martedì 10 settembre 2024

Cristianesimo e migranti

Cristianesimo e migranti

Nella Bibbia è talmente evidente il riconoscimento da parte di Dio del povero e degli stranieri che ci si chiede come possa ancora destare stupore un Papa che collega peccato e non accoglienza dei migranti


In una recente udienza generale, Papa Francesco ha detto una cosa scontata, persino banale nella sua semplicità: mare e deserto si sono trasformati in cimiteri per coloro che fuggono da povertà, guerra e disperazione. In particolare, il Mediterraneo – il Mare Nostrum, un tempo crocevia di civiltà – oggi è solo una distesa d’acqua che inghiotte sogni e vite: non solo per le difficoltà oggettive di questi viaggi della speranza spesso condotti su mezzi di fortuna, ma anche per la negligenza di una politica che ha scelto di chiudere gli occhi e avallare politiche di respingimento. Ecco, quando tutto questo male è fatto con consapevolezza e responsabilità, allora siamo di fronte a un peccato grave.

Se non si è credenti, si può tranquillamente essere indifferenti a queste (e altre) parole del Papa. Il guaio è quando a fare i conti con queste parole devono essere i nuovi rappresentanti della cristianità politica, stabilmente situati nell’area politica del centrodestra, con la Lega in prima fila ed il cui segretario, Matteo Salvini non ha mancato occasione, tra rosari e invocazione di santi e madonne, per accreditarsi come difensore dei valori cristiani, cavalcando un’ondata di tradizionalismo nostalgico che vede nella religione l’ultimo baluardo di un’identità culturale in via di estinzione ).

Non che Salvini abbia inventato qualcosa: il suo atteggiamento sembra ancora fare l’occhiolino alla stagione dei valori non negoziabili dell’epoca Ruini e quindi, sotto sotto, rimesta nel torbido di gruppi tradizionalisti che vedono nella religione un possibile collante culturale per resistere alle trasformazioni sociali, culturali ed economiche del nostro tempo. Come sottolinea Habermas nel suo “Discorso filosofico della modernità” era una strategia utilizzata anche dalla cosiddetta destra hegeliana. Un discorso che, per altre vie, aveva già affrontato Lowith in “Da Hegel a Nietzsche: la frattura rivoluzionaria nel pensiero del XIX sec”. Se infatti nella cosiddetta sinistra hegeliana autori come Marx, Feuerbach, D. F. Strauss e B. Bauer avevano condotto una critica serrata alla religione per criticare poi le strutture dello stato borghese di cui la religione era ideologia, gli autori della destra hegeliana, pur riconoscendo l’assoluta sterilità del discorso religioso sul piano esistenziale e veritativo, avevano portato avanti una difesa della religione proprio perché reputata un collante ancora in grado di tenere in piedi gli elementi dello stato borghese e liberale di fronte alla contestazioni civili e alle rivoluzioni politiche e sociali dell’epoca..

Forse Salvini non ha letto Habermas, ma si inserisce comunque, quasi per inerzia, in questa tradizione. Nel frattempo, leggendo le dichiarazioni dei leghisti e dei loro giornali – quelli che un tempo si definivano di centrodestra e che ora sono semplicemente destra-destra – mi chiedevo: ma perché si stupiscono? Che cosa avrebbe dovuto dire Papa Francesco? E allora mi è tornata in mente quella famosa lettera di Don Milani a tal Pipetta, segretario locale del partito comunista che, ogni volta che lo incontrava, lo elogiava dicendogli: “Se tutti i preti fossero come te…” E Don Milani rispondeva che questo suo presunto elogio era in realtà sale su una ferita. Don Milani sapeva bene, infatti, che Pipetta lo elogiava perché gli dava ragione su questioni politiche legate a povertà e giustizia sociale. Ma sapeva anche quale fosse il compito elevato cui era destinato: annunciare il Vangelo. “Solo questo il mio Signore mi aveva detto di dirti”, ma non si può annunciare il Vangelo se non si è solidali con i poveri e non si denunciano le ingiustizie; se non si è radicalmente poveri e non si sta dalla parte degli sconfitti della storia. E proprio per questo, quando Pipetta avrebbe vinto, quando non avrebbe avuto più fame né sete, proprio allora Don Lorenzo non solo non avrebbe festeggiato, ma lo avrebbe tradito: “Quel giorno io non resterò là con te. Io tornerò nella tua casuccia piovosa e puzzolente a pregare per te davanti al mio Signore crocifisso. Quando tu non avrai più fame né sete, ricordatene Pipetta, quel giorno io ti tradirò. Quel giorno finalmente potrò cantare l’unico grido di vittoria degno d’un sacerdote di Cristo: ‘Beati i… fame e sete’.”

Allo stesso modo, papa Francesco non ha inventato nulla. Ed è davvero sorprendente che ci si sorprenda. Evidentemente, chi lo fa non ha mai letto la Bibbia. O, se l’ha letta, ne ha capito ben poco, come quell’eunuco, funzionario della regina d’Etiopia, di cui si parla in Atti 8, 26-40, che stava leggendo il rotolo del libro di Isaia e, quando il diacono Filippo gli chiese: ‘Ma capisci quello che stai leggendo?’, quello aveva risposto onestamente: ‘Come potrei se non c’è nessuno che mi istruisce?’

In effetti, la Bibbia è un libro strano e complesso, frutto dell’incontro di numerose storie, teologie ed esperienze, ma una cosa è certa: è un libro schierato dalla parte dei poveri. Prendiamo il Decalogo, il più famoso dei codici legislativi dell’AT (anche se non è esclusivo dell’AT e, a ben vedere, non è neanche un codice legislativo), in cui Israele è chiamato a ridefinirsi intorno a due prospettive: in positivo, celebrando la gratuità che riconosce tutto come dono di Dio e non come qualcosa di derivante dal diritto naturale; in negativo, sanzionando tutti quegli atti che esprimono egoismo e usurpazione.

Il Decalogo è anche la più compiuta e famosa espressione dell’alleanza: radicata nell’esperienza dell’Esodo, diventa per Israele la condizione per costruire una comunità che sappia prendersi cura degli altri, in particolare dei poveri. Questa cura del debole quindi non è comunismo ante litteram o “una sponda alle politiche del PD”, ma è la risposta responsabile e adeguata all’iniziativa di liberazione di YHWH. Israele si prende cura del povero perché è stato povero e sarebbe rimasto povero e sofferente se Dio non l’avesse salvato (Es 3, 7-8). Il Decalogo è la memoria di questo evento e, allo stesso tempo, l’impegno a far irrompere nella quotidianità quell’esperienza di salvezza e di sollecitudine verso chi è debole: “Non maltratterai la vedova e l’orfano. Se tu lo maltratti, quando invocherà da me l’aiuto, io ascolterò il suo grido. Io ascolterò il loro grido perché io sono un Dio pietoso” (Es 22, 22-23).

Questo legame tra l’agire di Dio – la tutela del povero – e l’agire di Israele si fa ancora più evidente nella predicazione dei profeti, come Amos. Amos si scaglia contro la piaga del latifondismo che crea disuguaglianze e ulteriore povertà per chi è già povero: “Per tre misfatti d’Israele e per quattro non revocherò il mio decreto, perché hanno venduto il giusto per denaro e il povero per un paio di sandali; essi calpestano come la polvere della terra la testa dei poveri; fanno deviare il cammino dei miseri” (Am 2, 6-7). L’ingiustizia sociale è interpretata come infedeltà a Dio, generata dal flirt con gli idoli stranieri e i valori politici, economici e sociali che questi rappresentano, in contraddizione con la libertà e la fede nell’unico Dio, garante della vita dei poveri: “Io vi ho fatto uscire dal paese d’Egitto, vi ho condotto per quarant’anni per darvi in possesso il paese…” (Am 2, 10).

Lo straniero, poi, rappresenta una delle categorie a cui Israele è chiamato a offrire prossimità e accoglienza. Senza entrare troppo nei dettagli, sappiamo che il concetto di straniero era tutt’altro che univoco. Tuttavia, nelle legislazioni del Vicino Oriente Antico, gli stranieri erano considerati privi di dignità giuridica, al pari degli schiavi. Dio chiede al suo popolo non solo di accogliere lo straniero, ma di rispettarlo nella sua dignità umana: “Tu non sfrutterai e non opprimerai lo straniero […] Se tu lo maltratti, egli griderà a me e io ascolterò il suo grido […] perché sono compassionevole” (Es 22, 20.22.26); “Non opprimerai lo straniero: voi infatti conoscete il respiro dello straniero, perché siete stati stranieri in terra d’Egitto” (Es 23, 9). D’altra parte, secondo Dt 10,18 “Dio ama lo straniero”. Dio, in tutto l’Antico Testamento, è soggetto del verbo “amare” solo quattro volte. È significativo che una di queste si riferisca proprio allo straniero. Conseguentemente, chi offende, opprime o non rispetta lo straniero si pone al di fuori dell’alleanza. Questo perché Israele è strutturalmente straniero. Lo si confessa apertamente in quello che Von Rad chiamerà “piccolo credo storico”: “Mio padre era un arameo errante” (Dt 26, 5). Abramo, il grande patriarca, era “straniero e di passaggio” (Gen 23, 4). Ma l’esperienza più amara Israele l’ha vissuta come schiavo in Egitto: proprio in quella condizione di sofferenza, è stato liberato da YHWH, un Dio sfuggente, futuro, irrimediabilmente compromesso con l’uomo, che fa giustizia all’orfano e alla vedova, che ama lo straniero, al quale provvede pane e vestiti (cf Dt 10, 17-18; Sal 146, 9). Israele sa di essere stato salvato dalla propria condizione di oppressione perché Dio ama gli oppressi.

Come se non bastasse, quell’ebreo marginale che visse all’inizio del I secolo d.C., di nome Gesù di Nazareth, mostrò il volto di un Dio accogliente, schierato con gli ultimi e gli emarginati, non solo a parole (“Ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi” Mt 25, 35), ma anche nei fatti, con la scandalosa amicizia con pubblicani e prostitute e il dono totale di sé: “non considerò un tesoro prezioso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso assumendo la condizione di servo” (Fil 2,6-11).

Giusto per ricordare che un cristiano non è tale perché ripete incessantemente “Signore, Signore”, ma per l’amore che ha saputo dare, soprattutto a chi era più povero o in difficoltà. Il deserto, il Mar Mediterraneo, Gaza, l’Ucraina sono i nuovi Golgota su cui, ogni volta che un uomo muore, muore un pezzo della nostra umanità. E muore anche Dio.
(fonte: Vino Nuovo, articolo di Gian Paolo Bortone 06/09/2024)