sabato 31 dicembre 2022

PICCOLE COSE IN ALTO SILENZIO - Natale non è facile da capire, è una lenta conquista... In questo giorno di auguri, Dio ci chiede di benedire uomini e storie - MARIA SANTISSIMA MADRE DI DIO - Commento al Vangelo a cura di P. Ermes Ronchi

PICCOLE COSE IN ALTO SILENZIO


Natale non è facile da capire, è una lenta conquista...
In questo giorno di auguri, 
Dio ci chiede di benedire uomini e storie


I commenti di p. Ermes al Vangelo della domenica sono due:
  • il primo per gli amici dei social
  • il secondo pubblicato su Avvenire

In quel tempo, [i pastori] andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia. E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro.
Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore.
I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro.
Quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima che fosse concepito nel grembo. Lc 2,16-21


per i social

PICCOLE COSE IN ALTO SILENZIO

Natale non è facile da capire, è una lenta conquista... 
In questo giorno di auguri, Dio ci chiede di benedire uomini e storie

Otto giorni dopo Natale, lo stesso racconto: Natale non è facile da capire, è una lenta conquista.
Ci disorienta quella nascita, che nella notte divenne un passare di voci che raccontavano una storia incredibile. Da stropicciarsi gli occhi.
È venuto il Messia ed è nel giro di poche fasce, nella ruvida paglia di una mangiatoia. Chi va a cercarlo nei sacri palazzi non lo trova.
Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette dai pastori. E’ lo stupore semplice della fede, mistero di un Dio che sa di stelle e di latte, di infinito e di casa.

Dimentichiamo tutta la liturgia senz'anima che presiede a questi giorni: regali, botti, auguri, sms clonati, luci, per conservare ciò che vale davvero: la capacità di sorprenderci per un bimbo indifeso.
Impariamo da Maria e dal suo silenzio. Da lei che medita nel cuore fatti e parole, da lei impariamo a prenderci del tempo per aver cura dei nostri sogni.
E impariamo il Natale anche dai pastori, che non ce la fanno a trattenere la gioia e lo stupore, ma se ne tornano cantando, leggeri di una felicità mai provata.
Con lei e i pastori, salviamo questo stupore piccolo: il Verbo è un neonato che non sa parlare, l'Eterno è appena il mattino di una vita, l'Onnipotente è un bimbo che sa solo piangere. Dio ricomincia sempre così, con piccole cose e in alto silenzio.

In questo giorno di auguri, le prime parole della Bibbia sono: Il Signore parlò a Mosè e ad Aronne dicendo: voi benedirete i vostri fratelli.
Per prima cosa, che lo meritino o no, voi benedirete. Dio ci chiede di benedire uomini e storie, il blu del cielo e il giro degli anni, il cuore dell'uomo e il volto di Dio.
Benedire è invocare una forza che accresca la vita e la faccia risorgere; vuol dire alzarsi, cercare, trovare, riconoscere il bene che c'è in ogni fratello, per una vita felice, per una vita di pace.
La benedizione non è salute, denaro, fortuna, prestigio, ma è la semplice luce di Dio che ci benedice ponendoci accanto persone dal volto e dal cuore luminosi.

Il Signore ti faccia grazia. Cosa ci riserverà l'anno che viene? Io non lo so, ma so che il Signore mi farà grazia, si chinerà su di me e mi farà grazia di tutti gli sbagli e di tutti gli abbandoni; mi camminerà a fianco, e nelle mie prove si abbasserà verso di me. Qualunque cosa accadrà quest'anno, Dio sarà chino su di me.

Il Signore faccia risplendere per te il suo volto.
Che cosa è un volto che risplende? Poca cosa, eppure essenziale. Perché il volto è la finestra del cuore, e racconta cosa ti abita.
Scopri allora che Dio è luminoso, ritrova nell'anno che viene un Dio solare, ricco non di troni e di leggi, ma il cui più vero tabernacolo è un volto luminoso, una finestra di cielo.

Papa Benedetto, brilli ora per te il volto di Dio. Un Dio dalle grandi braccia e dal cuore di luce.


per Avvenire 
Benedetti da chi ha volto e cuore luminosi (...)

Leggi su Avvenire


«Cerchiamo di imparare il “metodo” di Dio, il suo infinito rispetto, per così dire la sua “gentilezza”, perché nella maternità divina della Vergine c’è la via per un mondo più umano.» Papa Francesco TE DEUM 31/12/2022 (testo e video)

PRIMI VESPRI DELLA SOLENNITÀ DI MARIA SS.MA MADRE DI DIO
E TE DEUM DI RINGRAZIAMENTO PER L'ANNO TRASCORSO

Basilica di San Pietro
Sabato, 31 dicembre 2022



Papa Francesco celebra nella Basilica vaticana i Primi Vespri della SS.ma Madre di Dio con il canto finale del Te Deum di ringraziamento a poche ore dalla morte di Benedetto XVI e nell’omelia lo ricorda con commozione e gratitudine.
Al centro delle parole di Francesco il tema della gentilezza non solo come virtù cristiana ma anche civica che può rendere il mondo più fraterno.

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

«Nato da donna» (Gal 4,4).

Quando, nella pienezza del tempo, Dio si è fatto uomo, non è venuto nel mondo piombando dall’alto dei cieli; è nato da Maria. Non è nato in una donna ma da una donna. È essenzialmente diverso: vuol dire che Dio ha voluto prendere la carne da lei. Non l’ha usata, ma ha chiesto il suo “sì”, il suo consenso. E con lei ha cominciato il lento cammino della gestazione di una umanità libera dal peccato e piena di grazia e di verità, piena di amore e di fedeltà. Un’umanità bella, buona e vera, a immagine e somiglianza di Dio, eppure intessuta con la nostra carne offerta da Maria; mai senza di lei; sempre con il suo consenso; nella libertà, nella gratuità, nel rispetto, nell’amore.

E questa è la via che ha scelto Dio per entrare nel mondo, per entrare nella storia, questo è il modo. E questo modo è essenziale, essenziale quanto il fatto stesso di essere venuto. La maternità divina di Maria – maternità verginale, verginità feconda – è la via che rivela l’estremo rispetto di Dio per la nostra libertà. Lui che ci ha creato senza di noi non vuole salvarci senza di noi (cfr S. Agostino, Sermo CLXIX, 13).

Questo suo modo di venire a salvarci è la via sulla quale pure invita noi a seguirlo, per continuare insieme a Lui a tessere l’umanità nuova, libera, riconciliata. Questa è la parola: umanità riconciliata. È uno stile, un modo di relazionarsi con noi da cui derivano le molteplici virtù umane di una convivenza buona e dignitosa. Una di queste virtù è la gentilezza, come stile di vita che favorisce la fraternità e l’amicizia sociale (cfr Enc. Fratelli tutti, 222-224).

E parlando della gentilezza, in questo momento, il pensiero va spontaneamente al carissimo Papa emerito Benedetto XVI, che questa mattina ci ha lasciato. Con commozione ricordiamo la sua persona così nobile, così gentile. E sentiamo nel cuore tanta gratitudine: gratitudine a Dio per averlo donato alla Chiesa e al mondo; gratitudine a lui, per tutto il bene che ha compiuto, e soprattutto per la sua testimonianza di fede e di preghiera, specialmente in questi ultimi anni di vita ritirata. Solo Dio conosce il valore e la forza della sua intercessione, dei suoi sacrifici offerti per il bene della Chiesa.

Questa sera vorrei riproporre la gentilezza anche come virtù civica, pensando in particolare alla nostra diocesi di Roma.

La gentilezza è un fattore importante della cultura del dialogo, e il dialogo è indispensabile per vivere in pace, per vivere da fratelli, che non sempre vanno d’accordo – è normale – ma che però si parlano, si ascoltano e cercano di comprendersi e di venirsi incontro. Pensiamo solo a «che cosa sarebbe il mondo senza il dialogo paziente di tante persone generose che hanno tenuto unite famiglie e comunità. Il dialogo perseverante e coraggioso non fa notizia come gli scontri e i conflitti, eppure aiuta discretamente il mondo a vivere meglio» (ibid., 198). Ebbene, la gentilezza fa parte del dialogo. Non è solo questione di “galateo”; non è questione di “etichetta”, di forme galanti… No, non è questo che intendiamo qui parlando di gentilezza. Si tratta invece di una virtù da recuperare e da esercitare ogni giorno, per andare controcorrente e umanizzare le nostre società.

I danni dell’individualismo consumista sono sotto gli occhi di tutti. E il danno più grave è che gli altri, le persone che ci circondano, vengono percepite come ostacoli alla nostra tranquillità, alla nostra comodità. Gli altri ci “scomodano”, ci disturbano, ci tolgono tempo e risorse per fare quello che ci piace. La società individualistica e consumistica tende ad essere aggressiva, perché gli altri sono dei concorrenti con cui competere (cfr ibid., 222). Eppure, proprio dentro queste nostre società, e anche nelle situazioni più difficili, ci sono persone che dimostrano come sia «ancora possibile scegliere la gentilezza» e così, con il loro stile di vita, «diventano stelle in mezzo all’oscurità» (ibid.).

San Paolo, nella stessa Lettera ai Galati da cui è tratta la Lettura di questa liturgia, parla dei frutti dello Spirito Santo, e tra questi ne menziona uno con la parola greca chrestotes (cfr 5,22). Ecco, è questo che possiamo intendere per “gentilezza”: un atteggiamento benevolo, che sostiene e conforta gli altri evitando ogni asprezza e durezza. Un modo di trattare il prossimo facendo attenzione a non ferire con le parole o con i gesti; cercando di alleggerire i pesi altrui, di incoraggiare, di confortare, di consolare; senza mai umiliare, mortificare o disprezzare (cfr Fratelli tutti, 223).

La gentilezza è un antidoto contro alcune patologie delle nostre società: un antidoto contro la crudeltà, che purtroppo si può insinuare come un veleno nel cuore e intossicare le relazioni; un antidoto contro l’ansietà e la frenesia distratta che ci fanno concentrare su noi stessi e ci chiudono agli altri (cfr ibid., 224). Queste “malattie” della nostra vita quotidiana ci rendono aggressivi, ci rendono incapaci di chiedere “permesso”, oppure “scusa”, o di dire semplicemente “grazie”. Le tre parole così umane della convivenza: permesso, scusa, grazie. Con queste tre parole si va avanti nella pace, nell’amicizia umana. Sono le parole della gentilezza: permesso, scusa, grazie. Ci farà bene pensare se noi le usiamo spesso nella nostra vita: permesso, scusa, grazie. E così, quando per la strada, o in un negozio, o in un ufficio incontriamo una persona gentile, rimaniamo stupiti, ci sembra un piccolo miracolo, perché purtroppo la gentilezza non è più molto comune. Però, grazie a Dio, ci sono ancora persone gentili, che sanno mettere da parte le proprie preoccupazioni per prestare attenzione agli altri, per regalare un sorriso, una parola di incoraggiamento, per ascoltare qualcuno che ha bisogno di confidarsi e di sfogarsi (cfr ibid.).

Cari fratelli e sorelle, penso che recuperare la gentilezza come virtù personale e civica possa aiutare non poco a migliorare la vita nelle famiglie, nelle comunità, nelle città. Per questo, guardando al nuovo anno della città di Roma, vorrei augurare a tutti noi che la abitiamo di crescere in questa virtù: la gentilezza. L’esperienza insegna che essa, se diventa uno stile di vita, può creare una convivenza sana, può umanizzare i rapporti sociali sciogliendo l’aggressività e l’indifferenza (cfr ibid.).

Guardiamo all’icona della Vergine Maria. Oggi e domani, qui nella Basilica di San Pietro, possiamo venerarla anche nell’effigie della Madonna del Carmine di Avigliano, presso Potenza. Non diamo per scontato il mistero della maternità divina! Lasciamoci stupire dalla scelta di Dio, che avrebbe potuto apparire nel mondo in mille modi mostrando la sua potenza, e invece ha voluto essere concepito in piena libertà nel grembo di Maria, ha voluto formarsi per nove mesi come ogni bambino, e infine nascere da lei, nascere da donna. Non passiamo oltre velocemente, fermiamoci a contemplare e a meditare, perché qui c’è un tratto essenziale del mistero della salvezza. E cerchiamo di imparare il “metodo” di Dio, il suo infinito rispetto, per così dire la sua “gentilezza”, perché nella maternità divina della Vergine c’è la via per un mondo più umano.

Guarda il video dell'omelia


Guarda il video integrale



Vito Mancuso ed Enzo Bianchi commentano l'articolo di Michela Murgia sul Natale

Vito Mancuso ed Enzo Bianchi commentano
l'articolo di Michela Murgia sul Natale



Vedi il post precedente:

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Vito Mancuso
Cara Murgia, tra umano e divino ecco chi è il Dio bambino

L’idealizzazione nasce soprattutto grazie all’invenzione del presepe da parte di San Francesco: così intendeva onorare il Maestro, secondo il quale solo chi si fa piccolo entrerà nel regno dei cieli


Nell'articolo apparso su questo giornale il giorno di Natale Michela Murgia ha accusato in modo piuttosto aspro il cattolicesimo di essere «l’unica tra le confessioni cristiane a infantilizzare il suo Dio». Io penso di capire qual è il suo obiettivo: sono quei cattolici che si commuovono davanti al presepe cantando «Tu scendi dalle stelle» e subito dopo chiudono il cuore davanti a quelle persone che cercano accoglienza perché arrivano dal mare. Quei cattolici che proclamano fervorosamente «Dio Patria Famiglia», ma solo a condizione che si tratti del «loro» Dio, della «loro» Patria, della «loro» Famiglia, svelando così che in realtà il vero interesse è solo ciò che è loro, quindi loro stessi, facendo in questo modo dell’egoismo il valore assoluto. Io penso sia questo l’obiettivo di Murgia e lo condivido, perché anch’io ritengo da sempre che fare del cattolicesimo il guardiano della coscienza egoista dell’Occidente opulento sia un tradimento del messaggio evangelico.
Detto questo, però, il modo con cui Murgia procede per sostenere la sua tesi è tale, a mio avviso, da presentare non pochi problemi sotto il profilo contenutistico sia biblico sia teologico. Argomento la mia affermazione partendo dai problemi più leggeri lasciando alla fine ciò che ritengo veramente grave.

Per quanto concerne l’esegesi biblica Murgia scrive che «nelle Scritture il racconto biblico della nascita di Gesù somiglia più alla trama di un film drammatico». Si tratta di un’affermazione solo parzialmente vera, che vale per il racconto della nascita di Gesù presentato da Matteo ma non per quello di Luca. I due resoconti sono così diversi tra loro da renderne impossibile l’armonizzazione e da dover concludere che le cose in quei giorni andarono o come le racconta Matteo o come le racconta in Luca ...
Nella mente di molti, compresa quella di Murgia, i due racconti si fondono e si confondono, con la poca chiarezza che ne consegue.

Un secondo problema di ordine teologico ed esegetico è dato da questa affermazione di Murgia: «Solo i cattolici hanno compiuto nella persona del Cristo incarnato l’idealizzazione dell’infanzia, costruendo intorno alla sua nascita una retorica di tenerezza zuccherosa priva di riscontro biblico». Qui gli errori sono due: che solo i cattolici avrebbero idealizzato l’infanzia di Cristo e che tale operazione sarebbe priva di supporto biblico. Inizio da quest’ultimo aspetto, affermando che in realtà la tenerezza verso l’infanzia ha diversi riscontri biblici ...
E che non siano stati solo i cattolici a idealizzare l’infanzia di Cristo lo prova per esempio ...
Neppure corrispondono al vero queste altre parole dell’autrice, cioè che «nelle altre chiese di derivazione evangelica la devozione per Gesù neonato – per Maria bambina, di sponda – è praticamente inesistente». In realtà la devozione verso il Bambino e la Madre oltre che nel cattolicesimo è molto presente nell’ortodossia, lo testimoniano sia le icone sia le feste ...

Ma è soprattutto il profilo teologico-sistematico dell’articolo di Murgia a destare come minimo perplessità, laddove si legge: «Dio si è fatto come noi per farci come lui...». La frase descritta in quel modo da Murgia, e che in effetti si trova in un noto canto liturgico, è in realtà uno dei più importanti assiomi teologici di tutti i tempi, coniato da Ireneo di Lione ... Affermare che la frase «Dio si è fatto come noi per farci per farci come lui» sia semplice musica liturgica postconciliare mistificatrice del vero cristianesimo (cercando persino sponda in Benedetto XVI) è davvero qualcosa di molto imbarazzante. Si può credere o non credere nella dottrina cristiana, ma se vi si crede non si può scrivere che il centro dogmatico e spirituale del cristianesimo sia «mistificatorio». ...
Il farsi come noi da parte di Dio (l’umanizzazione) per farci come lui (la divinizzazione) è il cuore concettuale del cristianesimo e costituisce la sua differenza specifica rispetto all'ebraismo, per il quale non è possibile né una umanizzazione di Dio né una divinizzazione dell’uomo, perché Dio è e rimarrà sempre «totalmente altro». Per il cristianesimo, al contrario, tutto si gioca qui: che Dio si è fatto come noi per farci come lui. ...
L’umano è il valore assoluto? Sì, ma solo a patto di essere consapevoli che tale affermazione contiene anche un grande rischio: quello che Friedrich Nietzsche denunciava dicendo «umano, troppo umano». Un cristianesimo che si riduce a essere solo umanità, cioè solo caritas, accoglienza, impegno per il prossimo e i migranti e i diversi, un cristianesimo solo orizzontale, è destinato a diventare come quel sale di cui parlava Gesù dicendo che «perde il sapore e a null’altro serve che a essere gettato via e calpestato dalla gente». È chiaro che il cristianesimo non potrà mai fare a meno di accogliere e di essere dalla parte degli ultimi, tra cui i più indifesi quali i bambini e soprattutto i vecchi. Ma la fonte da cui scaturisce la sua energia non potrà essere unicamente l'umano, ma l’umano unito al divino e il divino unito all’umano.
Un’ultima cosa. Non è vero che è solo il cattolicesimo tra le confessioni cristiane ad aver idealizzato il bambino facendone una tra le più preziose manifestazioni del divino, è vero però che il cattolicesimo ha compiuto tale operazione in modo mirabile, soprattutto a seguito di Francesco d’Assisi che nel 1223 a Greccio a tal fine inventò il presepe. Egli intendeva in questo modo onorare il suo maestro ...

Lo specifico del pensiero di Gesù è l’armonia tra l’umano e il divino, tra il grande e il piccolo, tra l’adulto e il bambino. In questa armonia consiste il cristianesimo e, a mio avviso, anche l’anima della nostra civiltà detta Occidente. Decadente e detestabile per molti aspetti, essa rimane pur sempre il luogo più attento della Terra ai diritti umani, un’attenzione che gli proviene dall’aver creduto per secoli che Dio si è fatto come noi per farci come lui.



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Enzo Bianchi
Il Dio Bambino la nostra memoria

La fede cristiana ci vuole adulti maturi, ma abbiamo paura di stare davanti al Signore nella nostra umanità.  Gesù è nato meglio di come è morto: alla nascita è avvolto in fasce, sulla croce è inchiodato.


“È più facile rendere la divinità bambina che l’umanità adulta…”. Così si concludeva l’articolo di Michela Murgia pubblicato su questo giornale alla vigilia di Natale inducendo il lettore a ripensare la celebrazione della nascita di Gesù e a interrogarsi sulle immagini di Dio che ogni cristiano custodisce nel suo cuore. Certamente Murgia intende contestare una certa idealizzazione dell’infanzia che ha ricevuto molto spazio nella tradizione cattolica, e quindi ridare al Natale tutta la forza che l’evento ricordato contiene, senza per questo sopravvalutarlo.

Ad alcune affermazioni certamente un po’ troppo sbrigative ha reagito Vito Mancuso facendo una rilettura dei testi natalizi e della tradizione cristiana che vive ancora oggi il Natale come una grande festa, molto sentita popolarmente e appartenente alla tradizione dell’occidente. Non voglio assolutamente far polemica, ma, da cattolico assiduo frequentatore delle Scritture, intendo semplicemente partecipare a questo confronto cercando di capire.

Innanzitutto è bene ricordare che gli eventi riguardanti la nascita di Gesù non sono presenti in tutti i vangeli, ma solo in quelli di Matteo e Luca e che sono racconti editi più tardi, e perciò non essenziali alla pienezza della fede cristiana in Gesù Cristo crocifisso e risorto! Anche Paolo l’Apostolo ignora totalmente questi racconti mai presenti nella sua predicazione. È la comunità cristiana che solo successivamente ha sentito il bisogno di riandare anche alla nascita e all’infanzia di Gesù accogliendo tradizioni raccolte nei vangeli dell’infanzia che precedono il tempo degli anni oscuri di Gesù, da dodici a circa trent’anni, quando inizierà la sua missione pubblica come discepolo di Giovanni il Battezzatore avendo raccolto attorno a sé un gruppo di alcuni uomini e alcune donne di Galilea.

Il racconto lucano incentra la preistoria del Messia sulla madre di Gesù, Maria, di cui mette in rilievo la sua verginità, un linguaggio apocalittico per dirci che un uomo come Gesù solo Dio ce lo poteva dare attraverso la potenza del suo Spirito santo. Mentre Matteo vuole soprattutto testificare l’appartenenza di Gesù alla discendenza messianica di Davide, quale re dei giudei che, appena nato, desta l’ostilità dei poteri di questo mondo che lo perseguitano e lo vogliono eliminare. Per Matteo, Gesù riassume in sé la storia del popolo d’Israele entrato e uscito dall’Egitto, salvato prima di essere salvatore. I racconti dell’infanzia di Gesù sono dunque un midrasch, dei racconti teologici che profetizzano la vita e il destino del Messia scritti alla luce della fede Pasquale. Come scrive l’esegeta Raymond Brown: “Il Cristo adulto è retroproiettato a Natale”.

E se la chiesa ha vissuto celebrando la Pasqua e la domenica come giorno del Signore per tre secoli, più tardi, solo nel IV secolo, ha iniziato a fare memoria della nascita di Gesù a Betlemme com’è testimoniata dai vangeli dell’infanzia.

Perciò un cristiano maturo e nutrito dal Vangelo celebra certamente il Natale, ma come memoria di un evento già avvenuto storicamente, avvenuto al tempo di Erode, re della Giudea, e di Augusto imperatore di Roma. Gesù non nasce ora, ma è nato, non si aspetta e non si invoca la nascita di Gesù – sarebbe una regressione psichica e spirituale, anche se purtroppo la si esprime così –, ma si aspetta e si invoca la venuta di Gesù Signore nella sua gloria.

È veramente triste quando si sente dire che a Natale Gesù sta per nascere, impedendo e negando ogni orizzonte escatologico: il cristiano, come sempre hanno affermato i padri, è “colui che aspetta la venuta del Signore nella gloria”. Questo evento ci sta davanti, mentre la nascita a Betlemme è indietro, nel nostro passato.

Dunque a Natale, nella memoria di Gesù che nasce da una donna, Maria, che è adagiato in una mangiatoia, contempliamo l’umiltà, la fragilità, la piccolezza di un Dio che si è fatto umanità, corpo mortale e debole come ciascuno di noi. Già a Betlemme si delinea lo scandalo della croce, dell’abbassamento, dello svuotamento, della kénosis di Dio: ormai non si può più pensare a Dio senza pensare all’uomo, e non si può pensare l’umanità senza pensare Dio. Questo svuotamento, questa povertà, questa debolezza sarà epifania radicale sulla croce: Gesù nudo, maledetto da Dio e dagli uomini, rigettato e condannato è l’autentico e definitivo racconto (exeghésato, cf. Gv 1,18) di Dio, che nessuno ha mai visto e nessuno può vedere se non al di là della morte.

Michela Murgia ha comunque ragione quando denuncia come solo cattolico un culto dell’infanzia di chi poi è cresciuto ed è diventato una persona: né gli ortodossi né i riformati sarebbero capaci di una venerazione di “Maria bambina” o di “Gesù bambino”; altro è fare memoria, altro è venerare! E il presepio è una memoria, bellissima memoria della venuta nel mondo del nostro Dio in un neonato da donna, uno in tutto uguale a noi umani.

Certamente i padri della chiesa ci direbbero oggi: “Non mettete nel presepio in casa vostra le statuine di coloro che sono poveri e che voi lasciate fuori al freddo e senza casa; non allineate davanti alla culla le statuine di quelli venuti da altre terre e da altre culture che voi non accogliete perché stranieri; non ascoltate musiche angeliche per non ascoltare il grido di chi soffre”… Rincresce forse a molti, ma il Vangelo va preso sul serio e non permette ipocrisie perché ama Dio chi ama l’altro, adora Dio chi ha cura dell’altro, loda Dio chi benedice l’altro.

L’umanizzazione di Dio che festeggiamo a Natale la vediamo veramente portata a compimento sul Golgota, sulla croce. Significa anche che diventeremo per grazia, non oggi ma nel Regno, il Figlio di Dio, come scrive Ireneo da Lione: “Diventeremo Dio perché Dio sarà tutto in tutti”. Ma questo osiamo solo sperarlo, e noi cristiani dell’occidente facciamo addirittura fatica a dirlo, pur conoscendo questa affermazione luminosa dei padri orientali.

La fede cristiana ci vuole adulti, cristiani maturi, secondo la Lettera agli Ebrei, ma è vero che è più facile restare immaturi, perché abbiamo paura di stare davanti a Dio nella nostra umanità, come figli e figlie liberi e non come schiavi schiacciati dalle nostre paure.

Gesù è nato come ha vissuto, è venuto al mondo come è stato al mondo. Ma, a ben guardare, Gesù è nato meglio di come è morto: alla nascita è avvolto in fasce, nella passione è spogliato delle sue vesti; nella mangiatoia è adagiato, sulla croce è inchiodato; nasce in una greppia, muore su un patibolo. Alla sua nascita ha accanto madre e padre, sulla croce è abbandonato addirittura da Dio. Don Primo Mazzolari ha colto bene questo contrasto: “Un bambino è un mistero sopportabile, il crocifisso no. Una culla, anche in una greppia è poesia, una croce piantata su un monte è un patibolo”, e denunciava la tentazione dei credenti di sempre, quella di contemplare il Signore dove si sta bene: a Betlemme, a Nazareth, sul monte della Trasfigurazione non sul Golgota.

Pubblicato su La Stampa - 29 Dicembre 2022
(fonte: blog dell'autore)


venerdì 30 dicembre 2022

LA COMPLESSITÀ DEL DIO BAMBINO È UNA PROVOCAZIONE NON SOLO PER LA FEDE

CARA MURGIA, LA COMPLESSITÀ DEL DIO BAMBINO
È UNA PROVOCAZIONE NON SOLO PER LA FEDE


Il teologo Gilfredo Marengo replica alla riflessione della scrittrice che ha sostenuto che “i cattolici amano un Dio Bambino perché rifiutano la complessità”: «Quel Bambino e la sua Famiglia sono il segno, inatteso e inimmaginabile, dell’agire salvifico di Dio tra gli uomini, da secoli atteso, ma che si compie in una forma assolutamente nuova e impensabile»

Il teologo Gilfredo Marengo
In molte parti d’Italia si usa dire che un fatto dalla brevissima vita dura – appunto - “da Natale a Santo Stefano”. È il destino che appartiene nel nostro tempo a molti dibattiti che diventano d’un tratto protagonisti nello scenario della comunicazione e che, per la loro esile consistenza, appena accesi già si spengono. Così si può dire di quanto si sta agitando intorno alle affermazioni della scrittrice Michela Murgia secondo la quale la commozione davanti al Presepe, dove Gesù Bambino nasce, sarebbe il segno che la fede cattolica non è capace di misurarsi con la complessità dell’esistenza e del mondo. Suggerire quanto sia urgente per la vita dei cristiani lasciarsi provocare da tale complessità è sempre utile e non lo si fa mai abbastanza.

Prendere pretesto dal Presepe è ingenuo o superficiale. Il prossimo anno si celebreranno gli ottocento anni dalla sua “invenzione” per opera di San Francesco: è arduo accusare il Santo di Assisi di vivere una fede zuccherosa e incapace di misurarsi con i drammi della storia. È legittimo non apprezzare alcuni canti liturgici, ma converrebbe non dimenticare che il Poverello ha testimoniato che non per modo di dire “Dio si è fatto come noi per farci come Lui”: lo si vede, però, nei segni delle stimmate dove il Santo “diventa” come quel Bambino, ormai uomo fatto, morto in croce per la salvezza del mondo.

Il fastidio di fronte a qualunque “retorica zuccherosa” è sempre da condividere; ma ci si può chiedere se essa sgorghi dal Presepe o non piuttosto da una sensibilità, oggi pervasiva, in cui la perdita della memoria dell’evento che ci fa festeggiare il Natale, lo riduce a luci, canzoncine e pacchetti di regali pieni di stelline luccicanti.

Certamente si può leggere la vicenda della Sacra Famiglia tenendo sul fondo dello sguardo le storie di emigrazione, violenze ed emarginazione che segnano drammaticamente il nostro presente.

Allo stesso tempo, non sarebbe inutile guardare il Presepe con lo sguardo di Giuseppe, commosso per un Figlio che non era suo, nato da una donna che era sua moglie, ma da amare secondo modi mai prima conosciuti, ultimamente divini. Quel Bambino e quella Famiglia (Sacra) era il segno, inatteso e inimmaginabile, dell’agire salvifico di Dio tra gli uomini, da secoli atteso, ma che si compiva in una forma assolutamente nuova. La commozione, lieta e drammatica, del Falegname di Nazareth non ha nulla di zuccheroso ed è desiderabile per ciascuno di noi anche oggi.
(fonte Famiglia Cristiana, articolo di Gilfredo Marengo 28/12/2022)

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Per comprendere meglio la riflessione del teologo Gilfredo Marengo 
 
Michela Murgia
I cattolici amano un dio bambino perché rifiutano la complessità

La storia della Sacra Famiglia è ricca e difficile: racconta di migranti, schiavi, povertà. Assomigliare alla divinità non è alla nostra portata. È umano soffrire, sbagliare, perdere.


Il cattolicesimo è l'unica tra le confessioni cristiane a infantilizzare il suo Dio.

Non è raro vedere chiese, ospedali e ordini religiosi intitolati a un Bambin Gesù di cui nel Vangelo non c'è traccia, oltre la nascita. Tanto meno gli evangelisti hanno scritto sull'infanzia di Gesù ...
Nelle altre chiese di derivazione evangelica la devozione per Gesù neonato - o per Maria bambina, di sponda - è praticamente inesistente e le poche eccezioni, come il Bambino di Praga, restituiscono l'immagine di un infante mistico, per nulla tenero, un'inquietante miniatura d'adulto ... 

Solo i cattolici hanno compiuto nella persona del Cristo incarnato l'idealizzazione dell'infanzia, costruendo intorno alla sua nascita una retorica di tenerezza zuccherosa priva di riscontro biblico. Nelle Scritture il racconto della nascita di Gesù somiglia infatti più alla trama di un film drammatico, sebbene cominci da un innesco piuttosto banale, di quelli in cui potremmo presto o tardi incappare tutti: si parte da un viaggio scomodo intrapreso per obbligo burocratico imposto dal governo. ... 
I protagonisti sono un padre che cerca di far fronte agli imprevisti, una madre stremata e un bambino ignaro che finirà oggetto di una caccia all'uomo perché frainteso come aspirante al trono dal re complottista di quella piccola colonia dell'impero, perché meno è il potere che si ha, più si ha paura di perderlo. A passare da cittadini obbedienti a profughi a volte basta un attimo, eppure non si era partiti male. La famiglia di Nazaret era modesta, ma non indigente ... 
Non c'è razzismo in chi respinge, non c'è odio, nessun problema personale né ideologico: Giuseppe e Maria finiscono senza tetto per un fatto puramente tecnico e del tutto ragionevole. In quelle pagine evangeliche una donna partorisce per terra in una stalla in mezzo agli animali, ma chiunque può dire sereno «non è colpa mia». ... 
                                                                                                                                                                      
Perché mai di questa vicenda così piena di colpi di scena e cose spaventose, dove la posta in gioco è la vita stessa e tutto può andar perduto in un attimo, ci è rimasta attaccata alla fantasia solo l'icona della capanna (anzi della capannina) splendente e magica, degli angeli (anzi angioletti), che cantano la pace santa e dei pastori (anzi, pastorelli) che recano doni al bambino (meglio, al bambinello) che dovrebbe rappresentare la sacralità intoccabile delle nostre famigli(ole) al sicuro? Dio si è fatto come noi per farci come lui, recita il verso di un noto canto d'Avvento ... 

Anche se gli analisti tratteranno spesso pazienti convinti del contrario, diventare come Dio non è alla nostra portata. Dio si è fatto come noi perché ha preso sul serio il nostro essere umani, tutti: il padre, la madre, il bambino, l'albergatore, il pastore, il re complottista, la sua guardia e il primo egiziano che ha offerto un lavoro a Giuseppe profugo. Umano è obbedire a un potere che governa con la forza. Umano è chiedere riparo se viaggi e altrettanto lo è chiedere dei soldi in cambio, ma è umano anche non avere più posto da dare nonostante i soldi. Umano è temere che un altro ti porti via quel che hai, fino a puntargli una spada contro, ma lo è anche lasciare una patria per salvare la vita che quella spada sta minacciando. Umano è tutto quello che ci costringe ad abitare la contraddizione, che è sempre un posto scomodo. 

Se l'unica incarnazione che ci commuove è quella del neonato, è perché è più facile rendere la divinità bambina che l'umanità adulta davanti alle sue contraddizioni.



NATALE 2022 - MATTEO ZUPPI: Ecco la bellezza di Natale: l’amore di più di Dio che ci ama e ci insegna a non avere paura di amare. (Testo e video)

NATALE 2022 - MATTEO ZUPPI
Ecco la bellezza di Natale:
 l’amore di più di Dio che ci ama 
e ci insegna a non avere paura di amare.  
(Testo e video)
Card. Matteo Zuppi,
Bologna - 24 e 25 dicembre 2022




Omelia della Notte di Natale

La fede descrive il Natale come una notte splendida di luce e di chiarore. Il Vangelo racconta la storia drammatica di due forestieri costretti da un editto che arriva da lontano a mettersi in cammino. E a diventare così forestieri. Essi trovano solo un rifugio di fortuna perché non c’era posto. Come pensare il Natale notte di amore, di sentimenti buoni quando c’è tanta sofferenza, quando si è perduti in un mondo ostile o indifferente? “Non c’è posto”.

Semplicemente: senza spiegazioni, come un cartello esposto a chi cerca casa, a volte disperatamente, in cui c’è scritto che “non si affitta a forestieri”. Non c’è posto in una fila senza fine e senza diritto davanti ad un Ufficio che decide il tuo futuro. Non c’è posto davanti un porto chiuso o in una pratica che resta inevasa troppo a lungo. “Non c’è posto” è l’affermazione minacciosa che ammonisce da lontano ma che non convince chi è disperato per la fame o per l’Erode della guerra. Cosa faccio anche se so che lì non c’è posto? Lo cerco lo stesso, a tutti i costi, ma con tanti rischi. E sono migliaia quelli che l’unico posto che trovano è in fondo al mare. Perché non c’è posto?

Spesso perché non si vuole avere problemi e il nostro io occupa sempre tutto lo spazio, ha paura delle difficoltà da affrontare, tanto che si inizia ad avere paura di tutti. E poi non c’è posto perché “abbiamo fatto il possibile”. Certo, se a cercare il posto fossimo noi, o dovessimo farlo per qualche nostro familiare, lo troveremmo e scopriremmo che ce n’è tanto e che poi, in realtà, staremmo meglio tutti. C’è posto nelle tante case mezze vuote, nei paesi disabitati, nei cuori sfaccendati che finiscono, quindi, per appassionarsi di quello che non crea problemi, che non vale, ma anche che non può dare amore. Diceva un saggio Vescovo siriano che anche Caino voleva bene ad Abele ma amava di più se stesso.

“Non è importante che tu ami molto”. Importa che tu “ami di più”. Di più delle paure, delle convenienze, delle misure. L’amore ama sempre di più. L’amore preferisce l’altro a se stesso perché lo ama e non può perderlo. “Il fatto di amare veramente qualcuno non significa che lo amiamo molto, ma che lo amiamo, anche poco, ma più di noi stessi”. Quando si ama, l’amore per sé trova senso nell’amore per l’amato e questo è sempre di più delle proprie paure, tanto che ci spinge a fare cose che non faremmo. Ecco la bellezza di Natale: l’amore di più di Dio che ci ama e ci insegna a non avere paura di amare. Dio non manda altre spiegazioni da applicare, delle istruzioni intelligenti come tanti maestri che porgono interpretazioni, ma senz’amore. Pieni di paure come siamo, cerchiamo una sicurezza che ci protegga, tanto che alla fine non siamo mai sicuri. L’unica sicurezza di Gesù è l’amore. Dio si affida totalmente perché ama.

Il Vangelo di Giovanni in maniera laconica afferma: “Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui eppure il mondo non lo ha riconosciuto. Venne tra la sua gente e i suoi non lo hanno accolto”. Come è possibile che l’atteso non sia riconosciuto? Perché la paura rende il prossimo un rischio, un peso e non si riconosce, quello che pure aspettiamo e di cui abbiamo bisogno. Quando non c’è posto si condanna l’altro ad andare in “non posti”, dove non sei nessuno. Oggi Dio ci porta tutti lì, a Betlemme, e lì non avremo più paura di accogliere chi è come Maria e Giuseppe. Sono dei forestieri che ci portano Gesù! I non posti li vediamo oggi in quelle prigioni dove si viene anche torturati e condannati a morte solo per le proprie idee o semplicemente perché forestieri, senza valore.

I non posti sono dove la persona non è riconosciuta, dove la fragilità la rende oggetto indifeso e a disposizione dell’arbitrio. Betlemme sono le città e i villaggi bombardati dalla follia della guerra ma anche i luoghi di sofferenza, di solitudine, di abbandono dei vecchi. Dio non trova posto e Lui si lascia deporre in questi non luoghi, privi di umanità, perché, d’ora in poi, sappiamo cercare e riconoscere in essi la sua presenza.

Dove c’è Gesù quel luogo diventa il nostro e il Natale, allora, nel dramma della vita minacciata e vulnerabile, un inno di pace, pieno di luce, popolato da angeli che cantano la riconciliazione tra la terra e il cielo: “Pace agli uomini che egli ama”. È la pace che vogliamo arrivi nelle trincee di una guerra folle e criminale, nelle case dell’Ucraina bombardate vigliaccamente, negli ospedali distrutti per far soffrire maggiormente il nemico (la pietà davvero è morta), nelle case senza luce e riscaldamento. Diamogli posto, accogliendoli nel nostro cuore e nelle nostre case!

Natale ci aiuta a comprendere che la via di Dio, e quindi verso Dio, non ci conduce verso l’alto bensì, in maniera molto reale, verso il basso, verso i piccoli. Partiamo proprio dalle fragilità per riconoscerci umili, vulnerabili come siamo, come in questo Natale di guerra. Pieghiamoci a gesti piccoli verso i fragili per disarmare tanta rabbia, per stemperare l’odio, per incoraggiare le cose belle, perché, come ha detto una persona cui la vita ha strappato le persone più care, “bisogna solo far venire fuori il bello e il buono che è in ognuno di noi”. Dipende da noi se facciamo tutti i giorni quello che ci viene fatto da Dio a Natale e ci vuole fare nell’ultimo avvento!

A Betlemme si forma un’altra famiglia: intorno alla debolezza, non alla forza, amica dei piccoli, generosa, attenta, non si risparmia, povera per rendere ricchi gli altri di cuore. Ecco la vera bellezza del Natale che illumina tutta la vita e che nessuno può spegnere. Nasciamo anche noi con Gesù. Abbiamo trovato Dio che ci viene a cercare.

Apriamo il cuore e sentiamo la grandezza del suo amore! Dio ha speranza nel mondo, in ognuno di noi, e noi siamo grandi perché amati e lo diventiamo quando amiamo. Andiamo a Betlemme! Andiamo con la preghiera e con la solidarietà in Ucraina o nei tanti luoghi di violenza e di morte, di solitudine e di paura. La preghiera nutre la solidarietà e viceversa. Forse non potremo fare molto, ma nei nostri semplici gesti di attenzione ai piccoli si vede la luce del Natale e inizia ad essere sconfitta la notte drammatica del mondo.

Vieni, Tu che ci prepari un posto nella tua casa del cielo. Vieni, Tu che hai fiducia anche se trovi le porte chiuse. Insegnaci a vincere le paure e a stringere relazioni di amore con tutti e di ogni età. Vieni a ricordarci la sofferenza di chi non trova posto come te. Vieni perché non ci abituiamo mai alla violenza e alla guerra, non ci rassegniamo al conflitto e con insistenza chiediamo il dono della pace. Vieni perché possiamo rinascere con Te.

E anche nella durezza della vita possiamo rinascere con Te come persone ricche di misericordia e di speranza. Vieni, semplicemente vieni, perché abbiamo bisogno di Te e sentiamo la forza del tuo amore. Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama.

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Omelia Giorno di Natale

Ringrazio di cuore Dio per la bellezza così umana e divina del Natale. Contempliamo il senso della nostra piccola e sperduta storia, importante e preziosa perché amata dal Signore. Noi contiamo i nostri giorni a partire da Cristo. Ricordiamoci che anche l’ultimo dei nostri giorni sarà suo, vedremo il suo avvento.

Il Natale è sempre sorprendente e non smettiamo di contemplare questo mistero di amore. In questo senso siamo sempre dei bambini. E questo ci fa bene, perché ci libera dalla tentazione della sapienza dei grandi ai quali resta nascosto il segreto del Regno. Possiamo restare gli stessi dopo il Natale? Se lo usiamo come uno dei tanti prodotti per nutrire il nostro io non resta nulla, perché l’io senza l’amore è sterile, conserva la vita, non la cambia! Il suo amore chiede amore, lo comprendiamo per davvero solo aprendoci all’amore e mettendolo in pratica, facendolo diventare carne, come Lui si è fatto presenza in mezzo a noi.

Natale non è una dichiarazione ma corpo. Il segreto del Natale è il dono: anche lo stesso autore della vita non può fare a meno di donarla. Dio non vuole restare solo e ci cerca perché ci ama e impariamo ad amare Lui e il prossimo per davvero. La nostra generazione è indotta compulsivamente a pensare a sé, ad esaltare il proprio io mettendolo al centro, a possedere, ad avere e così poco ad essere (perché sono alternativi in realtà!), chiamando amore quello che non lo è, tanto che non diventa legame.

«L’uomo può accettare se stesso solo se è accettato da qualcun altro. Ha bisogno dell’esserci dell’altro che gli dice, non soltanto a parole: è bene che tu ci sia. Solo a partire da un “tu”, l’”io” può trovare se stesso. Solo se è accettato, l’“io” può accettare se stesso. Chi non è amato non può neppure amare se stesso», disse Papa Benedetto XVI.

Ecco il senso del Natale: Dio facendosi carne (che amore è quello che resta virtuale, da remoto, e non diventa concreto?) ci dice che siamo un bene, che ci ama, che la nostra vita è importante per Lui. Questo ci cambia! Come facciamo a restare uguali? Lui si apre a noi e noi apriamogli il cuore! Gli uomini che non sanno amare cercano quello che pensano sia il loro interesse o lasciano che sia solo un’esperienza. Dio cerca il nostro cuore per abitarci: non fa lezione di amore, ci ama! Ecco la bellezza del Natale. Ieri sera l’ho capito con tanta intensità celebrando due funzioni che sono molto collegate tra loro, potremmo dire come fossero i due lati dello stesso altare dell’Eucarestia.

Qui in Cattedrale abbiamo condiviso il pane del cielo con tanti fratelli e sorelle, in comunione con tutte le nostre comunità unite nel vincolo di amore. Il Signore che nasce senza un posto prepara proprio Lui un posto per noi in cielo, e la santa Liturgia ci aiuta a contemplarlo. L’altro lato dell’altare è stata la celebrazione alla stazione, insieme a tanti fratelli che come Gesù non trovano posto, restano all’aperto, per strada, deposti nelle tante mangiatoie della povertà, della fragilità umana, che Dio non solo non condanna, ma riveste del suo amore.

Eravamo con i fratelli più piccoli di Gesù, senza dimora, profughi che cercano casa, vecchi lasciati fuori dalla vita e sradicati dal loro contesto, i tanti feriti nelle pieghe del loro cuore, quelli che bussano alle nostre porte e ci ricordano che siamo tutti fratelli. Se non siamo “tutti” non siamo nemmeno “noi”. Ecco, è lo stesso Natale di Dio che contempliamo qui nella casa del cielo e negli incroci della città degli uomini. Chi si apre a Dio, lo ospita nel suo cuore e ospita i forestieri.

Allora in cosa ci cambia il Natale? Ci fa sentire amati, tornare bambini per davvero, non per un po’ di nostalgia o un buon sentimento che finisce presto, confrontati con la vita vera. È amore che cambia la vita perché è di Dio e perché è amore fortissimo. Non solo l’uomo non è un’isola ma il mondo intero non è un’isola, perché tutto pieno dell’amore di Dio! Per questo siamo Fratelli Tutti e possiamo noi aiutare Dio già con la nostra gentilezza verso tutti, con la solidarietà verso i poveri, donando luce con la nostra fede. Questo è un Natale che si confronta come non mai con le tenebre. Lo abbiamo capito con la pandemia quanto è forte il male! E forse capiamo anche quanto l’amore è vero e diventa carne in noi.

Il vangelo che è stato proclamato è l’inizio di una nuova creazione. Ci viene dato il potere di diventare anche noi figli di Dio non per il sangue né per volere di carne, ma solo per la grazia, cioè l’amore gratuito, da Dio generati. A noi viene data la stessa madre di Gesù. Dalla mangiatoia sulla quale viene deposto alla croce dalla quale verrà deposto nella tomba per farci nascere alla vita eterna. Dalla croce, la fine della sua vita, Gesù ci affida sua madre per essere anche noi suoi e perché lei diventi nostra madre. Attraverso di lei siamo come Gesù, apparteniamo al suo regno, alla nuova creazione.

Certo, viviamo ancora immersi nella vecchia creazione e ci dobbiamo confrontare drammaticamente con le tenebre che cercano di spegnere la luce della vita. La creazione soffre, geme, misurandosi continuamente con il suo limite che vuole superare, alla ricerca di futuro, di speranza. La vita di ogni persona è sempre e tutta un’attesa! Il presente non basta a nessuno ed è disumano pensarlo: cerchiamo tutti e sempre il futuro, anche se a volte in modo davvero complicato. La vita cerca quella che non finisce. Quando pensiamo di vivere solo nell’oggi, e quindi siamo preoccupati solo di noi, restiamo insoddisfatti, dobbiamo consumare molto ma alla fine non risolviamo affatto il problema della vita. “In un primo momento pare che ci manchi solo qualcosa: più tardi ci si accorge che ci manca Qualcuno”, commentava don Primo Mazzolari.

Cristo è questo Qualcuno. Ma noi che restiamo sempre nella vecchia creazione viviamo già la nuova. Ecco la grandezza del Natale. Oggi vediamo il Signore che consola il suo popolo. Oggi siamo suoi non per il sangue, né per volere di carne, ma solo per la sua grazia. E se siamo suoi amiamo Lui e come Lui. Chi fa le cose per amore suo le fa solo per amore, libero da convenienze, calcoli, furbizie. Facciamo le cose per amore di Gesù, nel suo nome, e le faremo per amore vero, santo, cioè non perfetto, ma di Dio. E questo non finisce.

In questo primo Natale di guerra in Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale, apriamogli il cuore liberandolo dalle abitudini, dalle presunzioni, dalle paure, dagli orgogli, per non essere tra i suoi che non lo hanno accolto. Perché a quanti lo hanno accolto, cioè gli hanno aperto il cuore, Dio continua a dare il potere di diventare figli di Dio e con il suo perdono ci restituisce il vestito più bello: essere figli, essere suoi. Siamo figli e quindi fratelli. Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi. Trova lui un posto per noi! La sua gloria diventa la nostra forza e adesso non abbiamo paura di amare per essere figli di un Dio che nasce per noi e ci dona la sua forza. La luce della nostra vita rifletterà quella del Natale, inizio del suo regno di amore senza fine.

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Vito Mancuso: Dimissioni in bianco, l’umiltà di Bergoglio e gli uomini capaci di rinunciare al proprio ego

Vito Mancuso
Dimissioni in bianco, l’umiltà di Bergoglio
e gli uomini capaci di rinunciare al proprio ego

Pubblicato su La Stampa 19 dicembre 2022


DIMISSIONI PAPA

Che cosa significa per un essere umano dimettersi? Che cosa dimostra a se stesso e agli altri chi si dimette da una carica affidatagli o conquistata in prima persona? A mio avviso dimostra di considerare la carica, e quello che essa rappresenta, più importante di sé. Le dimissioni sono quindi in primo luogo un atto di umiltà. Ma non è solo questione di umiltà, ancor più lo è di intelligenza, perché le dimissioni dimostrano consapevolezza, rivelano cioè la capacità di saper prendere coscienza del proprio effettivo rapporto con il mondo reale. 

Ogni lavoro consiste in una trasformazione del mondo. Il mondo è davanti a noi e lavorare significa trasformarlo: o come pranzo da preparare, o come indagine da condurre, o come motore da aggiustare, o come paziente da curare o come mille altre forme, tra cui quella di una millenaria organizzazione di uomini e idee da guidare. L’oggetto di ogni lavoro è un pezzo di mondo che spetta a noi trasformare. Più in particolare, lavorare con profitto significa trasformare la parte di mondo a noi affidata in un mondo migliore. Il lavoro riuscito consiste in un’immissione di energia ordinata nella porzione di mondo di cui siamo responsabili, che passa così da uno stato più caotico a uno più ordinato. L’oggetto del nostro lavoro attende da noi di essere salvaguardato dall’incessante imperversare dell’entropia, di essere protetto e custodito dalla nostra intelligenza e dalla nostra dedizione impedendo che il caos riprenda il sopravvento, così che la porzione di mondo affidata alla nostra cura sia sempre più simile a un giardino ordinato e rispecchi l’idea di cosmo che sempre rimanda a bellezza (cosmo, cosmesi, cosmetico). 

Ma tutto questo comporta una precisa condizione di possibilità di realizzazione del lavoro: la superiorità del soggetto rispetto al pezzo di mondo affidatogli, superiorità da intendere come capacità di incidere. E sempre per questo, quando tale capacità viene meno, sfuma anche immediatamente la possibilità di svolgere fruttuosamente il lavoro ed è quindi saggio dimettersi. Capirlo non è così semplice, perché esige un particolare distacco da sé, quello in cui propriamente consiste l’amore.

L’amore infatti è dedizione così totalizzante all’oggetto amato da coincidere con il superamento di sé. Il falso amore è il contrario: è asservimento, spesso ossessivo, dell’altro a sé. Chi ama veramente comprende che c’è qualcuno o qualcosa più importante di sé. E per questo si dedica a questo qualcuno o qualcosa lavorando con onestà e dedizione ed è anche nella condizione di capire quando la dedizione richiede il suo distaccarsi. I grandi uomini sono coloro che capiscono da sé quando non sono più grandi. Quando cioè sono meno forti rispetto a quello che il mondo si attende da loro. Capire il venir meno della grandezza è un segno altissimo di grandezza. E la mente, di fronte a esseri umani così, genera quella particolare devozione intellettuale che si chiama stima. Viceversa, di fronte a coloro che non comprendono di non essere più in grado di svolgere il proprio lavoro e continuano senza esserne all’altezza, o peggio ancora lo comprendono ma continuano fingendo di esserlo per amore del potere, la mente genera un sentimento opposto, cioè il disprezzo, non privo di derisione (la pietas consiglia di non proporre esempi concreti). Si dà anche una terza possibilità: quando, come nel caso di Giovanni Paolo II, chi non si dimette lo fa per una tale dedizione alla missione ricevuta da essere sacrificio, il che può costituire qualcosa di lodevole a livello soggettivo ma ha sempre gravi conseguenze al livello oggettivo del lavoro che attende di essere svolto (e fu capendo questo di sé, e non senza aver visto da vicino le conseguenze dell’assenza di governo degli ultimi anni del papa polacco, che Benedetto XVI si dimise). 

Quando un grande uomo si dimette dalla sua carica compie quello che la sapienza indù indicò molti secoli mediante il celebre detto sui quattro stadi della vita umana: il primo è dedicato all’imparare, il secondo al lavorare, il terzo al ritirarsi a contemplare nella foresta, il quarto infine al mendicare. La ruota della vita prevede per tutti un momento di ascesa rappresentato dall’imparare, un momento di ascesa ulteriore quando si mette a frutto ciò che si è imparato mediante il lavoro, un momento di distacco quando si capisce di non avere più le forze necessarie per lavorare ma si mantengono tuttavia le forze per governare se stessi e ripensare alla vita, e infine un quarto doloroso e inevitabile momento quando le forze non sono più neppure sufficienti per governare se stessi e si è costretti ad affidarsi ad altri, a “mendicare”. Capire che la vita presenta questi tempi e adattare noi stessi con umiltà e intelligenza a tale temporalità significa aver appreso l’arte del vivere, la più difficile e la più preziosa delle arti. 

Il fatto che Papa Francesco già nel 2013 al momento dell’elezione avesse consegnato al Segretario di Stato la lettera delle proprie dimissioni in caso di incapacità fisica a svolgere il lavoro per il quale era stato eletto, indica nel modo più chiaro la grandezza umana di Jorge Mario Bergoglio. Come pontefice egli può piacere o non piacere, sicuramente più di altri attira simpatie e antipatie nel mondo e più ancora nella Chiesa, ma penso sia impossibile non riconoscere in lui una forte e al contempo umile personalità, laddove la forza e l’umiltà si dimostrano nel suo aver trovato qualcosa di più importante di sé dedicandosi a esso con attenzione e passione continua. 

Norberto Bobbio disse un giorno che la vera differenza non è tra chi crede e chi non crede ma tra chi pensa e chi non pensa: in questa prospettiva io vorrei riscrivere la sua affermazione dicendo che la vera differenza non è tra chi crede e chi non crede ma tra chi vive per qualcosa più grande di sé e chi invece non sa superare se stesso. 
Dimettersi significa anzitutto avvertire che esiste qualcosa più importante di sé. Non dimettersi continuando a rimanere attaccati a un ruolo rispetto a cui non si è più all’altezza significa al contrario mostrare il proprio sconfortante e ridicolo egoismo, o anche uno spirito di sacrificio ben poco produttivo. Anche nell’essere fin da subito pronto alle dimissioni Papa Francesco mostra di essere fedele al nome che si è scelto. Francesco d’Assisi infatti, non appena l’ordine da lui fondato assunse una configurazione militante divenendo strumento di potere nelle mani della Chiesa, si dimise dalla sua guida. Capiva che non aveva le forze e i sentimenti per il ruolo di amministratore del potere. E dimettendosi, giunse a quella libertà interiore che gli permise di scrivere “Il cantico delle creature”, una delle pagine più belle della letteratura universale. Il che è logico: solo chi conosce l’arte di dimettersi dal proprio ego giunge a ospitare quella libertà da sé che lo conduce a farsi voce degli altri, del sole, del fuoco, del vento, dell’acqua, della terra, anche della morte, scorgendo in ogni cosa un motivo per benedire. 
(fonte: sito dell'autore)


giovedì 29 dicembre 2022

Il cristianesimo è un inno alla vita e non al dolore - Intervista a Enzo Bianchi di Antonio Gnoli

"...E il mio canto di Natale per i poveri"
Enzo Bianchi 
Il cristianesimo è un inno alla vita e non al dolore 
   

Intervista a Enzo Bianchi di Antonio Gnoli

La Repubblica "Robinson" - 24 Dicembre 2022

Tre anni sono trascorsi da quando Enzo Bianchi non è più a Bose, nella comunità che ha fondato e governato. Un esilio che somiglia a un editto medievale. Tre anni è anche il tempo di una pandemia che ancora viviamo, con meno angoscia ma con eguale preoccupazione. La natura umana ha la capacità di lenire le ferite, ridimensionare i drammi, curare i traumi. Il tempo è una buona misura per chiudere questioni che si credevano insanabili. E quelle dell'ex priore di Bose? Rivedo Enzo Bianchi. La sua energia che convoglia nella parola mi sembra immutata. Come immutata è la scrittura, diretta e forte. Ha da poco pubblicato un piccolo libro per il Mulino Cosa c'è di là. Una meditazione su che cosa ci aspetta, ammesso che si creda. So che questa nostra conversazione uscirà il giorno di vigilia. E' giusto così. E' giusto per quel giorno pensare ai miracoli. Iosif Brodskij, nelle Poesie di Natale scrive che i miracoli sono «attratti dalla terra, serbano gli indirizzi, anelando talmente a svolgere la prescritta funzione, da giungere a destinazione perfino nel deserto». Ma forse il miracolo più grande, commenta Bianchi, è riconoscere il proprio peccato.

Ti è accaduto di peccare?

«Certo, ma senza cadere mai in quelli che io giudico i peccati gravi».

Quali?

«I peccati contro i poveri, i peccati di ipocrisia di certi ecclesiastici e poi i tradimenti tra fratelli».

Mi fai pensare alla tua vicenda personale.

«Non potrei onestamente prescinderne, anche se volessi».

Ti sei ritirato nella tua terra di origine, il Monferrato.

«Non è stato facile, una prova ulteriore vissuta nella solitudine».

A un monaco la solitudine non dovrebbe pesare.

«Ho sempre pensato che la solitudine è una condizione che richiede la presenza degli altri. Altrimenti si è soli. E vulnerabili».

Pensi a Bose?

«Come potrei non farlo. È un lungo tratto di strada compiuto. Ora che si avvicina il Natale rammento cosa fu la faticosa conquista di una gioia desiderata».

Faticosa perché?

«Ripenso ai primi Natali, me bambino. La povertà, io che a otto anni perdo la mamma. L'attesa del Natale era un misto di speranza e tristezza. Facevo il presepe con le figurine, la carta e la colla. La stessa povertà, o meglio essenzialità, la vissi nei primi anni a Bose. Natali con poche persone e il duro lavoro per far crescere la comunità. Solo negli ultimi anni quell'evento si è arricchito di presenza umana. Preparavo il pranzo – ho sempre amato cucinare - per un'ottantina di commensali. C'erano fratelli e sorelle e le tante persone sole con cui condividere la gioia dell'attesa».

La gioia di cui a volte parli non è solo spirito, non è solo preghiera.

«Si prega in tanti modi e lo spirito senza il corpo cosa sarebbe? Cosa sarebbe senza gli altri. Non può esserci un Natale senza vera condivisione».

Il prossimo anno compirai 80 anni. Che tempo pensi di vivere?

«È un'età per me faticosa».

Il sottotitolo del tuo nuovo libro è "Inno alla vita". L'hai vissuta con pienezza?

«Pienezza significa appunto non lasciare fuori niente: le delusioni e la gioia, le amarezze e il rinascere. Quello che si è stati e ciò che diventiamo. L'inno alla vita, più che un punto finale somiglia a un esclamativo. Bene. Vediamo cosa c'è dopo».

Grande questione. Leggendoti ti ho percepito fiducioso.

«Come potrei non esserlo. Lo dico da cristiano».

Come immagini questo "oltre"?

«Da bambino ero perplesso o meglio angosciato ogni qualvolta mi parlavano dell'aldilà».

Cosa ti turbava?

«Era come se quel tempo senza fine fosse occupato interamente dalla contemplazione beata del divino. Un'immagine che provocava in me una forte angoscia,tanto più acuta in quanto evidente era il mio rifiuto di distaccarmi dalla vita terrena. Te lo vedi un bambino dentro questo fotogramma? Col tempo ho ricomposto l'immagine».

Vi hai messo più colore o cosa?

«Vi ho introdotto la convinzione che una vita vera non è fatta solo di rinunce e sacrifici, ma ispirata a un grande insegnamento: per capire chi siamo non bisogna disprezzare il mondo, ma amarlo e lasciarsene attrarre».

Non c'è il rischio di fraintendere questo amore così terreno?

«Il rischio, l'errore, il peccato ci sono sempre. Ma quello che intendo ribadire è l'indissolubile legame tra spirito e corpo. Il corpo vive dello spirito e non c'è spirito senza il corpo. Come monaco per tutta la vita mi sono sforzato di sentire questo abbraccio con la natura. Con il bosco,la terra gli animali. E quando avverto una tale sensazione comprendo il senso della comunione che è più della semplice solidarietà. E tutto ciò mi induce a sospettare di aver scritto e pensato troppo».

Cosa te lo fa supporre?

«In questi anni finali mi sembra di aver accentuato l'attenzione alle cose più semplici della natura. Mi sorprendo davanti agli alberi e a volte mi pare spontaneo parlare con essi, e resto incantato dalle erbe aromatiche, dai fiori, dall'animale selvatico che mi attraversa la strada. C'è una profondità di destino in tutto questo che mi commuove. Non pensavo di potere amare la terra così intensamente da giungere a formulare il comandamento "ama la terra come te stesso"».

Non è una forma di spinozismo?

«Non è panteismo il mio né idolatria. Davvero, amo questa terra perché vengo dalla terra e ritornerò ad essa e sento un grande debito verso la natura».

E come se rivestissi la speranza di foglie e di rami, di vento e di aria.

«Beh, la grande speranza è quella che ritrovo nella Bibbia quando dice che ci saranno un cielo e una terra nuovi e che in questo mondo nulla andrà perduto ma tutto sarà trasfigurato».

Qual è la forza capace di trasfigurare tutto questo?

«La identifico nell'amore, un sentimento che non mi ha mai abbandonato e che ha dato senso alla mia vita, soprattutto nell'incontro con le vite degli altri. Ti confesso che non rimpiango nulla perché tutto quello che ho fatto l'ho vissuto fino in fondo».

Avverto come un'amarezza dalle tue parole, come se — e vi accennavamo prima — questo amore fosse stato messo a dura prova dal tradimento e dalla slealtà.

«Credo che quello che ciascuno ha vissuto non possa essere dimenticato. Anche quando perdoniamo, la ferita resta dentro di noi. E terribile riconoscere che l'amore possa essere tradito, ma è destino dell'amore che, anche quando è tradito, possa continuare a esistere e non debba essere smentito. Dopotutto, è la grandezza dell'amore umano: ci offre l'opportunità di vincere sulla condizione negativa della morte. E vincere dunque anche sul tradimento. Non lo cancella ma lo vince anche quando non si riesce a contenere il dolore che ci provoca».

Questo tuo accenno al dolore vorrei spostarlo su un altro piano. Tutto il tuo discorso è un grande inno alla vita. Ma quando la vita sta finendo, tu dici, e lo dico con parole elementari e dirette, non è giusto affidarsi al dolore, alla sua illusoria grandezza.

«Mi sento distante da un'interpretazione dolorista del cristianesimo. Penso che il dolore e le sofferenze siano insensate. E in fondo dove c'è una persona - un uomo o una donna - che soffre, lì si è chiamati a starle accanto, spesso senza parole, perché le parole possono essere inadeguate, ma sapendo che la resistenza al dolore, il combatterlo, è una battaglia di umanesimo e di cristianesimo. Se non fossimo capaci di affrontare questa battaglia, non saremmo neppure capaci di compassione. Ecco, per dirla in maniera più diretta, occorre attraversare il dolore dell'altro senza sublimarlo, ma contrastarlo per renderlo almeno sopportabile».

E questo vale anche per il fine vita?

«Non può essere un'eccezione, per quanto alla fine possa sembrare di esserla».

Spiegati.

«Perché l'uscita dalla vita deve essere un'esperienza così dolorosa? E da questo interrogativo che sorge un'ulteriore domanda: perché si continua a chiedere di morire presto?».

La risposta tu la dai in "Cosa c'è di là", quando scrivi che "il dolore è inumano e per questo non oso condannare chi si suicida o chiede di essere aiutato a porre fine alla sofferenza".

«Sono profondamente convinto che occorra morire conservando la propria dignità».

Le tue posizioni hanno suscitato molti contrasti nella Chiesa. E recentemente, sulle colonne di questo giornale nella rubrica del lunedì, hai sottolineato il rischio di un cattolicesimo senza cristianesimo.

«Quell'articolo lo ricordo bene, una specie di corollario del libro che tu hai citato e che indica un'urgenza attorno a dei temi su cui è calato il silenzio. Nel mondo cattolico c'è molta etica e l'etica se la danno gli uomini. Il cristianesimo non può essere ridotto a un'esperienza etica. Amo una formula un po' paradossale: il cristianesimo è una religione che richiede l'uscita dalla religione, è la speranza che la morte non sia la fine di tutto».

Non ti sembra che sia anche responsabilità della Chiesa farsi carico dei problemi sociali?

«Mi sembra ovvio ribadirlo. Guai se il cristianesimo non fosse profetico verso l'ingiustizia e l'oppressione. Ma il suo messaggio non può ridursi a questo. In quanto cristiani abbiamo la capacità e il dovere di chiedere libertà, uguaglianza, fraternità. Sono i valori già espressi dall'illuminismo. Ma la speranza che la morte non sia l'ultimo approdo, l'ultima parola, è l'essenza stessa del cristianesimo. E allora la domanda: Chiesa chi tu sei? Non basta il decalogo di come bisogna vivere eticamente e moralmente, a questa altezza si resta a livello della legge. Si resta a livello dell'uomo in grado di accogliere questa visione anche senza Dio».

Mi ha sorpreso una frase del tuo libro: "Non oso neppure far entrare nei miei pensieri Dio, questa parola che più divento vecchio più sento insufficiente, addirittura ambigua".

«Fino a quando il cristianesimo non divenne una religione di stato, grosso modo durante il terzo secolo, i padri della chiesa sostenevano che Dio fosse una parola insufficiente. Noi di Dio non sappiamo nulla».

La Bibbia mostra il contrario.

«La Bibbia ci dà un'immagine remota di Dio. Il racconto diretto di Dio è fatto da un uomo che è Gesù di Nazareth. E quel racconto ci mostra che non si può dire Dio senza l'uomo e l'uomo senza Dio. Quando ho scritto che Dio è una parola ambigua intendevo dire che è usata da tutte le religioni e può cambiare da cultura a cultura. Il Dio che immagino io potrebbe essere molto diverso da quello che immagini tu».

Qualche mese fa è uscita nella collana dei Millenni di Einaudi la Bibbia da te curata con nuove traduzioni e nuovi commenti. Su quel libro inesauribile cosa è stato edificato?

«E uno dei pilastri della cultura occidentale. Una specie di grande codice da cui attingere. Ma non è un semplice libro, perché in esso convivono numerosi testi composti nell'arco di un migliaio di anni da autori, anche geograficamente, lontanissimi: dall'Iraq a Roma. Considero la Bibbia la grande biblioteca dell'umanità, all'interno della quale c'è l'insegnamento riassunto dai Vangeli per cui, al di là della morte, c'è la speranza riguardo al nostro destino. Avevo 11 anni quando mi fu regalata una Bibbia. La leggo quasi tutti i giorni e vi trovo solide ragioni per sperare in un dialogo continuo con gli altri. Leggerla mi fa sentire come un viandante che ancora cammina sulla terra nella prossimità degli ottant'anni».
(fonte: blog di Enzo Bianchi)