VIAGGIO APOSTOLICO DI SUA SANTITÀ FRANCESCO
in UNGHERIA
28 - 30 APRILE 2023
Domenica 30 aprile 2023
BUDAPEST
16:00 Incontro con il Mondo universitario e della cultura presso la Facoltà di Informatica e Scienze Bioniche dell'Università Cattolica “Péter Pázmány”
17:30 Cerimonia di congedo presso l'Aeroporto Internazionale di Budapest
18:00 Partenza in aereo dall'Aeroporto Internazionale di Budapest per Roma
INCONTRO CON IL MONDO UNIVERSITARIO E DELLA CULTURA
Facoltà di Informatica e Scienze Bioniche dell'Università Cattolica “Péter Pázmány” (Budapest)
Papa Francesco, congedatosi dalla Nunziatura apostolica dove ha soggiornato in questi tre giorni a Budapest, si è trasferito in auto alla Facoltà di Informatica e Scienze Bioniche dell'Università Cattolica "Peter Pazmany" per l'incontro di questo pomeriggio con il mondo universitario e della cultura, ultimo appuntamento del suo viaggio in Ungheria. La Facoltà di Informatica e Bionica dell'Università Cattolica Peter Pazmany è una facoltà unica in Ungheria e persino in Europa, in quanto combina lo studio dell'ingegneria elettronica e informatica con la biologia molecolare e neurale e la medicina. Il Papa viene accolto all'ingresso dal rettore, mons. prof. Geza Kuminetz, e dal decano della facoltà e insieme raggiungono il podio. Francesco pronuncia il suo discorso dopo il saluto del rettore e le testimonianze di un professore e di una dottoranda.
Il Papa: anche oggi esiste il rischio di ideologie che non danno libertà
Nel suo ultimo discorso in Ungheria, pronunciato durante l'incontro con il mondo universitario e della cultura, all’Università cattolica “Péter Pázmány”, il Papa parla della conoscenza che non deve limitarsi ad un sapere tecnico e che per diventare cultura è chiamata a liberarsi dai confini angusti dell'avere e del possedere. E poi avverte che "un certo uso degli algoritmi può rappresentare un ulteriore rischio di destabilizzazione dell’umano”
L'incontro del Papa con il mondo universitario e della cultura a Budapest
La conoscenza, i progressi della tecnica, la tracotanza di essere e avere, il rischio che l’uomo si lasci appiattire dalle macchine perdendo il contatto con la realtà e la capacità di coltivare lo spirito: sono questi i temi che Francesco affronta nell’ultimo discorso del suo 41.mo viaggio apostolico in Ungheria, durante l'incontro con il mondo universitario e della cultura all’Università cattolica “Péter Pázmány”, nella Facoltà di Informatica e Scienze Bioniche, a Budapest. Tante le persone all'ingresso dell'ateneo per salutarlo; il Papa è accolto dal rettore, monsignor Géza Kuminetz, e dal decano della facoltà di Informatica e Scienze Bioniche e raggiunge una sala dove lo attendono professori e studenti. Dopo il saluto del rettore e le testimonianze di un docente e di una studentessa, parla il Pontefice, che confida di giungere all'ultimo appuntamento dei suoi tre giorni nella capitale ungherese "con il cuore grato" e che sviluppa, poi, la sua riflessione sul sapere. Nelle sue parole anche il richiamo al pericolo di quelle ideologie portatrici di una falsa idea di libertà e a quanto ha vissuto l’Ungheria.
L’Ungheria ha visto il susseguirsi di ideologie che si imponevano come verità, ma non davano libertà. E anche oggi il rischio non è scomparso: penso al passaggio dal comunismo al consumismo. Ad accomunare entrambi gli “ismi” c’è una falsa idea di libertà; quella del comunismo era una “libertà” costretta, limitata da fuori, decisa da qualcun altro; quella del consumismo è una “libertà” libertina, edonista, appiattita su di sé, che rende schiavi dei consumi e delle cose.
E se “è facile passare dai limiti imposti al pensare, come nel comunismo, al pensarsi senza limiti, come nel consumismo”, e “da una libertà frenata a una libertà senza freni”, Gesù insegna che “è vero ciò che libera, quello che libera l’uomo dalle sue dipendenze e dalle sue chiusure”, chiarisce Francesco, aggiungendo che “la chiave per accedere a questa verità è un conoscere mai slegato dall’amore, relazionale, umile e aperto, concreto e comunitario, coraggioso e costruttivo”.
Il Papa accolto dal rettore dell’Università Cattolica Péter Pázmány, monsignor Géza Kuminetz
Due tipi di conoscenza da conciliare
Il Papa, espone il suo pensiero sulla conoscenza, richiamando la figura di Romano Guardini, che distinse quella umile e quella relazionale, quel “creare secondo la natura, che non oltrepassa i limiti stabiliti” e quell’analizzare e afferrare le cose che fa convergere le energie e le sostanze ad un unico fine che è la macchina.
Francesco all'interno dell’Università Cattolica Péter Pázmány
Oggi si è molto "social" e poco sociali
Francesco spiega che “Guardini non demonizza la tecnica, la quale permette di vivere meglio, di comunicare e avere molti vantaggi, ma avverte il rischio” che possa dominare la vita, portando l’uomo a perdere “tutti i legami interiori che gli procurano un senso organico della misura e delle forme di espressione in armonia con la natura”, a stabilire arbitrariamente i suoi fini e ad attuarli dominando e costringendo le forze della natura. Di fronte a tutto ciò, come il grande intellettuale e uomo di fede, il Papa invita a chiedersi se “la vita può rimanere vivente” e pone la domanda all’Ateneo che lo ospita, “dove si approfondiscono l’informatica e le scienze bioniche”. Francesco invita a pensare alla crisi ecologica, con la natura reagendo all’uso strumentale che ne fa l’uomo; “alla mancanza di limiti; alla logica del ‘si può fare dunque è lecito’”; “alla volontà di mettere al centro di tutto non la persona e le sue relazioni”, ma l’individuo “avido di guadagnare e vorace di afferrare la realtà”. Ma è in particolare “all’erosione dei legami comunitari” che il Papa esorta a guardare, alla solitudine e alla paura, che “da condizioni esistenziali, paiono tramutarsi in condizioni sociali, e lancia l’allarme.
Quanti individui isolati, molto “social” e poco sociali, ricorrono, come in un circolo vizioso, alle consolazioni della tecnica come a riempitivi del vuoto che avvertono, correndo in modo ancora più frenetico mentre, succubi di un capitalismo selvaggio, sentono come più dolorose le proprie debolezze, in una società dove la velocità esteriore va di pari passo con la fragilità interiore. Questo è il dramma.
Il Papa mentre tiene il suo discorso
Il rischio di una tecnica sempre più dominante
C’è una “tracotanza di essere e di avere” che “il paradigma tecnocratico esaspera, con un certo uso degli algoritmi che può rappresentare un ulteriore rischio di destabilizzazione dell’umano”, avverte Francesco, che a tal proposito cita il romanzo “Il padrone del mondo”, di Robert Benson, già richiamato in diversi discorsi. Un libro profetico, lo definisce il Papa, che descrive “un futuro dominato dalla tecnica e nel quale tutto, in nome del progresso, viene uniformato”, dove vengono annullate le differenze, azzerate le vite dei popoli, abolite le religioni e “ideologie opposte convergono in una omologazione che colonizza ideologicamente”, un futuro dove “l’uomo, a contatto con le macchine, si appiattisce sempre di più”. In uno scenario del genere, osserva Francesco, “dove tutti sembrano insensibili e anestetizzati, pare ovvio scartare i malati e applicare l’eutanasia, così come abolire le lingue e le culture nazionali per raggiungere la pace universale, che in realtà si trasforma in una persecuzione fondata sull’imposizione del consenso”.
Curare le relazioni con il trascendente, la società e il creato
Di fronte a un simile scenario, il Papa richiama “i ruoli della cultura e dell’università”, specificando che l’università è “il luogo dove il pensiero nasce, cresce e matura aperto e sinfonico”, “tempio dove la conoscenza è chiamata a liberarsi dai confini angusti dell’avere e del possedere per diventare cultura”, in quelle relazioni che l’uomo coltiva “con il trascendente, con la società, con la storia, con il creato”. Tanto che, il Concilio Vaticano II, nella Gaudium et Spes, afferma che “la cultura deve mirare alla perfezione integrale della persona umana, al bene della comunità e di tutta la società umana” e per questo occorre “coltivare lo spirito in modo che si sviluppino le facoltà dell’ammirazione, dell’intuizione, della contemplazione, e si diventi capaci di formarsi un giudizio personale e di coltivare il senso religioso, morale e sociale”. E allora occorre servirsi della scienza per capire e per fare scelte giuste, e per questo serve umiltà. “I grandi intellettuali, infatti, sono umili - dice Francesco -. Il mistero della vita, d’altronde, si svela a chi sa entrare nelle piccole cose”.
Così intesa, la cultura davvero rappresenta la salvaguardia dell’umano. Immerge nella contemplazione e plasma persone che non sono in balia delle mode del momento, ma ben radicate nella realtà delle cose. E che, umili discepole del sapere, sentono di dover essere aperte e comunicative, mai rigide e combattive.
Conoscere significa anche riconoscere i propri limiti
Insomma, chi ama la cultura “porta in sé una sana inquietudine. Ricerca, interroga, rischia ed esplora; sa uscire dalle proprie certezze per avventurarsi con umiltà nel mistero della vita” che a sua volta “si apre alle altre culture e avverte il bisogno di condividere il sapere”. Ed è questo “lo spirito dell’università”, sottolinea il Papa, rimarcando che l’ateneo cattolico ungherese lo vive “attraverso programmi di ricerca condivisi e anche accogliendo studenti provenienti da altre regioni del mondo, come il Medio Oriente” e “in particolare dalla martoriata Siria”.
È aprendosi agli altri che si conosce meglio sé stessi. L’apertura, aprirsi agli altri è come uno specchio: mi fa conoscere meglio me stesso. La cultura ci accompagna a conoscere noi stessi. Lo ricorda il pensiero classico, che non deve mai tramontare. Vengono alla mente le celebri parole dell’oracolo di Delfi: “Conosci te stesso”.
Francesco mentre ascolta la testimonianza del professor Balázs Major
L'uomo è connesso con gli altri e il creato
Francesco specifica che conoscere se stessi "vuol dire saper riconoscere i propri limiti e, di conseguenza, arginare la propria presunzione di autosufficienza", poichè “è anzitutto riconoscendoci creature che diventiamo creativi, immergendoci nel mondo anziché dominandolo”. Ora, mentre “il pensiero tecnocratico insegue un progresso che non ammette limiti”, fa notare il Pontefice, “l’uomo reale è fatto anche di fragilità, ed è spesso proprio lì che comprende di essere dipendente da Dio e connesso con gli altri e con il creato”. Dunque la frase dell'oracolo di Delfi sollecita "a una conoscenza che, partendo dall’umiltà, partendo dal limite, partendo dall’umiltà del limite, scopre le proprie meravigliose potenzialità, che vanno ben oltre quelle della tecnica", rileva il Papa. E allora conoscere sé stessi "chiede di tenere insieme, in una dialettica virtuosa, la fragilità e la grandezza dell’uomo".
Il Papa durante la benedizione finale
L’insegnamento di Gesù
E se “è facile passare dai limiti imposti al pensare, come nel comunismo, al pensarsi senza limiti, come nel consumismo”, e “da una libertà frenata a una libertà senza freni”, Gesù insegna che la verità rende liberi, che “è vero ciò che libera l’uomo dalle sue dipendenze e dalle sue chiusure”, chiarisce Francesco, aggiungendo che “la chiave per accedere a questa verità è un conoscere mai slegato dall’amore, relazionale, umile e aperto, concreto e comunitario, coraggioso e costruttivo”. Le università, conclude il Papa, sono chiamate a coltivare questo modo di conoscere, mentre la fede deve alimentarlo. E il suo auspicio per l’ateneo ungherese e ad ogni università è “di essere un centro di universalità e di libertà, un cantiere fecondo di umanesimo, un laboratorio di speranza”.
Francesco all'uscita dell’Università Cattolica Péter Pázmány
(fonte: Vatican News, articolo di Tiziana Campisi 30/04/2023)
*************
DISCORSO DEL SANTO PADRE
Cari fratelli e sorelle, buon pomeriggio!
Saluto ciascuno di voi e ringrazio per le belle parole che sono state dette e sulle quali mi soffermerò tra poco. Questo è l’ultimo incontro della mia visita in Ungheria e, con il cuore grato, mi piace pensare al corso del Danubio, che collega questo Paese a molti altri, unendone, oltre alla geografia, anche la storia. La cultura, in un certo senso, è come un grande fiume: collega e percorre varie regioni della vita e della storia mettendole in relazione, permette di navigare nel mondo e di abbracciare Paesi e terre lontane, disseta la mente, irriga l’anima, fa crescere la società. La stessa parola cultura deriva dal verbo coltivare: il sapere comporta una semina quotidiana che, immergendosi nei solchi della realtà, porta frutto.
Cent’anni fa Romano Guardini, grande intellettuale e uomo di fede, proprio mentre si trovava immerso in un paesaggio reso unico dalla bellezza delle acque, ebbe una feconda intuizione culturale. Scrisse: «In questi giorni ho più che mai compreso che vi sono due forme di conoscenza […], l’una conduce ad immergersi nell’oggetto e nel suo contesto, per cui l’uomo che vuol conoscere cerca di vivere in lui; l’altra, al contrario, raduna le cose, le decompone, le ordina in caselle, ne acquista padronanza e possesso, le domina» (Lettere dal Lago di Como. La tecnica e l’uomo, Brescia 2022, 55). Distingue tra una conoscenza umile e relazionale, la quale è come “un regnare che si ottiene per mezzo del servire; un creare secondo la natura, che non oltrepassa i limiti stabiliti” (cfr p. 57), e un’altra modalità di sapere, che «non osserva, ma analizza […] non s’immerge più nell’oggetto, lo afferra» (p. 56).
Ed ecco che in questo secondo modo di conoscere «le energie e le sostanze sono fatte convergere ad un unico fine: la macchina» (p. 58), e «così si sviluppa una tecnica dell’assoggettamento dell’essere vivente» (pp. 59-60). Guardini non demonizza la tecnica, la quale permette di vivere meglio, di comunicare e avere molti vantaggi, ma avverte il rischio che essa diventi regolatrice, se non dominatrice, della vita. In tal senso vedeva un grande pericolo: «L’uomo perde tutti i legami interiori che gli procurano un senso organico della misura e delle forme di espressione in armonia con la natura» e, «mentre nel suo essere interiore egli è divenuto senza contorni, senza misura, senza direzione, egli stabilisce arbitrariamente i suoi fini e costringe le forze della natura, da lui dominate, ad attuarli» (p. 60). E lasciava ai posteri una domanda inquietante: «Cosa ne sarà della vita se essa finirà sotto questo giogo? [...] Cosa accadrà […] quando ci troveremo davanti al prevalere degli imperativi della tecnica? La vita, ormai, è inquadrata in un sistema di macchine. […] In un tale sistema, la vita può rimanere vivente?» (p. 61).
La vita può rimanere vivente? È una questione che, specialmente in questo luogo, dove si approfondiscono l’informatica e le “scienze bioniche”, è bene porsi. Infatti, quanto intravisto da Guardini appare evidente ai nostri giorni: pensiamo alla crisi ecologica, con la natura che sta semplicemente reagendo all’uso strumentale che ne abbiamo fatto. Pensiamo alla mancanza di limiti, alla logica del “si può fare dunque è lecito”. Pensiamo anche alla volontà di mettere al centro di tutto non la persona e le sue relazioni, ma l’individuo centrato sui propri bisogni, avido di guadagnare e vorace di afferrare la realtà. E pensiamo di conseguenza all’erosione dei legami comunitari, per cui la solitudine e la paura, da condizioni esistenziali, paiono tramutarsi in condizioni sociali. Quanti individui isolati, molto “social” e poco sociali, ricorrono, come in un circolo vizioso, alle consolazioni della tecnica come a riempitivi del vuoto che avvertono, correndo in modo ancora più frenetico mentre, succubi di un capitalismo selvaggio, sentono come più dolorose le proprie debolezze, in una società dove la velocità esteriore va di pari passo con la fragilità interiore. Questo è il dramma. Dicendo ciò non voglio ingenerare pessimismo – sarebbe contrario alla fede che ho la gioia di professare –, ma riflettere su questa “tracotanza di essere e di avere”, che già agli albori della cultura europea Omero vedeva come minacciosa e che il paradigma tecnocratico esaspera, con un certo uso degli algoritmi che può rappresentare un ulteriore rischio di destabilizzazione dell’umano.
In un romanzo che ho più volte citato, Il padrone del mondo, di Robert Benson, si osserva «che complessità meccanica non è sinonimo di vera grandezza e che nell’esteriorità più fastosa si nasconde più sottile l’insidia» (Verona 2014, 24-25). In questo libro, in un certo senso “profetico”, scritto più di un secolo fa, viene descritto un futuro dominato dalla tecnica e nel quale tutto, in nome del progresso, viene uniformato: ovunque si predica un nuovo “umanitarismo” che annulla le differenze, azzerando le vite dei popoli e abolendo le religioni. Abolendo le differenze, tutte. Ideologie opposte convergono in una omologazione che colonizza ideologicamente. Questo è il dramma, la colonizzazione ideologica; l’uomo, a contatto con le macchine, si appiattisce sempre di più, mentre il vivere comune diventa triste e rarefatto. In quel mondo progredito ma cupo, descritto da Benson, dove tutti sembrano insensibili e anestetizzati, pare ovvio scartare i malati e applicare l’eutanasia, così come abolire le lingue e le culture nazionali per raggiungere la pace universale, che in realtà si trasforma in una persecuzione fondata sull’imposizione del consenso, tanto da far affermare a un protagonista che «il mondo sembra in balia di una vitalità perversa, che corrompe e confonde ogni cosa» (p. 145).
Mi sono protratto in questa disamina a tinte fosche perché proprio in tale contesto meglio risplendono i ruoli della cultura e dell’università. L’università è infatti, come indica il nome stesso, il luogo dove il pensiero nasce, cresce e matura aperto e sinfonico; non monocorde, non chiuso: aperto e sinfonico. È il “tempio” dove la conoscenza è chiamata a liberarsi dai confini angusti dell’avere e del possedere per diventare cultura, cioè, “coltivazione” dell’uomo e delle sue relazioni fondanti: con il trascendente, con la società, con la storia, con il creato. Afferma in proposito il Concilio Vaticano II: «La cultura deve mirare alla perfezione integrale della persona umana, al bene della comunità e di tutta la società umana. Perciò è necessario coltivare lo spirito in modo che si sviluppino le facoltà dell’ammirazione, dell’intuizione, della contemplazione, e si diventi capaci di formarsi un giudizio personale e di coltivare il senso religioso, morale e sociale» (Cost. past. Gaudium et spes, 59). Già nei tempi antichi si diceva che l’inizio del filosofare è l’ammirazione, la capacità di ammirazione. In questa prospettiva ho molto apprezzato le vostre parole. Le sue, Monsignor Rettore, quando ha detto che «in ogni vero scienziato c’è qualcosa dello scriba, del sacerdote, del profeta e del mistico»; e ancora che «con l’aiuto della scienza non vogliamo solo capire, vogliamo anche fare la cosa giusta, cioè costruire una civiltà umana e solidale, una cultura e un ambiente sostenibili. È con il cuore umile che possiamo salire non solo sul monte del Signore, ma anche sul monte della scienza».
È vero: i grandi intellettuali, infatti, sono umili. Il mistero della vita, d’altronde, si svela a chi sa entrare nelle piccole cose. È bello in proposito quanto ci ha detto Dorottya: «Scoprendo sempre più piccoli dettagli ci immergiamo nella complessità dell’opera di Dio». Così intesa, la cultura davvero rappresenta la salvaguardia dell’umano. Immerge nella contemplazione e plasma persone che non sono in balia delle mode del momento, ma ben radicate nella realtà delle cose. E che, umili discepole del sapere, sentono di dover essere aperte e comunicative, mai rigide e combattive. Chi ama la cultura, infatti, non si sente mai arrivato e a posto, ma porta in sé una sana inquietudine. Ricerca, interroga, rischia, esplora; sa uscire dalle proprie certezze per avventurarsi con umiltà nel mistero della vita, che si sposa con l’inquietudine, non con l’abitudine; che si apre alle altre culture e avverte il bisogno di condividere il sapere. Questo è lo spirito dell’università, e vi ringrazio perché lo vivete così; come ci ha detto il Professor Major, il quale ha raccontato la bellezza di cooperare con altre realtà educative, attraverso programmi di ricerca condivisi e anche accogliendo studenti provenienti da altre regioni del mondo, come il Medio Oriente, in particolare dalla martoriata Siria. È aprendosi agli altri che si conosce meglio sé stessi. L’apertura, aprirsi agli altri è come uno specchio: mi fa conoscere meglio me stesso.
La cultura ci accompagna a conoscere noi stessi. Lo ricorda il pensiero classico, che non deve mai tramontare. Vengono alla mente le celebri parole dell’oracolo di Delfi: «Conosci te stesso». È una delle due frasi-guida che vorrei lasciarvi in conclusione. Ma che cosa significa conosci te stesso? Vuol dire saper riconoscere i propri limiti e, di conseguenza, arginare la propria presunzione di autosufficienza. Ci fa bene, perché è anzitutto riconoscendoci creature che diventiamo creativi, immergendoci nel mondo anziché dominandolo. E mentre il pensiero tecnocratico insegue un progresso che non ammette limiti, l’uomo reale è fatto anche di fragilità, ed è spesso proprio lì che comprende di essere dipendente da Dio e connesso con gli altri e con il creato. La frase dell’oracolo di Delfi invita dunque a una conoscenza che, partendo dall’umiltà, partendo dal limite, partendo dall’umiltà del limite scopre le proprie meravigliose potenzialità, che vanno ben oltre quelle della tecnica. Conoscere sé stessi, in altre parole, chiede di tenere insieme, in una dialettica virtuosa, la fragilità e la grandezza dell’uomo. Dallo stupore di questo contrasto sorge la cultura: mai appagata e sempre in ricerca, inquieta e comunitaria, disciplinata nella sua finitezza e aperta all’assoluto. Vi auguro di coltivare questa appassionante scoperta della verità!
La seconda frase-guida si riferisce proprio alla verità. È una frase di Gesù Cristo: «La verità vi farà liberi» (Gv 8,32). L’Ungheria ha visto il susseguirsi di ideologie che si imponevano come verità, ma non davano libertà. E anche oggi il rischio non è scomparso: penso al passaggio dal comunismo al consumismo. Ad accomunare entrambi gli “ismi” c’è una falsa idea di libertà; quella del comunismo era una “libertà” costretta, limitata da fuori, decisa da qualcun altro; quella del consumismo è una “libertà” libertina, edonista, appiattita su di sé, che rende schiavi dei consumi e delle cose. E quanto è facile passare dai limiti imposti al pensare, come nel comunismo, al pensarsi senza limiti, come nel consumismo! Da una libertà frenata a una libertà senza freni. Gesù invece offre una via d’uscita, dicendo che è vero ciò che libera, quello che libera l’uomo dalle sue dipendenze e dalle sue chiusure. La chiave per accedere a questa verità è un conoscere mai slegato dall’amore, relazionale, umile e aperto, concreto e comunitario, coraggioso e costruttivo. È questo che le Università sono chiamate a coltivare e la fede ad alimentare. Auguro dunque a questa e ad ogni Università di essere un centro di universalità e di libertà, un cantiere fecondo di umanesimo, un laboratorio di speranza. Vi benedico di cuore e vi ringrazio per quanto fate. Grazie tante!
Guarda il video dell'incontro
*************
CERIMONIA DI CONGEDO
A salutare il Papa c’era la presidente della Repubblica Katalin Novák. Con lei il Pontefice si è intrattenuto a parlare per qualche minuto, poi si è avviato verso l'aereo. Lungo il tappeto rosso, steso fino all’aeromobile, un gruppo di persone, fra le quali il seguito locale, la delegazione ungherese e alcuni fedeli.
Subito dopo la partenza in aereo da Budapest, il Santo Padre Francesco ha fatto pervenire alla Presidente della Repubblica, S.E. la Signora Katalin Novák, il seguente telegramma:
SUA ECCELLENZA KATALIN NOVÁK
PRESIDENTE DELL’UNGHERIA
BUDAPEST
NEL LASCIARE L’UNGHERIA A CONCLUSIONE DEL MIO VIAGGIO APOSTOLICO, ESPRIMO ANCORA UNA VOLTA LA MIA PIÙ SENTITA GRATITUDINE A SUA ECCELLENZA, ALLE AUTORITÀ CIVILI E A TUTTI I SUOI CONCITTADINI PER LA CALOROSA ACCOGLIENZA E LA GENTILE OSPITALITÀ. CON LA RINNOVATA ASSICURAZIONE DELLE MIE PREGHIERE, INVOCO SULLA NAZIONE LE BENEDIZIONI DI DIO ONNIPOTENTE PER L’UNITÀ, LA FRATERNITÀ E LA PACE.
*************
Vedi anche il post precedente: