mercoledì 17 aprile 2024

Giancarla Codrignani ELEZIONI EUROPEE: SOLO UN DOVERE O UN INTERESSE?

Giancarla Codrignani

ELEZIONI EUROPEE:
SOLO UN DOVERE O UN INTERESSE?


Agosto 1941: faceva caldo, c’era la guerra ma nessuno pensava ai bombardamenti e la gente era andata in villeggiatura.

A Ventotene, dove il regime chiamava “villeggiatura” il confino, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni pubblicavano (nel senso che le mogli in visita ai reclusi l’avrebbero portato fuori per la diffusione clandestina) un loro Manifesto per un’Europa libera e unita.

Lo spirito di Ventotene si è indebolito

Ottantatré anni dopo, nel 2024 fa già caldo, è tornata la guerra, le destre trovano larghi consensi in elettorati che vanno sempre meno a votare e in Italia sono al governo gli eredi del regime che mandò a Ventotene i patrioti antifascisti. Purtroppo sembra che i più giovani non abbiano la minima idea della vitalità morale e politica di patrioti come Altiero Spinelli che, scampato al fascismo e alla seconda guerra mondiale, pazientemente attese la realizzazione – nel 1979 – del primo Parlamento europeo.

C’era ancora la CEE, Comunità Economica Europea, non c’era la moneta unica, ma le idee di Spinelli circolavano, la gente votava e – a tappe contrastate, ma effettive – l’Europa riuscì a diventare l’Unione Europea che oggi, nel 2024, stava arrivando a celebrare ottant’anni di pace. Non era mai successo.

Il contesto geopolitico

Invece, non solo la spinta propulsiva della democrazia si è affievolita, ma siamo ripiombati in guerre che non restano lontane e indifferenti, ma ci riguardano da vicino e danno un brivido di angoscia quando ci si rende conto che da anni papa Francesco avverte che stiamo già dentro la terza guerra mondiale. Abbiamo celebrato la terza Pasqua di guerra russo-ucraina: a prescindere dal diritto dell’Ucraina a sentirsi europea e occidentale mentre lo zar dell’Oriente Putin lo giudica impossibile perché la “Santa Russia” nel 988 nacque a Kiev, non solo è una guerra derivata dal conflitto Est/Ovest di una volta, ma nei metodi è tornata alla prima guerra mondiale con i missili al posto dei cannoni e aspetta Caporetto.

Altra la guerra – uscita dall’incubazione della risoluzione Onu del 1947 che divideva la Palestina in due parti, una per gli arabi e una per gli ebrei – che perpetua lo scontro “inopinatamente” voluto dall’impossibile accordo a carico di chi riceveva il diritto a occupare un territorio e chi ne era il titolare perché ci era nato. Fin dall’origine – per giunta nell’impossibilità delle Nazioni Unite sia di rendere esecutive le risoluzioni di condanna degli abusi, sia di superare i veti americani nel Consiglio di Sicurezza – era necessario un mediatore terzo per negoziare passo dopo passo la difficile convivenza: toccava all’Europa, che nel suo desolante ritardo non ha ancora l’unità politica che le consenta di intervenire. D’altra parte dei paesi membri dell’Ue nessuno ha mai preso l’iniziativa sapendola arbitraria. Ormai non si piange sul latte versato: ci si tiene la responsabilità di dover provvedere nella situazione estrema. Gli arabi sembrano cauti nel prender posizione dopo aver visto abortire gli accordi di Abramo che sembravano chiudere una situazione insostenibile.

La Cina è altrettanto prudente in una situazione che può allargarsi “a piacere” e degenerare. Gli huthi hanno preso posizione a sostegno di Hamas bloccando il mar Rosso, ma il Medioriente intero, Libano e Siria compresi è nevrotizzato. Gli Usa per la prima volta non sono ricorsi al veto a favore di Israele, sia perché negli Usa la lobby araba non è meno potente della lobby ebraica, sia perché il sostegno a Israele è inaccettabile.

Infatti il pogrom compiuto da un’Hamas carico di odio e ferocia il 7 febbraio ha riportato gli israeliani anche ostili al governo attuale alla loro coscienza profonda di ebrei e al rimosso delle persecuzioni. Dio – l’interrogativo tragico “dov’era ad Aushwitz?” – non c’entra più, se non nelle dichiarazioni dei leader: sia Netaniahu (la Bibbia dice “c’è un tempo per la pace e un tempo per la guerra”; io dico che questo è il tempo della guerra) che Sinwar (dallo statuto di Hamas: “Dio è la nostra guida, Muhammad il nostro leader, il jihad il nostro metodo”) nominano invano lo stesso Dio, come se fossimo ancora uomini delle crociate, quando agivamo a parti rovesciate. E Macron fa capire a Putin che l’Europa può mobilitare le sue truppe sul fronte ucraino e, se lui minaccia il nucleare, la Francia è pronta.

L’incerto contesto interno

In un contesto così andiamo a votare un nuovo Parlamento europeo. La depressione fa il suo effetto e per ora la sinistra – per chiarire: tutti quelli che non sono di destra, ma ci tengono a dichiararsi antifascisti – non alza la voce a sostenere i propri pericolanti diritti, distratta dai propri leader, tutti alle prese con le liste dei candidati. Il cittadino deve tuttavia capire che, se in una congiuntura economico-finanziaria ancora positiva, l’Italia vede crescere le disuguaglianze, subisce tagli micidiali alla sanità ormai privatizzata, assiste a misure di riarmo impensabili solo due anni fa all’uscita dalla pandemia, significa che la guerra sta già presentando il conto e non bisogna più farsene solo una ragione.

Non si fa la resistenza quando si arriva a Ventotene, ma quando c’è tempo per non andare in rovina. Opportuna una lettura del Manifesto di Altiero Spinelli, che, da parlamentare europeo, continuò fino alla morte a battersi nel lento evolversi dell’Unione, sconfitta dietro sconfitta, delusione dopo delusione. Serve per rinfrescare le idee sui principi, i diritti e i doveri, ma anche per imparare a “fare politica” da un punto di vista comunitario e riconoscersi, davvero, cittadini non solo italiani, ma anche europei in attesa di diventare – se prevarrà la pace – cittadini del mondo.

Infatti perfino i migliori, gli inattaccabili dal consumismo, gli antifascisti diffidano di un’altra istituzione che non conta nulla, nella quale il singolo elettore conta ancor meno.

Invece sono proprio gli interessi, quelli materiali che toccano la vita quotidiana, a sollecitare il voto europeo. L’Europa, almeno per l’agroalimentare, è il mercato più grande del mondo, superiore agli Usa; ma se gli emiliani dovessero produrre il parmigiano per grattugiarlo sulle lasagne, finirebbero per non potersi più permettere neppure le lasagne.

C’è bisogno, però, di mantenere il massimo di unità: se a giugno in Francia vincesse Le Pen e in Italia Meloni, il nuovo Parlamento avrebbe grosse difficoltà ad arginare il Consiglio (dei Capi di Stato e di governo) con una maggioranza reazionaria. Eppure le destre trovano larghi consensi, la gente non sa se andrà a votare; senza un pensiero al fatto che in Italia il governo in carica, eletto da due terzi dell’elettorato, lascia non rappresentato un terzo del paese.

Le questioni che ci attendono

Perdere la speranza non giova: basta chiederlo agli inglesi che, scontenti dell’UE, vorrebbero tornarci dentro di corsa.

Se al tempo del covid l’Europa non avesse distribuito i vaccini gratis, le bare si sarebbero moltiplicate. Abbiamo la moneta unica in 20 Stati membri: manca una legislazione fiscale comune che, in qualche modo già elaborata da Draghi, dovrà essere uno dei compiti del prossimo Parlamento. Che sono tanti.

Se l’Onu ha la palla al piede del veto al Consiglio di Sicurezza, l’UE è intrigata dal principio dell’unanimità: entrambe dovrebbero tentare una politica internazionale dei diritti umani, anche nei confronti della Nato. Anche l’Europa aspetta le elezioni americane; ma sa che, chiunque vinca, a giugno deve rafforzare le proprie istituzioni.

La complessità delle innovazioni tecnologiche chiede regole condivise per evitare arbitri di poteri ancora incontrollabili: a Bologna, centro europeo per la meteorologia, Leonardo è uno dei quattro massimi elaboratori mondiali in grado di svolgere 250mila mld. di operazioni in un minuto. Potrà servire alla sanità se l’assistenza sanitaria personalizzerà ognuno dei nostri 60 milioni di individui, ma intanto gli italiani stanno perdendo il diritto a restare in salute e ad essere curati se malati.

Il futuro sarà pure inedito, ma incoraggia a pensare il meglio se lo si vuole vedere possibile. La questione climatica impone sia la progettazione sia la condivisione delle politiche: nemmeno i nazionalisti possono più praticare l’autarchia.

Ma anche in Europa c’è bisogno di miglior giustizia: la produzione e il lavoro lo esigono, ma anche i diritti umani, la nonviolenza educativa, la lotta alla violenza di genere, le questioni debitorie, le politiche migratorie, tutte politiche all’ordine del giorno nei singoli paesi che chiedono una condivisione dentro la volontà comune dell’intero continente. Dove corre pericolo la democrazia, che in queste elezioni è tutt’uno con l’Europa.
[L’immagine che correda l’articolo è ripresa dal sito: https://www.perlapace.it/]
(fonte: Viandanti 06/04/2024)