sabato 16 dicembre 2023

Madri, così lontane così vicine

Madri, così lontane
così vicine


La foto di Fati e di Marie riverse sulla sabbia, prive di vita ha fatto il giro del mondo. Madre e figlia morte di sete e di stenti nel deserto fra Tunisia e Libia. Un deserto che la giornalista marocchina Karima Moual ha definito «un fronte di guerra senza bombe, una fossa comune uguale al mare Mediterraneo».

Fati, alla quale la scrittrice e poetessa Maria Grazia Calandrone dedica una poesia, pubblicata per la prima volta su Donne Chiesa Mondo , è solo uno dei volti della “maternità migrante”, delle madri che della emigrazione sono vittime. Che affrontano mare e deserto, persecuzioni e campi di detenzione, fame e sete, pericoli che vengono dagli uomini e dalla natura, spinte dalla volontà di dare ai propri figli una vita migliore.

Molte madri migranti probabilmente sarebbero rimaste legate al proprio destino se non ci fosse stata una spinta di testa e cuore. Se l’avvenire dei figli non le avesse convinte a lasciare le loro povere sicurezze. È una condizione diffusa: le statistiche ci dicono che le donne emigrate, contrariamente al passato, sono di più degli uomini.

Ma quando parliamo di “maternità migrante” non ci riferiamo solo a loro. Il dolore e la sofferenza devastante della migrazione arrivano anche per altre strade.

È “maternità migrante” quella delle madri che non seguono i figli, da questi abbandonate per inseguire un futuro migliore. Madri che rimangono nella loro casa, ma private dell’amore e della protezione di chi hanno messo al mondo. Assediate dal dolore di non sapere e di immaginare il peggio: i loro figli sconfitti dalla sabbia del deserto o inghiottiti dalle onde di un mare nemico, mai arrivati a destinazione.

Madri abbandonate e dolenti come quella di Amadou che a 15 anni aveva lasciato il Mali ed era sbarcato in Sicilia dopo aver attraversato Niger e Libia. Troviamo la sua storia nel libro Anche Superman era un rifugiato edito da Bur e curato da Igiaba Scego e UNHCR Piemonte. La madre di Amadou, che non ha sue notizie da anni, quando lui le telefona risponde: «Lasciatemi in pace, mio figlio è morto». Il ragazzo racconta: «Ho dovuto faticare per farle capire che ero io, che ero Amadou. Le ho raccontato particolari della mia e della nostra vita che potevo sapere solo io. E allora è scoppiata a piangere».

Anche la madre di Jerreth Jaiteh, un gambiano ora meccanico a Reggio Emilia, è stata abbandonata. Lui era fuggito dalla dittatura perché voleva studiare ed essere libero Lei aveva insistito fino alla fine perché non partisse. Il poco che avevano, persino la limitazione della libertà, erano preferibili a quello cui Jerreth andava incontro. Sapeva di tanti che non erano tornati. Sapeva di ragazzi che avevano subito violenze inaudite e che erano morti. I campi libici, il deserto, le torture, le detenzioni, sono notizie che arrivano anche nei più sperduti villaggi del Gambia. Arrivano a tutte le madri i cui figli sono partiti da soli e magari di nascosto, donne la cui vita è completamente sconvolta, il cui destino è segnato dall’assenza. Madri abbandonate.

Hanno cercato una risposta a questa dolorosa solitudine le donne che si sono organizzate in Terre pour tous, associazione dei familiari dei tunisini scomparsi nel Mediterraneo. Fra queste Leyla Akik, madre di Youseff che cercava di raggiungere l’Italia. Leyla non ha notizie del figlio da oltre tre anni. «Lui non c’è – dice – ecco perché la mia lotta per conoscere la verità è cresciuta e ora mi sento madre di tutti i giovani che scompaiono».

È “maternità migrante” anche quella delle donne che nei loro Paesi si trovano a fare da madri ai figli di quelle che sono partite. Donne che si assumono pesi e responsabilità. Che non lesinano protezione a chi non può averla dalla propria madre costretta all’emigrazione. Che allargano l’amore a chi non è nato da loro ma di loro ha bisogno. Si occupano dei figli della sorella, della cognata, della cugina, della vicina, dividendo con loro il poco che hanno. Famiglie allargate che non si fregiano di alcuna modernità ma riparano ai guasti di un’emigrazione che non può tenere conto degli affetti e dei legami familiari. Madri supplenti.

Ancora “maternità migrante” è quella di coloro che lasciano i propri figli e partono proprio per garantire loro un avvenire migliore. Sanno che si mettono a rischio di pericoli enormi. Che per loro la violenza, lo stupro sono in agguato insieme alle privazioni. Che il prezzo da pagare può essere molto alto. A volte diventano madri durante il viaggio e non sanno chi è il padre dei nuovi figli che comunque fanno nascere e amano.

Come hanno raccontato Fiore Kenfa, una giovane eritrea di 24 anni, e Fassiuta Giomande, una donna ivoriana di 41, giunte nel reparto di Ostetricia dell'ospedale di Palermo dalla nave Diciotti della Guardia Costiera italiana.

Fiore Kenfa ha lasciato tre anni prima una figlia nel suo villaggio in Eritrea, suo marito è in Svizzera. Prima è andata a lavorare in Sudan, dove è stata violentata. Poi è partita per la Libia, dove è restata incinta.

Fassiuta Giomande invece è stata costretta ad abbandonare sei figli in Costa d'Avorio. Quello che partorirà a Palermo è il settimo. «Qualcuno penserà forse che non sono una buona madre, ma io sono partita proprio per garantire ai miei figli un futuro migliore. Spero di riabbracciarli, di fargli conoscere il fratellino che sta per nascere, di vivere tutti insieme una vita dignitosa. Chiedo troppo?». La madre che lascia i figli per amore nei loro confronti è la contraddizione più dolorosa. Madri interrotte.

Per questo in tante preferiscono portarseli con loro. Anche piccoli, anche ancora nella loro pancia. Nel deserto e nel mare possono incontrare la morte rendendoli orfani, allora l’unica speranza è che incontrino uomini e donne di buona volontà. Un giorno a Lampedusa un giovane di nemmeno 18 anni, proveniente dall’Africa sub-sahariana, è sbarcato tenendo per mano un bambino sui tre anni. «Non so chi sia. L’ho trovato nel deserto, era solo, abbandonato. L’ho portato con me per salvarlo, e abbiamo fatto il viaggio insieme, ma non è un mio famigliare», ha detto il ragazzo ai volontari della Croce Rossa e alla polizia. Gli operatori di Save the children spiegano che capita spesso perché i minori vengono drammaticamente separati nella fasi concitate della partenza dai loro genitori, oppure perché gli stessi genitori li affidano a un conoscente per fargli fare la traversata.

Le immagini ci mostrano i volti delle donne incinte terrorizzati dopo le lunghe ore di mare. Fragili, eppure consapevoli che senza un atto di coraggio la loro creatura non ha avvenire. A volte queste madri-coraggio muoiono nel dare alla luce i figli. Come Sephora Niangane, morta a Brindisi sola, dopo aver dato alla luce una bambina. Due giorni prima era stata salvata in mare dalla nave Geo Barents di Medici senza frontiere. Non aveva documenti con sé, oltre al suo nome aveva detto di avere 24 anni e di venire dal Burkina Faso.

A volte i figli li perdono drammaticamente perché gli scivolano dalle braccia cadendo in mare. A Lampedusa c’è chi ricorda il pianto, lungo e muto, della madre, neppure 18 anni, accanto alla sua bambina di 5 mesi che non c'era più. Fortunosamente ce l'avevano fatta ad arrivare, lei e la bimba, ma poi a pochissime miglia dalla costa la barca in legno si era capovolta.

Su un barcone proveniente da Antalya, Turchia, un giorno a circa 71 miglia dalla Libia, muoiono per la sete tre bambini: Haret di tre anni, Hudaifa di due anni, Motaz di 12 anni. «La madre di Hudaifa lo lava, gli cambia i vestiti sporchi. Poi lo profuma e lo affida al mare con le sue mani», racconta l'agenzia Gerta human reports.

E che cosa avviene delle madri quando con i figli o senza di essi arrivano in un paese straniero? Riescono a realizzare qualcuna delle aspirazioni per cui hanno affrontato pericoli e dolori? Si tiene conto della loro condizione di madri nel paese in cui sono arrivate? Purtroppo le risposte a queste domande non sono consolanti. Senza il vantaggio della lingua, alcune rimangono più sole e isolate, sperimentano la freddezza di una società che non le aspetta.

Nei paesi di approdo non c’è il reticolo famigliare di mutuo soccorso, si perde la cultura comunitaria.

E noi che chiediamo a queste donne la cura dei nostri figli e dei nostri anziani spesso ci dimentichiamo che anche loro hanno una famiglia. A volte divisa anche qui, perché mogli e mariti sono divisi, lavorano in famiglie diverse.

«Le donne migranti portano nella loro carne esperienze drammatiche»: sono le parole di Papa Francesco.
(Fonte: L'Osservatore Romano - 02.12.2023)