in Cristo. Rilegge i passi di Mt 27, 56-61 e Mc 15, 40 sulle donne presenti davanti alla Croce, mettendone in risalto il ruolo di vere protagoniste. La loro presenza in primo piano accentua l’assenza dei “Dodici” (neanche Giovanni è menzionato), poiché esse «non abbandonarono Gesù nell’ora della Passione» (Le donne a servizio del Vangelo, 14 febbraio 2007).

Durante il Giubileo straordinario della misericordia, viene ribadito che “Maria” — insieme al «discepolo dell’amore» — è testimone delle parole di perdono di Gesù. Una donna, infatti, è presente nell’ascolto del «perdono supremo» che «non conosce confini» (Misericordiae Vultus, 11 aprile 2015).

Nella Gaudete et exsultate, Papa Francesco sottolinea come il “genio femminile” sia uno degli stili “indispensabili” della chiamata alla santità nel mondo contemporaneo (cap. i, § 12, 19 marzo 2018). Il Santo Padre, che nel 2015 istituisce una Consulta femminile all’interno del Pontificio Consiglio della cultura, declina al femminile i suoi appelli alla pace. Avanza una delle formule più incisive: “La pace è donna”. In altre parole, afferma che «il sogno della pace si realizza guardando alla donna», alla sua grazia nel dono della vita, poiché le donne «danno la vita» e ne sono custodi sin dall’origine (8 marzo 2019).

La teologia del femminismo cristiano invita a riconoscere nel «corpo di una donna» il mezzo attraverso cui «è arrivata la salvezza per l’umanità». Ogni violenza inflitta alla donna equivale a «una profanazione di Dio, nato da donna» (Omelia nella solennità di Maria Madre di Dio, LIII Giornata mondiale della pace, 1º gennaio 2020).

Nel 2022, Papa Francesco ribadisce: «La Chiesa è donna». Con questa riformulazione del legame tra donna e pace, si riafferma che «Dio […] da una donna ha preso l’umanità» (LV Giornata mondiale della pace, santa messa).

Nel 2024, nei discorsi sulla pace, si intensificano i riferimenti alla questione femminile. Si invita a «guardare alle madri e alle donne […] per uscire dalle spirali della violenza […], e tornare ad avere sguardi umani» (Omelia nel giorno della Theotókos). Il «contributo femminile» appare «più che mai indispensabile» per un’umanità «sfregiata […] dalla guerra». Questo apporto mette in luce nelle donne doti di «artigiane [artefici], collaboratrici del Creatore a servizio della vita» (7 marzo).

Nel documento finale della seconda sessione della XVI Assemblea generale del Sinodo dei vescovi, dedicata al tema della “Chiesa sinodale”, si presta particolare attenzione a Maria di Magdala, evidenziando che «a una donna» era stato «affidato il primo annuncio della Risurrezione». In Gv 20, 1-2, si riconosce il ruolo preminente da lei rivestito nella storia della salvezza (§ 60, 26 ottobre).

A una donna, Maria, “Regina della Pace”, il Pontefice affida la supplica affinché «tacciano ovunque le armi», in un’orazione pronunciata per il Giubileo delle Forze Armate, il 9 febbraio 2025. Nell’omelia si mette in luce la «presenza sacerdotale» in ambito militare, sottolineando il ruolo dei cappellani, chiamati a insegnare agli eserciti a pregare l’Ave Maria e a trarre ispirazione dall’amore trascendente di una madre per i propri figli.
(Fonte: L'Osservatore Romano, articolo di Pino Esposito 07/03/2025)


venerdì 7 marzo 2025

Domande sul riarmo in un mondo sempre meno capace di diplomazia Il piano «Rearm Europe», 800 miliardi di euro per gli armamenti nel Vecchio Continente: davvero questo ci garantisce?


Domande sul riarmo in un mondo sempre meno capace di diplomazia
Il piano «Rearm Europe», 800 miliardi di euro per gli armamenti 
nel Vecchio Continente: davvero questo ci garantisce?

di Andrea Tornielli


«L’aumento di risorse economiche per gli armamenti è ritornato ad essere strumento delle relazioni tra gli Stati, mostrando che la pace è possibile e realizzabile solo se fondata su un equilibrio del loro possesso. Tutto questo genera paura e terrore e rischia di travolgere la sicurezza poiché dimentica come un fatto imprevedibile e incontrollabile possa far scoccare la scintilla che mette in moto l’apparato bellico». Sono parole pronunciate meno di due anni fa da Papa Francesco per il sessantesimo anniversario della Pacem in Terris e si attagliano bene anche a ciò che sta vivendo l’Europa, nel momento in cui viene annunciato dalla presidenza della Commissione un piano che consentirà di mobilitare per la difesa Ue circa 800 miliardi di euro. “Rearm Europe” è il nome del piano, evocativo di tragici momenti di «paura e terrore» del recente passato.

L’Europa, negli ultimi tre anni, si è purtroppo dimostrata anch’essa incapace di iniziativa e creatività diplomatica. È sembrata in grado soltanto di rifornire di armi l’Ucraina ingiustamente aggredita dalle truppe russe, ma non di proporre e perseguire, al contempo, concrete vie negoziali per mettere fine al sanguinoso conflitto. E ora si prepara ad investire, sulla scia di analoghe iniziative prese da altre potenze mondiali, la cifra esorbitante di 800 miliardi in armi. Non li investe per combattere la povertà, per finanziare programmi in grado di migliorare le condizioni di vita di chi fugge dai propri Paesi a causa di violenze e miseria, per migliorare il welfare, l’educazione e la scuola, per garantire un futuro umano alla tecnologia, né per assistere gli anziani. Li investe per gonfiare gli arsenali e dunque le tasche dei fabbricanti di morte, nonostante già oggi la spesa militare dei Paesi dell’Unione superi quella della Federazione Russa. È davvero questa la via da seguire per assicurare un futuro di pace e prosperità al Vecchio Continente e al mondo intero? Davvero la corsa al riarmo ci garantisce? Davvero è qui la chiave per ritrovare le nostre radici e i nostri valori?

Invece di costituire, come proposto dal Papa nell’anno del Giubileo, un Fondo mondiale per eliminare finalmente la fame e promuovere uno sviluppo sostenibile dell’intero pianeta, utilizzando una percentuale fissa del denaro impiegato nelle spese militari, si progetta di riempire gli arsenali di nuovi ordigni, come se le atomiche stoccate nei magazzini già non minacciassero a sufficienza un olocausto nucleare in grado di distruggere più volte l’umanità intera. Come se quella Terza guerra mondiale a pezzi profeticamente evocata già un decennio fa dal Successore di Pietro non fosse la vera minaccia da scongiurare. Invece di cercare di ritagliarsi un ruolo attivo e propositivo per la pace e per il negoziato, l’Unione rischia di ritrovarsi unita nell’escalation del riarmo.

È il prevalere, ancora una volta, di quello che Francesco nell’aprile 2022, aveva definito lo «schema della guerra», che porta a «fare investimenti per comprare le armi» dicendo «ne abbiamo bisogno per difenderci». Il Papa aveva citato il venir meno della «grande e buona» volontà di pace che aveva caratterizzato il periodo immediatamente successivo alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Aveva amaramente osservato che «settant’anni dopo abbiamo dimenticato tutto questo. È così lo schema della guerra si impone… lo schema della guerra si è imposto un’altra volta. Noi non possiamo pensare un altro schema, Non siamo più abituati a pensare allo schema della pace».

Non ci sarebbe bisogno di leader che, invece di puntare sul riarmo, recuperassero quello spirito, impegnandosi nel dialogo per fermare la guerra in Ucraina e le altre guerre? Due anni fa, da Budapest, Francesco aveva rivolto una domanda cruciale ai leader europei e del mondo intero. Aveva fatte sue le parole pronunciate nel 1950 da Robert Schuman: «Il contributo che un’Europa organizzata e vitale può apportare alla civiltà è indispensabile per il mantenimento di relazioni pacifiche», in quanto «la pace mondiale non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano». Il Papa si era quindi domandato: «In questa fase storica i pericoli sono tanti; ma, mi chiedo, anche pensando alla martoriata Ucraina, dove sono gli sforzi creativi di pace?».

La prevedibile e prevista scossa che ha attraversato gli assetti geopolitici mondiali, con il cambio della guardia alla Casa Bianca, avrebbe potuto generare qualche iniziativa comune nel senso indicato dal Successore di Pietro, nel tentativo di porre fine alla carneficina che si consuma nel cuore dell’Europa cristiana. Ha detto in una recente intervista il cardinale Segretario di Stato Pietro Parolin: «La pace autentica nasce dal coinvolgimento di tutte le parti in causa. Bisogna che ciascuno abbia qualcosa, in un compromesso nessuno può avere tutto e tutti devono essere disposti a negoziare qualcosa. Altrimenti la pace non sarà mai stabile e duratura. Bisognerà tornare a questo stile, altrimenti il mondo diventerà una giungla e ci saranno soltanto conflitti, con il loro terribile portato di morte e distruzione».

L’unico vero piano, l’unico realistico appello da lanciare oggi, al posto di «Rearm Europe», non dovrebbe piuttosto essere «Peace for Europe»? Lo chiediamo facendo nostre le parole del Papa che dalla stanza del Policlinico Gemelli domenica scorsa ha detto: «Prego soprattutto per la pace. Da qui la guerra appare ancora più assurda».

(Fonte:  Vatican News - 06 marzo 2025)

Quel “no” alle armi lungo un intero pontificato

Quel “no” alle armi lungo un intero pontificato



Le uniche “armi” a cui Papa Francesco ha dato il suo assenso sin dal primo momento in cui è salito sul Soglio di Pietro e per i successivi dodici anni sono state il dialogo e l’incontro e, per i cattolici, la preghiera e il digiuno. Per il resto è stato sempre e solo un grande “no” quello pronunciato dal Pontefice argentino agli armamenti, al loro commercio, a un mercato che va sempre più fiorendo laddove marcisce la vita di intere popolazioni. Un “no” che risuona ancora potente — seppur in un momento in cui da oltre venti giorni non si ascolta la voce del Papa — alla luce degli attuali piani di riarmo dell’Europa annunciati dalla presidenza della Commissione Ue.

Ha iniziato con la Evangelii gaudium, l’esortazione apostolica che dal 2014 ha tracciato il piano del suo magistero, Francesco, a stigmatizzare quei «meccanismi dell’economia attuale» che «promuovono un’esasperazione del consumo». E questo «consumismo sfrenato, unito all’inequità», scriveva, «danneggia doppiamente il tessuto sociale. In tal modo la disparità sociale genera prima o poi una violenza che la corsa agli armamenti non risolve né risolverà mai» ma «serve solo a cercare di ingannare coloro che reclamano maggiore sicurezza, come se oggi non sapessimo che le armi e la repressione violenta, invece di apportare soluzioni, creano nuovi e peggiori conflitti».

Nello stesso anno, il 2014, nel primo e indimenticato incontro in Vaticano con i Movimenti Popolari, Francesco condensava in una espressione, sempre poi ripetuta, l’emergenza di quest’epoca: «La terza guerra mondiale» combattuta «a pezzi». Una denuncia che oggi si può osservare come profetica, considerando il fatto che è stata pronunciata quasi un decennio prima della invasione russa all’Ucraina e la deflagrazione di nuove violenze nella Striscia di Gaza.

«Ci sono sistemi economici — affermava il Pontefice in quello stesso discorso — che per sopravvivere devono fare la guerra. Allora si fabbricano e si vendono armi e così i bilanci delle economie che sacrificano l’uomo ai piedi dell’idolo del denaro ovviamente vengono sanati. E non si pensa ai bambini affamati nei campi profughi, non si pensa ai dislocamenti forzati, non si pensa alle case distrutte, non si pensa neppure a tante vite spezzate».

Dieci anni dopo, il Papa non ha mutato il suo pensiero ma, anzi, lo ha acuito e rinvigorito, alla luce delle notizie provenienti dall’est-Europa e dalla polveriera mediorientale. Notizie che «sembrano farci perdere la fiducia nelle capacità dell’essere umano», come diceva nell’udienza alla Confederazione nazionale artigianato e piccola media impresa nel novembre 2024. «Viviamo tempi di guerra, di violenze», affermava il Papa, condividendo quell’aneddoto personale reiterato poi in tanti discorsi e interviste: «Mi ha detto un economista che gli investimenti che danno più reddito oggi, in Italia, sono le fabbriche delle armi. Questo non abbellisce il mondo, è brutto. Se tu vuoi guadagnare di più devi investire per uccidere… Abbellire il mondo è costruire pace».

Questo pensiero ha preso la forma di una proposta concreta, da parte del Papa, presentata agli occhi dei responsabili delle nazioni nel suo discorso — non pronunciato personalmente, ma letto dal cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin — alla Cop28 del 2023 a Dubai: «Quante energie sta disperdendo l’umanità nelle tante guerre in corso… conflitti che non risolveranno i problemi, ma li aumenteranno! Quante risorse sprecate negli armamenti, che distruggono vite e rovinano la casa comune! Rilancio una proposta: con il denaro che si impiega nelle armi e in altre spese militari costituiamo un Fondo mondiale per eliminare finalmente la fame».

La stessa proposta è tornata nella Spes non confundit, la bolla di indizione del Giubileo, cristallizzata dal Papa, però, non più come idea che qualche uomo o donna di buona volontà possa raccogliere, bensì come iniziativa concreta da sviluppare durante l’Anno Santo insieme all’abolizione della pena di morte, il condono del debito per i Paesi poveri e il far tacere — appunto — definitivamente le armi.

Ripercorrendo a ritroso gli interventi pubblici e gli atti magisteriali di Papa Francesco non si contano gli appelli contro armi e riarmi: dall’Urbi et Orbi del 2020 in una Basilica di San Pietro isolata, mentre il mondo lottava con la pandemia di Covid, in cui il Papa affermò: «Non è questo il tempo in cui continuare a fabbricare e trafficare armi, spendendo ingenti capitali che dovrebbero essere usati per curare le persone e salvare vite», passando per il messaggio al Globsec Bratislava Forum (giugno 2021) in cui domandava di convertire «le armi in cibo», fino al lungo discorso al g7 del giugno scorso in Puglia — primo Pontefice a prendervi parte — quando, evidenziando rischi e potenzialità dell’Intelligenza Artificiale, Francesco volle insistere su un punto: «In un dramma come quello dei conflitti armati è urgente ripensare lo sviluppo e l’utilizzo di dispositivi come le cosiddette “armi letali autonome” per bandirne l’uso, cominciando già da un impegno fattivo e concreto per introdurre un sempre maggiore e significativo controllo umano». Da lì, le parole divenute tra i principali moniti sull’IA: «Nessuna macchina dovrebbe mai scegliere se togliere la vita ad un essere umano».

Ma se c’è un palco dal quale il pastore della Chiesa cattolica universale ha fatto risuonare più di ogni altro il suo “no” alle armi sono stati i viaggi apostolici internazionali. Già nel 2015, durante la Messa a Sarajevo, tra i luoghi che più di altri hanno conosciuto la devastazione della guerra, Francesco si scagliò contro il clima di odio e chi «vuole crearlo e fomentarlo deliberatamente», ovvero «coloro che cercano lo scontro tra diverse culture e civiltà, e anche coloro che speculano sulle guerre per vendere armi».

«Le armi e la repressione violenta, invece di apportare soluzioni, creano nuovi e peggiori conflitti. L’equità della violenza è sempre una spirale senza uscita; e il suo costo, molto elevato», ammoniva il Papa, invece, nella Messa del 2019 a Maputo (Mozambico). Mentre durante lo storico — perché altrimenti non si può definire — viaggio del 2021 in Iraq, il Pontefice, dinanzi alle autorità a Baghdad, elevò il suo grido: «Tacciano le armi! Se ne limiti la diffusione, qui e ovunque!». E ai rappresentanti delle diverse confessioni, incontrati successivamente, chiese poi di «convertire gli strumenti di odio in strumenti di pace»: «Sta a noi esortare con forza i responsabili delle nazioni perché la crescente proliferazione delle armi ceda il passo alla distribuzione di cibo per tutti».

Non si dimentica, inoltre, il discorso alle autorità del Kazakhstan nel 2022 con l’invito a impegnarsi di più «a promuovere e rafforzare la necessità che i conflitti si risolvano non con le inconcludenti ragioni della forza, con le armi e le minacce, ma con gli unici mezzi benedetti dal Cielo e degni dell’uomo: l’incontro, il dialogo, le trattative pazienti, che si portano avanti pensando in particolare ai bambini e alle giovani generazioni». E non si dimentica anche quanto affermato dal Papa dinanzi alle autorità di Malta, nel viaggio del 2022: «Ci siamo abituati a pensare con la logica della guerra. Da qui comincia a soffiare il vento gelido della guerra, che anche stavolta è stato alimentato negli anni. Sì, la guerra si è preparata da tempo con grandi investimenti e commerci di armi». Sulla stessa scia a Marsiglia, nel settembre 2023, Francesco asseriva: «Con le armi si fa la guerra, non la pace, e con l’avidità di potere sempre si torna al passato, non si costruisce il futuro».

Attingendo alla storia e in particolare a quella dell’Europa che ha cercato di lasciarsi alle spalle divisioni, contrasti e guerre, causate da «nazionalismi esasperati» e «ideologie perniciose», Papa Francesco, meno di un anno fa, con i rappresentanti politici e civili del Lussemburgo condivideva la tristezza per il fatto che oggi nei Paesi del Vecchio Continente «gli investimenti che danno più reddito sono quelli delle fabbriche delle armi. È molto triste».

E se la remuneratività degli investimenti suscita tristezza, provoca invece sdegno il fatto che a investire siano le stesse nazioni che si fanno promulgatrici di appelli di pace. «La grande ipocrisia», l’aveva definita Papa Francesco in uno dei discorsi forse più significativi sul tema, quello a Bari durante l’Incontro dei vescovi del Mediterraneo nel 2020. È un «grave peccato di ipocrisia», quando, sottolineava, «nei convegni internazionali, nelle riunioni, tanti Paesi parlano di pace e poi vendono le armi ai Paesi che sono in guerra».

In quella stessa occasione Francesco richiamava l’insegnamento di Giovanni XXIII, il Papa autore della Pacem in terris: «La guerra, che orienta le risorse all’acquisto di armi e allo sforzo militare, distogliendole dalle funzioni vitali di una società, quali il sostegno alle famiglie, alla sanità e all’istruzione, è contraria alla ragione. In altre parole, essa è una follia, perché è folle distruggere case, ponti, fabbriche, ospedali, uccidere persone e annientare risorse anziché costruire relazioni umane ed economiche. È una pazzia alla quale non ci possiamo rassegnare: mai la guerra potrà essere scambiata per normalità o accettata come via ineluttabile per regolare divergenze e interessi contrapposti. Mai».

Parole, queste, attuali allora, attuali oggi e attuali per tutti gli anni a venire.
(fonte: L'Osservatore Romano, articolo di Salvatore Cernuzio 06/03/2025)


giovedì 6 marzo 2025

Lettera di Quaresima 2025 di don Mimmo Battaglia: “IL MIO DIGIUNO, LA MIA ELEMOSINA, LA MIA PREGHIERA”

Lettera di Quaresima 2025 di don Mimmo Battaglia

“IL MIO DIGIUNO, LA MIA ELEMOSINA, LA MIA PREGHIERA”


“Stasera posso scrivervi una lettera che mi consola e mi accomoda: potrei scrivervi, sapendo di fare bene, per ricordarvi che l’inizio della Quaresima è impegno al digiuno, all’ elemosina, alla preghiera.
Forse anche voi ne sareste rassicurati e consolati: ci fa bene sapere di avere punti fermi nella esistenza che, come la terra sotto ai nostri piedi, ci fa vacillare.
Ed invece perdonatemi, sorelle e fratelli, ma stasera, pregando, sento forte il bisogno di scomodarmi, di non darmi alcuna consolazione, e vi chiedo perdono se questo vi scomoderà e non vi consolerà, ma sento che essere padre e pastore ora più che mai mi chiama a non restare fermo, ma a sentire il terremoto che tutti ci abita dentro.
A cosa serve, adesso, invitarci al digiuno, considerando che siamo tutti assai capaci di diete? Quel digiuno ci snellisce, eppure non concorre alla bellezza.
E a cosa serve ricordarvi dell’elemosina, se tanti di noi lo spiccioletto lo danno già al poveretto che incontrano per strada, così che quella moneta ci possa far sentire buoni?
E la preghiera? Dovrei dirvi di ripetere giaculatorie, di recitare formule e di metterci a posto con le buone pratiche come il virtuoso ma triste Giovane Ricco?

Io vorrei, stasera, condividere con voi il mio digiuno, la mia elemosina, la mia preghiera: voglio dirvi che sono fragile, che ho paura per il destino del mondo, e che fremo al pensiero di non riuscire a proteggervi, in molti modi, tutti. E che imparo, ancora giorno dopo giorno, che l’Amore è farsi pane, non farsi primo.
Mentre prego sento l’affanno di Papa Francesco: il suo respiro che fa fatica è icona potente della sua malattia-preghiera.
E no, non intendo che la malattia è preghiera per tirar su la vecchia consolazione che se soffriamo, espiamo le colpe e guadagniamo il Paradiso.
No. Intendo che la malattia è preghiera quando ci ricorda chi siamo. Ad-viene per dirci che siamo tutti fragili. E che questa fragilità è ciò che ci lega, che ci fa umani perché capaci di riconoscerci tutti figli, e dunque fratelli e sorelle.
Eppure, incredibilmente, proprio il terrore di questa fragilità ci separa: la paura di riconoscerla – in noi o in chi amiamo -, la paura di essere deboli e non potenti agli occhi degli altri, ci fa compiere azioni che vanno verso un totem, antico eppure ancora presente, l’idolatria più pervasiva: il nostro farci dio.

Ci facciamo dio tutte le volte che non sappiamo riconoscere di avere torto.
Ci facciamo dio tutte le volte che per sentirci forti, saliamo su un piedistallo fatto delle macerie degli altri.
Ci facciamo dio molte volte, ma non nel senso sacro di riconoscerci suoi figli, bensì nel senso di poter schiacciare qualcuno o qualcosa in nome di un potere che scambiamo per felicità, che scambiamo per bellezza.
Sorelle mie, fratelli miei, stasera questa lettera di Quaresima la scrivo a voi per pregare con voi: possano questi 40 giorni portarci nel deserto dove Lui parlerà al nostro cuore.

Che Lui ci mostri bellezza e felicità che resistano al dolore, ma non nel senso che lo cancellino come se gli chiedessimo una bacchetta magica: che resistano nel senso che Gesù ci ha insegnato, ovvero che lo trasfigurino, che ne facciano passaggio, Pasqua.
Dove sei, Signore, mentre ci ammaliamo, abbiamo paura, perdiamo?

Da sempre Lo cerchiamo nella forza, nella vittoria, nella magia di un desiderio – che chiamiamo preghiera – che sia esaudito. E Gesù invece è arrivato ed arriva come rivoluzionario, a scappottare la nostra immagine di un dio vincente.
È debole Nostro Signore: non vince. È fragile: piange, muore. È povero: viene tradito, insultato, calunniato, condannato senza giustizia. È, oggi come allora, scandaloso il Vangelo.
Scandaloso come un Papa ammalato, come noi quando ci scopriamo fragili e lontani dall’immagine perfetta che vorremmo e allora sentiamo lo scandalo di un dio che non è nostra immagine e somiglianza.
Che possiamo digiunare dalla presunzione di dire noi a Lui quello che deve fare.
Che possiamo vivere l’elemosina come ricerca del bene dell’altro come legata a doppio filo al bene nostro.
Che possiamo vivere la preghiera come soave silenzio che non giudica ma si fa abitare.

Dove sei, Signore, mentre ci ammaliamo, abbiamo paura, perdiamo?
In te che soffrendo non sei più cieco ma vedi, in tuo fratello e in tua sorella che si prendono cura di te ed anche in tuo fratello e tua sorella che di te non si cura: perché proprio il deserto è il luogo in cui impariamo che l’Amore non è presa ma resa.
E sarà Pasqua.
Resurrezione, già adesso.”

† don Mimmo
(fonte: Chiesa di Napoli 05/03/2025)


Mercoledì delle Ceneri - Papa Francesco: «Così si snoda il cammino della Quaresima verso la Pasqua, tra la memoria della nostra fragilità e la speranza che, alla fine della strada, ad attenderci ci sarà il Risorto.» Omelia 05/03/2025 (testo)

SANTA MESSA, BENEDIZIONE E IMPOSIZIONE DELLE CENERI

Basilica di Santa Sabina
Mercoledì, 5 marzo 2025

Alla Messa nella Basilica di Santa Sabina per l'avvio del cammino penitenziale, il cardinale penitenziere Angelo De Donatis ha letto l'omelia di Francesco: questo periodo che ci ridimensiona è un invito a ravvivare la speranza. La celebrazione è stata preceduta dalla processione penitenziale dalla chiesa di Sant’Anselmo all’Aventino


OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO
LETTA DAL CARDINALE ANGELO DE DONATIS

Le sacre ceneri, questa sera, verranno sparse sul nostro capo. Esse ravvivano in noi la memoria di ciò che siamo, ma anche la speranza di ciò che saremo. Ci ricordano che siamo polvere, ma ci incamminano verso la speranza a cui siamo chiamati, perché Gesù è disceso nella polvere della terra e, con la sua Risurrezione, ci trascina con sé nel cuore del Padre.

Così si snoda il cammino della Quaresima verso la Pasqua, tra la memoria della nostra fragilità e la speranza che, alla fine della strada, ad attenderci ci sarà il Risorto.

Anzitutto, facciamo memoria. Riceviamo le ceneri chinando il capo verso il basso, come per guardare a noi stessi, per guardarci dentro. Le ceneri, infatti, ci aiutano a fare memoria della fragilità e della pochezza della nostra vita: siamo polvere, dalla polvere siamo stati creati e in polvere ritorneremo. E sono tanti i momenti in cui, guardando la nostra vita personale o la realtà che ci circonda, ci accorgiamo che «è solo un soffio ogni uomo che vive […] come un soffio si affanna, accumula e non sa chi raccolga» (Sal 39,7).

Ce lo insegna soprattutto l’esperienza della fragilità, che sperimentiamo nelle nostre stanchezze, nelle debolezze con cui dobbiamo fare i conti, nelle paure che ci abitano, nei fallimenti che ci bruciano dentro, nella caducità dei nostri sogni, nel constatare come siano effimere le cose che possediamo. Fatti di cenere e di terra, tocchiamo con mano la fragilità nell’esperienza della malattia, nella povertà, nella sofferenza che a volte piomba improvvisa su di noi e sulle nostre famiglie. E, ancora, ci accorgiamo di essere fragili quando ci scopriamo esposti, nella vita sociale e politica del nostro tempo, alle “polveri sottili” che inquinano il mondo: la contrapposizione ideologica, la logica della prevaricazione, il ritorno di vecchie ideologie identitarie che teorizzano l’esclusione degli altri, lo sfruttamento delle risorse della terra, la violenza in tutte le sue forme e la guerra tra i popoli. Sono tutte “polveri tossiche” che offuscano l’aria del nostro pianeta, impediscono la convivenza pacifica, mentre ogni giorno crescono dentro di noi l’incertezza e la paura del futuro.

Da ultimo, questa condizione di fragilità ci richiama il dramma della morte, che nelle nostre società dell’apparenza proviamo a esorcizzare in molti modi e a emarginare perfino dai nostri linguaggi, ma che si impone come una realtà con la quale dobbiamo fare i conti, segno della precarietà e fugacità della nostra vita.

Così, nonostante le maschere che indossiamo e gli artifizi spesso creati ad arte per distrarci, le ceneri ci ricordano chi siamo. Questo ci fa bene. Ci ridimensiona, spunta le asprezze dei nostri narcisismi, ci riporta alla realtà, ci rende più umili e disponibili gli uni verso gli altri: nessuno di noi è Dio, siamo tutti in cammino.

La Quaresima, però, è anche un invito a ravvivare in noi la speranza. Se riceviamo le ceneri col capo chino per ritornare alla memoria di ciò che siamo, il tempo quaresimale non vuole lasciarci a testa bassa ma, anzi, ci esorta a sollevare il capo verso Colui che dagli abissi della morte risorge, trascinando anche noi dalla cenere del peccato e della morte alla gloria della vita eterna.

Le ceneri ci ricordano allora la speranza a cui siamo chiamati perché Gesù, il Figlio di Dio, si è impastato con la polvere della terra, sollevandola fino al cielo. E negli abissi della polvere Egli è disceso, morendo per noi e riconciliandoci al Padre, così come abbiamo ascoltato dall’Apostolo Paolo: «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore» (2Cor 5,21).

Questa, fratelli e sorelle, è la speranza che ravviva la cenere che siamo. Senza questa speranza siamo destinati a subire passivamente la fragilità della nostra condizione umana e, specialmente dinanzi all’esperienza della morte, sprofondiamo nella tristezza e nella desolazione, finendo per ragionare come gli stolti: «La nostra vita è breve e triste; non c'è rimedio quando l'uomo muore […] il corpo diventerà cenere e lo spirito svanirà come aria sottile» (Sap 2,1-3). La speranza della Pasqua verso cui ci incamminiamo, invece, ci sostiene nelle fragilità, ci rassicura del perdono di Dio e, anche mentre siamo avvolti dalla cenere del peccato, ci apre alla gioiosa confessione della vita: «Io so che il mio redentore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere!» (Gb 19,25). Ricordiamoci questo: «l’uomo è polvere e in polvere ritornerà, ma è polvere preziosa agli occhi di Dio, perché Dio ha creato l’uomo destinandolo all’immortalità» (Benedetto XVI, Udienza Generale, 17 febbraio 2010).

Fratelli e sorelle, con la cenere sul capo camminiamo verso la speranza della Pasqua. Convertiamoci a Dio, ritorniamo a Lui con tutto il cuore (cfr. Gl 2,12), rimettiamo Lui al centro della nostra vita, perché la memoria di ciò che siamo – fragili e mortali come cenere sparsa nel vento – sia finalmente illuminata dalla speranza del Risorto. E orientiamo verso di Lui la nostra vita, diventando segno di speranza per il mondo: impariamo dall’elemosina a uscire da noi stessi per condividere i bisogni gli uni degli altri e nutrire la speranza di un mondo più giusto; impariamo dalla preghiera a scoprirci bisognosi di Dio o, come diceva Jacques Maritain “mendicanti del cielo”, per nutrire la speranza che dentro le nostre fragilità e alla fine del nostro pellegrinaggio terreno ci aspetta un Padre con le braccia aperte; impariamo dal digiuno che non viviamo soltanto per soddisfare i nostri bisogni, ma che abbiamo fame di amore e di verità, e solo l’amore di Dio e tra di noi riesce davvero a saziarci e a farci sperare in un futuro migliore.

Ci accompagni sempre la certezza che da quando il Signore è venuto nella cenere del mondo, «la storia della terra è storia del cielo. Dio e l’uomo sono legati ad unico destino» (C. Carretto, Il deserto nella città, Roma 1986, 55), e Lui spazzerà via per sempre la cenere della morte per farci risplendere di vita nuova.

Con questa speranza nel cuore, mettiamoci in cammino. E lasciamoci riconciliare con Dio.



mercoledì 5 marzo 2025

Papa Francesco «Cari fratelli e sorelle, come Maria e Giuseppe, pieni di speranza, mettiamoci anche noi sulle tracce del Signore, che si lascia trovare nella risposta d’amore che è la vita filiale.» Catechesi 05/03/2025 (testo)

PAPA FRANCESCO

CATECHESI DEL SANTO PADRE
PREPARATA PER L'UDIENZA GENERALE DEL 5 MARZO 2025

Mercoledì, 5 marzo 2025


È stata pubblicata dalla Sala Stampa della Santa Sede la catechesi di Papa Francesco preparata per l'udienza generale che si sarebbe dovuta svolgere oggi, 5 marzo, e che è stata annullata a causa della permanenza del Pontefice al Policlinico Gemelli. Di seguito il testo che, pensato nell'ambito del ciclo giubilare di catechesi su "Gesù Cristo nostra speranza. L'infanzia di Gesù", propone una riflessione sul ritrovamento di Gesù al Tempio (Lc 2,49).


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Ciclo di Catechesi – Giubileo 2025. Gesù Cristo nostra speranza. I. L’infanzia di Gesù. 8. «Figlio, perché ci hai fatto questo?» (Lc 2,49). Il ritrovamento di Gesù nel Tempio

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

In quest’ultima catechesi dedicata all’infanzia di Gesù, prendiamo spunto dall’episodio in cui, a dodici anni, Egli rimase nel Tempio senza dirlo ai genitori, i quali lo cercarono ansiosamente e lo ritrovarono dopo tre giorni. Questo racconto ci presenta un dialogo molto interessante tra Maria e Gesù, che ci aiuta a riflettere sul cammino della madre di Gesù, un cammino non certo facile. Infatti Maria ha compiuto un itinerario spirituale lungo il quale è avanzata nella comprensione del mistero del suo Figlio.

Ripensiamo alle varie tappe di questo percorso. All’inizio della sua gravidanza, Maria fa visita a Elisabetta e si ferma da lei per tre mesi, fino alla nascita del piccolo Giovanni. Poi, quando è ormai al nono mese, a causa del censimento, con Giuseppe va a Betlemme, dove dà alla luce Gesù. Dopo quaranta giorni si recano a Gerusalemme per la presentazione del bambino; e quindi ogni anno ritornano in pellegrinaggio al Tempio. Ma con Gesù ancora piccolo si erano rifugiati a lungo in Egitto per proteggerlo da Erode, e solo dopo la morte del re si erano stabiliti di nuovo a Nazaret. Quando Gesù, divenuto adulto, inizia il suo ministero, Maria è presente e protagonista alle nozze di Cana; poi lo segue “a distanza”, fino all’ultimo viaggio a Gerusalemme, fino alla passione e alla morte. Dopo la Risurrezione, Maria resta a Gerusalemme, come Madre dei discepoli, sostenendo la loro fede in attesa dell’effusione dello Spirito Santo.

In tutto questo cammino, la Vergine è pellegrina di speranza, nel senso forte che diventa la “figlia del suo Figlio”, la prima sua discepola. Maria ha portato al mondo Gesù, Speranza dell’umanità: lo ha nutrito, lo ha fatto crescere, lo ha seguito lasciandosi plasmare per prima dalla Parola di Dio. In essa – come ha detto Benedetto XVI – Maria «è veramente a casa sua, ne esce e vi rientra con naturalezza. Ella parla e pensa con la Parola di Dio […]. Così si rivela, inoltre, che i suoi pensieri sono in sintonia con i pensieri di Dio, che il suo volere è un volere insieme con Dio. Essendo intimamente penetrata dalla Parola di Dio, ella può diventare madre della Parola incarnata» (Enc. Deus caritas est, 41). Questa singolare comunione con la Parola di Dio non le risparmia però la fatica di un impegnativo “apprendistato”.

L’esperienza dello smarrimento di Gesù dodicenne, durante il pellegrinaggio annuale a Gerusalemme, spaventa Maria al punto che si fa portavoce anche di Giuseppe nel riprendere il figlio: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo» (Lc 2,48). Maria e Giuseppe hanno provato il dolore dei genitori che smarriscono un figlio: credevano entrambi che Gesù fosse nella carovana dei parenti, ma non avendolo visto per un’intera giornata, incominciano la ricerca che li porterà a fare il viaggio a ritroso. Tornati al Tempio, scoprono che Colui che ai loro occhi, fino a poco prima, era un bambino da proteggere, è come cresciuto di colpo, capace ormai di coinvolgersi in discussioni sulle Scritture, reggendo il confronto con i maestri della Legge.

Di fronte al rimprovero della madre, Gesù risponde con disamante semplicità: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» (Lc 2,49). Maria e Giuseppe non comprendono: il mistero del Dio fatto bambino supera la loro intelligenza. I genitori vogliono proteggere quel figlio preziosissimo sotto le ali del loro amore; Gesù invece vuole vivere la sua vocazione di Figlio del Padre che sta al suo servizio e vive immerso nella sua Parola.

I Racconti dell’Infanzia di Luca si chiudono, così, con le ultime parole di Maria, che ricordano la paternità di Giuseppe nei confronti di Gesù, e con le prime parole di Gesù, che riconoscono come questa paternità tragga origine da quella del Padre suo celeste, del quale riconosce il primato indiscusso.

Cari fratelli e sorelle, come Maria e Giuseppe, pieni di speranza, mettiamoci anche noi sulle tracce del Signore, che non si lascia contenere dai nostri schemi e si lascia trovare non tanto in un luogo, ma nella risposta d’amore alla tenera paternità divina, risposta d’amore che è la vita filiale.


Intenzione di preghiera per il mese di Marzo 2025: Preghiamo per le per le famiglie in crisi. (commento, testo, video)

Intenzione di preghiera per il mese di Marzo 2025 
Preghiamo per le famiglie in crisi.

Preghiamo perché le famiglie divise 
possano trovare nel perdono la guarigione delle loro ferite, 
riscoprendo anche nelle loro differenze la ricchezza reciproca.

Nella sua intenzione di preghiera per il mese di marzo, Papa Francesco ci invita a pregare per le famiglie in crisi e a riflettere sull'importanza del perdono: “Perdonare significa dare un’altra possibilità. Dio lo fa con noi continuamente”. 
In questo video, prodotto dalla sua Rete Mondiale di Preghiera, il Papa ci dice che in famiglia “ogni persona è unica, ma le differenze possono anche provocare conflitti”. Aggiunge che il perdono è la chiave per guarire le ferite, “anche quando non è possibile il ‘lieto fine’ che vorremmo”. Attraverso questa intenzione, preghiamo insieme perché le famiglie divise trovino nel perdono la guarigione delle loro ferite, riscoprendo anche nelle loro differenze la ricchezza reciproca.

Guarda il video

Il testo in italiano del videomessaggio del Papa

“Tutti sogniamo una famiglia bella, perfetta. 
Ma le famiglie perfette non esistono. 
Ogni famiglia ha i suoi problemi, e anche le sue grandi gioie. 
In una famiglia, ogni persona ha valore perché è diversa dalle altre, 
ogni persona è unica. 
Ma le differenze possono anche provocare conflitti e ferite dolorose. 
E la migliore medicina per curare il dolore di una famiglia ferita è il perdono. 

Perdonare significa dare un’altra possibilità. 
Dio lo fa con noi continuamente. 
La pazienza di Dio è infinita: 
ci perdona, ci rialza, ci permette di ricominciare. 
Il perdono rinnova sempre la famiglia, 
permette di guardare avanti con speranza. 

Anche quando non è possibile il “lieto fine” che vorremmo, 
la grazia di Dio ci dà la forza di perdonare e porta pace, 
perché libera dalla tristezza e, soprattutto, dal rancore. 

Preghiamo perché le famiglie divise 
possano trovare nel perdono la guarigione delle loro ferite, 
riscoprendo anche nelle loro differenze la ricchezza reciproca.”


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Francesco: il perdono, la migliore medicina
per curare le famiglie in crisi

Nel messaggio con le intenzioni di preghiera per il mese di marzo, registrato prima del ricovero al Gemelli, il Papa ricorda che "il perdono rinnova sempre la famiglia, permette di guardare avanti con speranza". Anche quando non è possibile il “lieto fine” che vorremmo, sottolinea il Pontefice, la grazia di Dio pacifica il cuore e libera da tristezza e rancore




"Le famiglie perfette non esistono". È il presupposto da cui muove il Papa per il suo messaggio - registrato prima del suo ricovero ospedaliero - con le intenzioni di preghiera per il mese di marzo. In ogni famiglia ci sono problemi e gioie, evidenzia il Pontefice, ma le ferite possono essere curate. La via è il perdono.

Nel perdono trovare la guarigione dalle ferite

Nel video diffuso come di consueto dalla Rete Mondiale di Preghiera del Papa, compaiono immagini con famiglie da tutto il mondo nei loro luoghi di vita o in udienza dal Pontefice. Abbracci e porte chiuse, silenzi e ritrovamenti. Il Papa invita a pregare "perché le famiglie divise possano trovare nel perdono la guarigione delle loro ferite, riscoprendo anche nelle loro differenze la ricchezza reciproca".

In una famiglia, ogni persona ha valore perché è diversa dalle altre, ogni persona è unica. Ma le differenze possono anche provocare conflitti e ferite dolorose. E la migliore medicina per curare il dolore di una famiglia ferita è il perdono.

Il perdono libera da tristezza e rancore

"Perdonare - spiega il Papa - significa dare un’altra possibilità". Il Pontefice ricorda che Dio lo fa con noi continuamente.

La pazienza di Dio è infinita: ci perdona, ci rialza, ci permette di ricominciare. Il perdono rinnova sempre la famiglia, permette di guardare avanti con speranza. Anche quando non è possibile il “lieto fine” che vorremmo, la grazia di Dio ci dà la forza di perdonare e porta pace, perché libera dalla tristezza e, soprattutto, dal rancore.

Fones: aprirsi all'accompagnamento

Il gesuita Cristóbal Fones, direttore internazionale della Rete Mondiale di Preghiera del Papa che cura i videomessaggi del Pontefice con le intenzioni tematiche mensili, commenta le parole di Francesco insistendo proprio sulla necessità che le famiglie accettino le differenze dentro il nucleo, le valorizzino, si aprano al perdono reciproco e all'accompagnamento nel caso di crisi. Viene inoltre ricordata l'Esortazione Apostolica Amoris Laetitia, in cui si sottolinea che le crisi matrimoniali si superano "in maniera soddisfacente" sapendo ricorrere alla grazia della riconciliazione: "Saper perdonare e sentirsi perdonati è un’esperienza fondamentale nella vita familiare”. Superando una crisi si impara “ad essere felici in modo nuovo, a partire dalle possibilità aperte da una nuova tappa”.
(fonte: Vatican News, articolo di Antonella Palermo 04/03/2025)

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Anche nel mese di Marzo l'intenzione di preghiera del Papa è stata divulgata con un tweet