giovedì 12 ottobre 2023

Francesco: coerenza di un pontificato

Francesco: coerenza di un pontificato


Se vi è qualcosa che pure i suoi più tenaci detrattori difficilmente possono negare è l’estrema coerenza di questo papato. In Evangelii gaudium, la prima esortazione apostolica firmata da Francesco nel suo primo anno di pontificato nel 2013, infatti, ritroviamo facilmente i semi di tutto ciò che in seguito è fiorito durante il suo magistero.

Lo stupore, ogni volta che il papa prende la parola da qualche luogo agli estremi del nostro mondo, non viene dunque dal fatto di trovarsi davanti a contenuti inediti, ma dal coraggio che Francesco mostra nel proporli e dalla sua capacità di renderli vivi, presenti, di portarli alla loro leggibilità, oggi, nella carne della storia; di renderceli vicini, tanto da poterli toccare, se vogliamo. Tanto vicini da potersi sentire sfiorare dal Vangelo, la grande e stupefacente Novità che ci raggiunge da duemila anni.

Un gesto profetico

Il gestus dell’inizio, insomma, si irradia in ogni altro gesto che Francesco ha poi compiuto sino ad oggi. È un evento forte, allora, quel cominciamento: gesto che sospende il continuum del «tempo omogeno e vuoto» della storia dei vincitori, per dirla con Walter Benjamin, facendo balenare un’alternativa radicale al «così è se vi pare» che ci viene ripetuto ad ogni accenno di protesta; gesto che interrompe lo stanco tran tran del nichilismo ambientale, perché non bisogna più indulgere nella fantasia di un nichilismo come fosse un oscuro ma eroico cavaliere che fa giustizia della mediocrità del mondo, poiché esso è esattamente quella mediocrità spinta fino al grottesco; gesto che espone gli uomini e le donne di questo tempo al rischio della speranza e alla gioia della condivisione.

Il minimo che si può dire, mi pare, è che quella esortazione è da intendersi come un gesto profetico. Profezia nel senso vero della parola, ovvero non un vaneggiamento su qualche evento posto in qualche lontano e vago futuro, ma una lettura «radiografica» dell’attualità storica alla luce dello Spirito.

Scriveva Mario Tronti: «Profezia non è pre-dire, non è nemmeno pre-vedere. Il profeta non vede il futuro, vede il presente. Vede nel presente quello che gli altri non vedono, e dice quello che gli altri non vogliono ascoltare». Il profeta, cioè, compie un gesto di grande semplicità eppure difficilissimo, ovvero mostra il mondo così come è, in tutta la sua cruda realtà, denunciandone però le storture, le ingiustizie, l’arroganza e l’indifferenza, per poi indicare la via d’uscita, la strada da seguire, le lotte da compiere e le trappole da evitare, tutto ciò che bisogna fare per vincere la prigionia del presente e arrivare alla Terra Promessa, per sconfiggere le tenebre e andare incontro al Regno di Dio che non smette mai di venire.

Non è affatto strano, allora, che «faraoni», «egiziani», «scribi», «farisei» e «romani» di oggi non abbiano alcuna voglia di ascoltarlo e che ogni volta che Francesco parla gli saltino i nervi. In fondo è un po’ come succedeva a san Paolo che, quasi ogni qualvolta in cui arrivava in una nuova città e apriva la bocca per annunciare il Vangelo, si scatenavano tumulti, doveva subire un fitto lancio di pietre, per poi essere gettato in una qualche prigione. Ma non è proprio questo che dovrebbe essere il cristianesimo, un Annuncio che interpella, inquieta e appassiona, invece che addormentare e conservare il mondo e se stessi così come sono? Una Vita per la quale vale la pena rischiare la lapidazione e la prigione, invece che flirtare con un’esistenza indifferente, senza senso o passata sfruttando gli altri?

Sono domande tutt’altro che retoriche in un mondo in cui tutti dicono che il cristianesimo sia in crisi. Una delle risposte possibili è, infatti, che il cristianesimo, quando è nella sua verità, mette in crisi.

Il papa e la Francia

Effettivamente, se si è avuto modo di seguire un po’ i media francesi nei giorni precedenti, durante e dopo la visita del papa a Marsiglia, se ne è vista un bel po’ di gente che assomiglia a quelle statuine che rappresentano delle scimmiette che si tappano le orecchie e si coprono gli occhi ma che, a differenza di quelle statuine, invece di coprire anche la bocca, la spalancano per far uscire suoni stridenti e ripetitivi per cercare di coprire la voce che li sovrasta. Qualcuno tra loro, se ne avesse la possibilità, sono certo che una sassata gliela avrebbe tirata volentieri.

È sempre comico comunque vedere giornalisti, politici, intellettuali o anche semplici cittadini, tutti sedicenti cristiani, anzi cattolici, pretendere di insegnare al papa che cosa significa essere cristiani. A volte la «vecchia Europa» mi sembra come quel «giovane ricco» che, convinto di fare bene tutti i suoi «doveri», domandava un po’ pleonasticamente al Signore come ottenere la vita eterna; e Gesù, amandolo e leggendogli nel cuore, gli dice quello che sappiamo, spronandolo a fare quel passo in più che avrebbe cambiato la sua vita, che avrebbe trasformato tutto, ma il giovane si voltò, tra il triste e l’indignato, e se ne andò via.


«Vai oltre, Europa», sembra dire infatti Francesco, «non chiuderti dietro i tuoi privilegi, apri le tue porte, non voltarti dall’altra parte». Ma, appunto, è la profezia il punto di frizione che provoca le scintille: la voce di Francesco sovrasta tutte le vocine e le vocione che oggi governano «questo mondo», perché sfonda i muri, entra nelle coscienze e fa sussultare gli spiriti, anche di quelli che gli resistono. E lo fa al momento e nel luogo in cui deve essere fatto, diventando «segno di contraddizione».

La grande maestria profetica di Francesco non si limita, infatti, all’aver indicato i temi centrali dell’epoca una tantum, ma consiste nel saper individuare ogni volta non solo il tempo giusto, il kairòs, nel quale può spuntare il fiore di ciascun seme, ma anche lo spazio giusto, il tòpos dal quale quello spuntare del fiore può significare, e quasi sempre è così, il dover rompere con forza la dura crosta mondana formata dagli egoismi, dagli odii, dalle ingiustizie, cioè, in chiaro, da quelle «strutture di peccato» che distruggono la vita e soffocano il mondo.

Contro il sistema imperante

Quello che scandalizza tanto, fra le altre cose, è che Francesco non ha alcuna remora nell’indicare nelle mille storture prodotte dal capitalismo autoritario dominante le condizioni per le quali quelle strutture si conservano e si potenziano a vicenda. Ma le «strutture di peccato» non sono qualcosa di astratto, di disincarnato. Non sono semplici idee, sono fatti, realtà materiali e spirituali che vengono agite da uomini reali.

In quell’esortazione, Francesco lo dice chiaramente: sempre, in ogni caso, «la realtà è superiore all’idea». La fatica è, ovviamente, quella di riconoscere quella realtà del male dentro noi stessi, sia individualmente che come società. Ma il dramma è raddoppiato dal fatto che sembra si faccia fatica anche a riconoscere la realtà del bene.

Ad alcuni, leggendo le cronache di questi giorni, il papa è però sembrato troppo duro, ingiusto, nel colpevolizzare «l’indifferenza» dei cittadini, quelli «normali», quelli che non hanno bisogno di permessi per entrare perché sono già dentro e ci stanno bene, ma «da soli». Ma come, duro il papa della tenerezza?

La tenerezza non esclude la fermezza, la carità non indietreggia davanti agli ostacoli. Come diceva già sant’Agostino, in un celebre passaggio del suo commento alla Prima Lettera di san Giovanni, a volte la verità è che «la carità colpisce, l’iniquità blandisce». Si vorrebbe forse un papa che blandisce come un qualsiasi politico in campagna elettorale o un qualsiasi commerciante desideroso di piazzare la sua merce? Un papa che elogi il mondo così com’è? Alla fine, un papa «inoffensivo»?

A volte, il profeta deve alzare la voce e roteare nell’aria il suo bastone e se lo fa, lo fa per amore. «Ama, e fa ciò che vuoi», infatti continuava il santo vescovo di Ippona, ma, se non ami, se la carità non viene per prima e investe tutto, quel fare ciò che si vuole – esiste infatti un «liberalismo esistenziale», figlio di quello economico e politico, che sta a destra, a sinistra, al centro e ovunque – lo si fa a spese degli altri, cioè degli esclusi, degli scartati, dei poveri.

I migranti che affogano nel Mediterraneo, muoiono a causa dell’odio organizzato, dell’indifferenza divenuta ideologia e di quel «liberalismo esistenziale» che apparentemente ci permette di vivere individualmente come meglio vogliamo. È lo stesso liberalismo esistenziale che Francesco denuncia come forza agente verso i bambini non nati e i vecchi abbandonati, così come è sempre quello spirito del tempo a vedere di buon occhio l’eutanasia di Stato e che, ovviamente, è del tutto indifferente pure al flagello della guerra, almeno fino a quando non produce l’aumento di una bolletta.

È quindi una sfida aperta e senza sconti che Francesco e la sua Chiesa pone all’antropologia vincente formatasi negli ultimi quarant’anni sulla pelle degli ultimi. Si capisce bene, allora, perché non si vuol vedere la realtà e sentire la voce del profeta. Che però arriva, ovunque siamo e chiunque siamo, ma lo fa a partire da luoghi insoliti.


Dalla Mongolia a Marsiglia

A proposito della coerenza, infatti, non si può non vedere nella sequenza dei viaggi di Francesco di questi ultimi mesi un’unitarietà di senso pur nella, a volte estrema, differenza dei luoghi toccati: Mongolia, Portogallo, Marsiglia. Non che precedentemente il senso fosse stato diverso, nient’affatto, ma vi è forse un’accelerazione e un divenire sempre più chiaro di quel senso man mano che si rivela, nella realtà che viviamo, attraverso i segni mostratici da Francesco. Il gesto è comunque sempre lo stesso annunciato in Evangelii gaudium, fin nella preghiera finale rivolta alla Vergine Maria:

Stella della nuova evangelizzazione,
aiutaci a risplendere nella testimonianza della comunione,
del servizio, della fede ardente e generosa,
della giustizia e dell’amore verso i poveri,
perché la gioia del Vangelo
giunga sino ai confini della terra
e nessuna periferia sia priva della sua luce.

«Periferia», lo sappiamo bene ormai, è una delle parole chiave del magistero di Francesco: decentrare e decentrarsi, per vedere meglio, nella sua profondità spirituale, storica e geografica, tutto il resto. La periferia di Francesco è infatti multiforme, «poliedrica»: è un luogo geografico, ma anche uno della soggettività, è un tempo particolare, ma anche uno spazio dello spirito. Quella di Francesco non è tanto una geopolitica quanto una «geoteologia».

Nella visione profetica di Francesco è sempre la periferia che dà significato a tutto il resto, sono i poveri che danno l’accesso alla visione e la comunione agapica è il mezzo puro che permette di superare ogni ostacolo, tanto quelli alla visione che quelli all’udito che quelli alla parola, oltrepassa cioè ogni ostacolo alla manifestazione della vita.

Ad Ulan Bator, in Mongolia, è dalla ger, la tradizionale abitazione circolare dei nomadi, che Francesco punta lo sguardo verso l’universale, simboleggiato dagli immensi spazi della steppa. Ma la ger permette, tramite l’apertura del suo vertice, anche uno sguardo verso il cielo, verso l’Alto: la storia di ogni giorno e la trascendenza dell’eterno si armonizzano nella povera architettura di una capanna attraversata verticalmente da una luce divina. È una capanna per la famiglia e per i viandanti, uno spazio mobile che accoglie e non respinge: «se c’è una ger, c’è vita», ha riassunto il papa davanti alle autorità religiose mongole.

Certo, la comunità cattolica mongola è minuscola, entra tutta in una fotografia, in fondo è un’estrema «periferia» della Chiesa, ma è proprio questa «piccolezza» che Francesco ha voluto esaltare. Ogni cristiano, d’altra parte, dovrebbe sapere che è dal minuscolo seme di senape che cresce il Regno.

A Lisbona Francesco ha detto che vedeva il Portogallo come «il confine del mondo», in quanto confina con l’Oceano che delimita tutti i continenti, invitandoci però, allo stesso tempo, a guardare quel confine non come una chiusura, ma come una porta che dà accesso ad una immensa «apertura universale». È stato d’altronde un poeta portoghese, Miguel Torga, a dire che «l’universale è il locale meno i muri» e lo fece proprio in un discorso a degli immigrati portoghesi in Brasile nel 1954. Quelle di Francesco sono come lezioni, tenute da cattedre poste nei luoghi più estremi, su che cosa significa «cattolico».

Nelle periferie del mondo e dei cuori

Tuttavia, quello che mi sembra Francesco segnali con forza a ogni tappa del suo viaggio spirituale nel mondo di oggi, è che dovremmo essere capaci di trovare quella piccolezza, quell’essere periferia, ovunque ci troviamo e fin dentro noi stessi.

Quando ha detto e ripetuto che lui non si recava in Francia ma andava a Marsiglia, la meno chic delle grandi città dell’Esagono, ma anche la più popolare e multietnica, oltre che magnifico porto sul Mediterraneo, non lo ha fatto per fare uno sgarbo ai francesi, ci mancherebbe, né solamente per i tanti problemi che quella nazione può oggi significare per la Chiesa, ma credo proprio per un’educazione dello sguardo, una pedagogia dell’ascolto, che ha fatto sì che la Francia tutta si potesse guardare e ascoltare attraverso una sua «periferia»: insomma, che la Francia stessa si configurasse per un momento come una nazione «in uscita» da se stessa.

Se ogni paese europeo si ponesse «in uscita» da se stesso, dalla sua pretesa «identità», quella che fomenta i nazionalismi, forse, oltre a guardare ai propri problemi in modo diverso, accadrebbe che l’Europa stessa comparirebbe improvvisamente in una sua nuova configurazione, più solidale, più vera, più bella e, perciò, più universale.

Certo, per comprendere tutto questo discorso, ha indubbiamente una grande importanza che il papa provenga dall’America Latina, quindi da un luogo decentrato e decentrante rispetto all’Occidente rigorosamente inteso. Tuttavia, mi pare un po’ riduttivo credere che il suo pensiero e la sua azione siano dovuti semplicemente al fatto di venire da un continente non-europeo. In qualche modo mi sembra che anche questo sia a volte un modo, più gentile di altri apparentemente, per ridurre la portata teologica della sua missione profetica.

L’essere nato e vissuto in una periferia, rispetto al presunto «centro» della civiltà, costituirebbe un «limite» soggettivo che gli impedirebbe la giusta visione delle cose nel loro complesso. Ovvero l’esatto contrario del senso che Francesco dà alla periferia.

E invece, per chi vuole vedere e sa ascoltare, il gesto di Francesco non è altro da quello del Vangelo, da quello di Gesù stesso, il quale sta sempre nella «periferia»: nasce in periferia, predica in periferia, muore in periferia e al momento della risurrezione dà appuntamento ai discepoli in Galilea, cioè in una regione periferica. Quando Gesù punta diritto verso il «centro», la Gerusalemme del potere politico e religioso, ci va sapendo di andare alla Passione, sapendo che lì lo arresteranno, lo condanneranno e lo uccideranno.


Ma, per l’appunto, la lettura che Gesù propone del «centro», cioè di «questo mondo» con tutti i suoi personaggi – i «ricchi», i «sapienti», i «potenti» – procede sempre da uno sguardo che dalla periferia, che può essere tanto geografica quanto sociale quanto esistenziale, illumina l’universale. Può essere a volte anche una periferia temporale, come nella parabola dei lavoratori dell’ultima ora, o di genere, come nell’episodio dell’adultera o della samaritana, o persino posta al di là del possibile e dell’impossibile, nella morte in quanto periferia della vita, come nella risurrezione di Lazzaro. Anche i bambini, così amati dal Signore, possono essere considerati come periferie del mondo degli adulti. Diventate come bambini, divenite piccoli, fatevi periferia.

Francesco non fa che lanciarci continuamente la stessa sfida che Gesù ci ha lanciato: «convertitevi», cambiate modo di vedere e di pensare il mondo, guardate alla vita con lo sguardo dei piccoli, degli ultimi, dei periferici. E, così, rovesciate i potenti. È la periferia che redime il centro, non il contrario. Lui, Francesco, certo non possono arrestarlo, ma vi sono altri modi di «lapidarlo».

Un papa politico

Ho sentito un politico francese di lungo corso, Philippe de Villiers, cattolico bien sûr, che su di un canale televisivo protestava che «il papa e i vescovi vogliono uccidere la Francia e i francesi» e che le ONG che Francesco difende sono dei covi del «sovversivismo». Un columnist del Figaro, già dirigente politico dell’UMP di Nicholas Sarkozy, Gilles-William Goldnadel, ha scritto un articolo, intitolato “Quello che papa Francesco non ha detto”, in cui, rovesciando il discorso, sostiene che è il papa ad essere «fanaticamente indifferente» verso un «popolo», cioè i francesi, «che si sente oggi invaso», dai migranti ovviamente. Addirittura, vi ha visto il «rifiuto ad assistere un popolo in pericolo di morte».

Il giovane giornalista Geoffrey Lejune, già direttore del conservatore Valeurs actuelles e oggi del Journal du Dimanche (appartenente al gruppo Vivendi, tra le proprietà del miliardario Vincent Bolloré), riferendosi alla questione dell’accoglienza dei migranti, ha affermato in una trasmissione televisiva e poi tramite le reti sociali che «quando lancia il suo messaggio politico, il papa non sta svolgendo il suo ruolo di capo della Chiesa» e che, secondo lui, il «diritto di vivere dove si è nati» è da intendersi per i francesi innanzitutto, nel senso del loro diritto di vivere senza quegli altri. Concetti che qui da noi, in Italia, sono ben conosciuti e che, sia detto en passant, sono parte integrante della cultura di chi oggi la governa dicendosi per lo più cristiano, anzi cattolico.

Un amico francese ha scritto con acutezza, commentando le reazioni politiche al viaggio marsigliese di Francesco, che ormai «l’eresia non è più limitata al campo dello studio teologico, ma ha fatto irruzione in quello della lotta politica».

Se a Lisbona, davanti all’immensità dell’Oceano, Francesco ha rivolto una domanda che ci dà le vertigini, «quale rotta segui, Occidente?», a Marsiglia, dinnanzi al Mediterraneo, che da mare nostrum si è trasformato in un «mare mortuum», la questione è stata da lui posta in termini ancora più espliciti e affermativi: «Ci troviamo di fronte a un bivio di civiltà. O la cultura dell’umanità e della fratellanza, o la cultura dell’indifferenza».

Una biforcazione storica e metastorica, spirituale e politica, che non può non riportarci alla mente quel passo del Deuteronomio in cui Dio, attraverso Mosè, dice all’uomo: «Io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione. Scegli, dunque, la vita».

Il tempo si è fatto breve e il Regno si avvicina, magari proprio nel punto di contatto tra quei barconi di fortuna che solcano il Mediterraneo colmi di uomini e donne e quelle braccia che li tirano fuori dalle acque quando quelle vite sono sul punto di inabissarsi.
(fonte: Settimana News, articolo di Marcello Tarì 29/09/2023)