Alessandro D'Avenia
L’intelligenza del bosco
Milano – Piazza Tommaseo
Corriere della Sera, 11 marzo 2023
Il fine della vita non è la sopravvivenza ma la bellezza. Che le cose lottino per sopravvivere è evidente, ciò che sorprende è che la lotta miri alla bellezza. Qualche giorno fa mi si è reso ancora una volta chiaro in una piccola piazza di Milano: sui rami di alcune magnolie brillavano già, in una luce ancora invernale, le prime fioriture. Non era un’anomalia. Molti si fermavano ad ammirare, colti da quel desiderio che la bellezza risveglia perché, essendo la bellezza vita compiuta, ci ricorda che siamo fatti per questo: compierci nel tempo e nel mondo che ci sono dati. La bellezza chiede: a che punto sei con i doni della vita? E se la bellezza è il fine della vita, dovrebbe esserlo anche dell’educazione che è aiutare la vita a crescere. Avviene nel luogo deputato, dopo la famiglia, a questo: la scuola? Vi si dovrebbe scoprire la propria unicità per poi portarla a compimento cercando nel mondo e nel tempo ciò che serve allo scopo.
Eppure il “XXI Profilo dei diplomati” presentato il 29 febbraio da AlmaDiploma, analizzato già su queste pagine, riferisce che un ragazzo su due dice di aver sbagliato indirizzo scolastico e universitario. Esito inevitabile di un orientamento quasi assente nella scuola secondaria di primo e secondo grado. Si esce da medie e superiori possedendo delle competenze, ma non se stessi. E senza questo non si può essere felici. Perché?
In un mondo in cui il criterio della felicità è l’efficienza, ciò che conta è acquisire quanto prima competenze “spendibili” nel lavoro. Essere “spendibili” significa essere “comprabili”, cioè diventare noi stessi “risorsa” da “esaurire”: questo vuol dire risorsa, e purtroppo abbiamo deciso che le persone sono risorse umane. Invece la felicità dipende dalla profondità di rapporti che abbiamo con il mondo e con gli altri: i nostri ricordi felici riguardano infatti ciò che abbiamo creato con le nostre attitudini e le relazioni significative che abbiamo stretto. Se non so chi sono e con chi sono, le competenze sono solo vestiti su un manichino. L’orientamento dovrebbe servire a scoprire i propri talenti per poi farli fiorire a beneficio degli altri nel tempo, grazie a terreni e giardinieri scelti perché adeguati a quelle caratteristiche, come le magnolie che richiamano passanti a sostare e bambini a giocare. Non conoscendo se stessi (cioè non essendo ri-conosciuti da chi li educa) i ragazzi si affidano a impressioni fugaci, scelte di maggioranza, aspettative familiari. Non si può non scegliere ma se non si ha l’energia e il coraggio di una vocazione, si sceglie ciò che sembra più certo, comodo, sicuro, rinunciando così alla propria specifica bellezza. Per questo molti ragazzi si ritrovano in vite non loro, con il senso di colpa e l’ansia tipici di una cultura della perfezione e della performance. A differenza di quelle magnolie che fanno ciò a cui sono chiamate nel tempo che serve loro, proprio in mezzo al traffico, noi rischiamo di essere inghiottiti da quel traffico: un mondo che ci dice come essere e che cosa fare prima di averci permesso di scoprire chi siamo e per chi. Può essere felice una magnolia a cui si chiede di fare pere o di fiorire in tutte le stagioni? Entrerà in contraddizione con se stessa, sarà sfruttata (privata dei suoi frutti) e appassirà. Allo scopo di orientare nella scuola è stata introdotta quest’anno la figura del docente tutor. È un primo passo, ma una formazione di 20 ore online non può bastare al paziente lavoro educativo necessario a scoprire l’unicità di un ragazzo. Non si diventa giardinieri in 20 ore e l’uomo è più complesso di una magnolia.
Qualche giorno fa ho letto l’intervista al calciatore Rafa Leão, per il quale nutro una parzialissima simpatia calcistica, che raccontava la sua infanzia a Lisbona: «il pallone sempre fra i piedi in un quartiere molto popolare, la maggior parte dei suoi abitanti sono immigrati, in molti dall’Africa. Non un posto facile. Lì di buono c’era il pallone, ci giocavo dalla mattina alla sera. Interi pomeriggi nel parcheggio del supermercato. Spesso erano carte appallottolate o una lattina o una bottiglia usate come palla, mentre un’auto era la porta. Il mio modo di giocare è ancora quello, un calcio di strada, fatto di finte, scatti, furbizia». Quel bambino, come ogni bambino, aveva una vocazione che lo avrebbe reso felice: «Dio mi ha dato un dono e io gli sono grato. Il mio lavoro è giocare a pallone, ho coronato il mio sogno di bambino. Come potrei non sorridere?». E quel bambino continua a cercare bellezza e gioia: «Amo i gol belli. Il calcio oggi è solo statistiche, cifre. E a me non piace. Il calcio è magia, gioia. Mi fa arrabbiare che la gente pensi solo ai numeri. Io non sono così. Perché la gente deve divertirsi. E allora mi devo divertire anche io. Sono per la bellezza». Ma senza ciò che hanno fatto per lui la famiglia e i primi maestri quel talento sarebbe andato sprecato.
I livelli della vita parlano dialetti diversi ma la lingua è la stessa: il talento del calciatore e quello delle magnolie sono doni dati ai singoli a beneficio del mondo. Ho scoperto che le magnolie di quella piazza si chiamano soulangeane, una specie i cui fiori bianchi, rosa e viola sbocciano mentre i rami degli altri alberi sono ancora spogli. Il loro nome viene da un ufficiale dell’esercito napoleonico, Étienne Soulange-Bodin (1774–1846), che ne creò l’ibrido da due varietà cinesi nella campagna a cui dedicò la seconda parte della sua vita, diventando un famoso botanico. Un uomo che aveva perso tempo in campagne militari fu poi capace di tornare alle campagne vere e proprie, la sua vocazione, e quella di ogni uomo: creare bellezza.
Oggi pensiamo a una persona in formazione come a una macchina su cui installare software sempre più aggiornati e veloci, invece siamo più simili alle piante che con la loro energia intrinseca e specifica realizzano, senza fretta né ritardi, la bellezza a cui sono chiamate. E non lo fanno in competizione (competenza e competizione hanno la stessa radice e avranno quindi gli stessi frutti: tutti lottano per emergere ma sappiamo che ci riusciranno i già avvantaggiati), ma in collaborazione (lavorare insieme: ciascuno emerge per la sua unicità che lo rende necessario agli altri, di cui a sua volta ha bisogno). La cooperazione è per me uno dei capitoli più interessanti della recente botanica, sviluppato negli ultimi anni dagli studi di Suzanne Simard che ha riscritto il paradigma competitivo nell’evoluzione delle piante (consiglio il TedTalk “How trees talk to each other” del 2016 e il suo libro L’albero madre): quando l’albero di un gruppo è minacciato o si ammala, gli altri esemplari, anche di specie diverse, scambiano non solo informazioni aeree tramite ormoni diffusibili ma soprattutto sostanze nutrienti attraverso l’immensa rete delle loro radici. Gli alberi non sono innanzitutto attori individuali in competizione per le risorse, ma un sistema collaborativo, con alcuni alberi che per la loro età hanno un ruolo centrale per la nascita e la vita dei più giovani, questo sistema è definito da Simard “intelligenza del bosco”.
Finché la scuola non avrà questa intelligenza, userà solo la lingua dell’utile e dell’efficienza (rendimento, crediti, debiti, competenze…) e non della vita (crescita, maturazione, cooperazione, vocazione…) i suoi “virgulti” spesso appassiranno prima della “maturità” invece di diventare belli come le magnolie che, persino nell’asfalto trafficato e inquinato, spingono a fermarsi a respirare e a chiedersi perché e per chi siamo qui.
(fonte: sito dell'autore)