venerdì 28 ottobre 2022

DI CHE COSA STAVATE DISCUTENDO PER LA STRADA? Lettera pastorale dell'Arcivescovo Don Mimmo Battaglia

DI CHE COSA STAVATE
 DISCUTENDO PER LA STRADA?
 Don Mimmo Battaglia,
arcivescovo di Napoli
Lettera pastorale 2022/2023


Di che cosa stavate discutendo per la strada? 
Chiamati da Dio a servizio del mondo 

1. «In quel tempo Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: il Figlio dell'Uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà. Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo» (Mc 9,30-32). 

Più chiaro di così Gesù non poteva essere. E quella non fu neanche l'unica volta, anche in altri momenti il Maestro si era pronunciato con questa franchezza. Più di una volta anziché fare ricorso al linguaggio certamente più dolce e più rassicurante delle parabole, era andato giù dritto al nocciolo della questione, al cuore del messaggio, senza troppi fronzoli, senza giri di parole: «mi uccideranno». Come dire: io capisco che questo vi scandalizza, che questa idea di un Dio che va verso il fallimento non coincide con la vostra immagine di Dio, che il vostro sogno messianico stride con il progetto che vi sto proponendo, ma se voglio essere fedele fino in fondo al sogno di Dio di cieli nuovi e terre nuove sarà inevitabile che io paghi sulla mia pelle l'incarnazione di questo Sogno. Ma non è uno sprovveduto il Maestro, ecco perché «non voleva che alcuno lo sapesse» che attraversavano la Galilea: senza troppo clamore, insomma, senza dare troppo nell'occhio. Certo, non finirà tutto lì, non vinceranno i suoi detrattori, non sarà il male ad avere il sopravvento, ma quando tu non riesci a vedere al di là dei tuoi orizzonti, quando neanche la tua fede ti è da supporto nei momenti di maggiore difficoltà, tu la realtà preferisci non affrontarla nella sua crudezza e nella sua drammatica chiarezza. Qualcosa dice che tutto si risolverà, che «il Figlio dell’uomo […] dopo tre giorni risorgerà», dice Gesù, ma non sembra essere questo in discussione: il problema è come si arriverà al terzo giorno, il problema è l’esperienza del fallimento, del silenzio, è l'assenza, è il non senso attraverso cui Lui, dice, si deve necessariamente passare. E però, dice Marco, «essi non capivano queste parole».... Eppure sono chiare, il messaggio di Gesù non lascia spazi a fraintendimenti. La verità è che loro quelle parole le hanno capite fin troppo bene. I discepoli lo hanno capito eccome che seguire il Maestro va molto aldilà della semplice adesione a un messaggio religioso, e che invece significa mettersi totalmente in discussione: mettere in discussione le proprie abitudini, le relazioni, la propria vita, il rapporto con Dio, l'idea stessa di Dio. Attraverso quell’esperienza totalmente umana che Gesù gli sta chiedendo di accettare e condividere, quella piccola comunità teme di aver capito che in Gesù di Nazareth, Dio sta chiedendo loro una fede adulta e che questo diventare adulti, per usare le parole di Dietrich Bonhoeffer, «ci conduce a riconoscere in modo più veritiero la nostra condizione davanti a Dio. Dio ci dà a conoscere – scrive ancora Bonhoeffer in “Resistenza e resa” – che dobbiamo vivere come uomini capaci di far fronte alla vita senza Dio. Il Dio che è con noi è il Dio che ci abbandona (Mc 15, 34)! Il Dio che ci fa vivere nel mondo senza l’ipotesi di lavoro “Dio”, è il Dio davanti al quale permanentemente stiamo. Dio si lascia cacciare fuori dal mondo sulla croce, Dio è impotente e debole nel mondo e appunto solo così egli ci sta al fianco e ci aiuta.
È assolutamente evidente, in Mt 8, 17, che Cristo non aiuta in forza della sua onnipotenza, ma in forza della sua debolezza, della sua sofferenza! Qui sta la differenza decisiva rispetto a qualsiasi religione. La religiosità umana rinvia l’uomo nella sua tribolazione alla potenza di Dio nel mondo. 
La Bibbia, invece, rinvia l’uomo all’impotenza e alla sofferenza di Dio: solo il Dio sofferente può aiutare» (1) . Insomma, una rivoluzione copernicana nel rapporto con Dio. E invece la verità è che non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire. Anzi, a volte forse è bene non capire, o far finta di non capire. Ecco perché i discepoli «... avevano timore di interrogarlo», perché avevano paura della risposta, o meglio, avevano paura che la risposta di Gesù potesse confermare quello che in fondo avevano già capito ma che era troppo difficile da accettare. A volte è bene non farsi troppe domande, non porsi troppi problemi. Lo sappiamo bene che se ci guardiamo attorno, se ci lasciamo interpellare dalle sfide di un mondo che cambia, di questa società in continua trasformazione ci sarebbe davvero tanto da mettere in discussione, davvero tante sarebbero le domande a cui dare nuove risposte e tante prassi date come acquisite una volta per sempre da dover invece rimettere in gioco. Se in fondo stiamo bene come stiamo, se un equilibrio lo abbiamo trovato, certo con i suoi limiti, le sue contraddizioni, ma pur sempre raggiunto – e qui mi riferisco non solo alla nostra vita personale, al nostro percorso di fede, ma anche alle nostre attività pastorali, alla nostra vita ecclesiale – perché impelagarci in domande difficili, perché scomodare quesiti complicati tanto più che non sempre abbiamo le risposte a portata di mano e gli esiti certi? E perché avventurarci in strade nuove, nuovi percorsi, sperimentazioni pastorali che chissà dove potrebbero portarci?
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Dignità Battesimale
4. Non è mio intento scomodare le tantissime pagine del Magistero o impelagarmi in chissà quali riflessioni teologiche, mi sembra però evidente che se vogliamo parlare di Conversione sinodale degli organismi di partecipazione non ci si può limitare a qualche piccolo aggiustamento o a generiche esortazioni moraliste a una maggior collaborazione per sgombrare invidie e gelosie dai nostri rapporti. Si tratta innanzi tutto di ridare centralità al tema dell’uguaglianza nella dignità battesimale.
 «Il sacerdozio ministeriale – scrive ancora il Papa nella Evangelii gaudium – è uno dei mezzi che Gesù utilizza al servizio del suo popolo ma la grande dignità viene dal battesimo» e quindi – aggiunge Francesco – «quando parliamo di potestà sacerdotale ci troviamo nell’ambito della funzione, non della dignità e della santità». E poi il passaggio che ritengo uno dei più decisivi e determinanti anche per questa nostra riflessione: «nella Chiesa le funzioni non danno luogo alla superiorità degli uni sugli altri (…). Anche quando la funzione del  sacerdozio ministeriale si considera gerarchica occorre tenere ben presente che è ordinata totalmente alla santità delle membra di Cristo» (EG 104). E qui mi sembra che ritorna ancora una volta alla luce l'immagine dello “stare in mezzo” (e “non sopra”) da parte del Risorto. Ecco perché il Papa quando parla della Chiesa usa sempre il plurale, lo stile del noi, e ne parla sempre come unico «soggetto dell’evangelizzazione» (EG 30), certo «sotto la guida del suo vescovo» ma come «comunità di discepoli missionari che prendono l’iniziativa, che si coinvolgono, che accompagnano, che fruttificano e festeggiano» (24). Per Francesco «i laici sono semplicemente l'immensa maggioranza del popolo di Dio. Al loro servizio c’è una minoranza: i ministri ordinati», leggo ancora dalla Evangelii gaudium (102); i laici rappresentano la dimensione costitutiva della Chiesa con un’enorme responsabilità nell’evangelizzazione, che talvolta però viene limitata, dice ancora il Papa, «a causa di un eccessivo clericalismo che li mantiene (i laici) al margine delle decisioni» (EG 102). Cosa che vale ancor di più per il ruolo della donna la cui presenza nella Chiesa deve essere «più incisiva» soprattutto «nei diversi luoghi dove vengono prese le decisioni importanti» (EG 103). 
Ci hanno battezzati laici
In una lettera del 19 marzo 2016 al Cardinale Marc Ouellet, Presidente della Pontificia Commissione per l’America Latina, il Papa scriveva che «tutti facciamo il nostro ingresso nella Chiesa come laici. Il primo sacramento, quello che suggella per sempre la nostra identità e di cui dovremmo essere sempre orgogliosi è il battesimo». E però, aggiungeva, «non possiamo riflettere sul tema del laicato ignorando una delle deformazioni più grandi (che l’America latina deve affrontare), il clericalismo. Questo atteggiamento non solo annulla la personalità dei cristiani, ma tende anche a sminuire e a sottovalutare la grazia battesimale che lo Spirito Santo ha posto nel cuore della nostra gente. Il clericalismo porta ad un’omologazione del laicato. Trattandolo come mandatario limita le diverse iniziative e sforzi e, oserei dire, le audacie necessarie per poter portare la Buona Novella del vangelo a tutti gli ambiti dell’attività sociale e soprattutto politica. Il clericalismo, lungi dal dare impulso ai diversi contributi e proposte, va spegnendo poco a poco il fuoco profetico di cui l’intera Chiesa è chiamata a rendere testimonianza nel cuore dei suoi popoli, il clericalismo dimentica che la visibilità e la sacramentalità della Chiesa appartengono a tutto il popolo di Dio”. E, conclude il Papa: “nessuno è stato battezzato prete, né vescovo. Ci hanno battezzati laici ed è il segno indelebile che nessuno potrà mai cancellare. Ci fa bene ricordare che la Chiesa non è una élite dei sacerdoti, dei consacrati, dei vescovi, ma che tutti formano il santo popolo fedele di Dio»  (4) .

Etica del dialogo
5. Il tema dell'uguaglianza battesimale, operazione necessaria per uscire dalle strettoie di un modello di Chiesa ancora molto centrato sul clero, mi sembra richiami contestualmente la necessità di trasformare le relazioni e rivedere il come si fa comunità. Sono partito da un brano del vangelo, mi sono poi soffermato su alcuni passaggi magisteriali, ma devo dirvi che sono affascinato dalla strada, dalla “odò”, e vi confesso che la cattedra alla quale io cerco di imparare tutti i giorni è quella della strada, della vita della gente, del rapporto con le persone. Io penso che sia la strada, la quotidianità delle persone, e quindi le relazioni personali il luogo teologico per eccellenza, e non può che essere una “etica del dialogo” il luogo a partire dal quale elaborare una conversione sinodale degli organismi di partecipazione. Ecco perché ritorno a dire in conclusione che è lo “stare in mezzo” e non sopra o defilati, lo stile intorno al quale operare questa conversione. Porto sempre con me una bellissima immagine su come intendere la comunità che si trova in uno scritto di don Tonino Bello, l’indimenticabile vescovo di Molfetta. Nelle “Linee programmatiche di impegno pastorale 1986-87” dal titolo “Insieme per camminare”, don Tonino scriveva: «Non ci sentiamo strumenti inseriti nella coralità di una orchestra. Eseguiamo, forse anche alla perfezione, ognuno il proprio spartito: ma i suoni si accavallano senza comporsi mai nell’armonia del concerto. Diamo prova di bravura personale, non di organicità collettiva. Esibiamo scampoli di virtuosismo, ma non prove di virtù. Col risultato tragico che spesso sperimentiamo: ogni volta che si annulla l’avverbio ‘insieme’, si annulla anche il verbo ‘camminare’. Se vogliamo, perciò camminare, dobbiamo metterci ‘insieme’. Riscopriremo il gusto dell’impegno, il sapore della lotta, la percezione della crescita, il coraggio dei gesti audaci, l’ottimismo non solo della ragione ma anche quello della volontà» (5) . Possiamo pure costruire comunità perfette, efficienti, dove tutto ruota alla perfezione, ognuno a suonare al meglio il proprio strumento dal proprio spartito, gli altri potranno dirci che siamo bravi, capaci, che abbiamo parrocchie e diocesi organizzatissime. Ma sarà solo l'armonia di una coralità a far passare il sogno del vangelo.
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