Il merito e il desiderio
salgano in cattedra
insieme ai nostri prof
di Massimo Recalcati
pubblicato su "La Stampa" - 12.09.2022
Dopo due anni di profonda alterazione delle sue pratiche e delle sue abitudini dovuta all’emergenza sanitaria, la Scuola italiana riapre senza mascherine, senza distanziamento, senza più l’angoscia dell’infezione. In campagna elettorale diversi partiti hanno giustamente promesso un aumento degli stipendi agli insegnanti (tra i più sottopagati dell’Unione europea) e un ritorno diffuso al tempo pieno per favorire le classi lavoratrici e i ceti sociali più disagiati. La retribuzione degli insegnanti non è solo un fatto imprescindibile di equità economica, ma anche la giusta e dovuta valorizzazione sociale del loro ruolo. In una società abbagliata dal mito del successo facile, dell’affermazione di sé che prescinde dagli altri, dal misconoscimento dell’importanza della conoscenza, dell’arte malevola della scorciatoia di fronte alla necessità di cammini lunghi, la Scuola ricorda ostinatamente la fatica e la gioia della prova come essenziali in ogni processo di formazione. Nel loro lavoro quotidiano gli insegnanti sono chiamati a fare esistere ancora un discorso educativo che invece il nostro tempo tende a rendere sempre più superfluo schiacciandolo sotto il dominio del culto del denaro e della celebrazione della propria immagine.
La fatica e la gioia della Scuola sono invece i fondamenti primi di ogni processo di formazione.
La fatica è quella dei nostri figli devono sperimentare: non tutto è possibile, l’esistenza degli altri (docenti e compagni) è costitutiva e non può essere soppressa, ma è fonte di allargamento dell’orizzonte del mondo, la lingua unica della propria famiglia non è la sola lingua possibile ma esistono tante altre lingue. La gioia è quella del riuscire a superare individualmente le prove, dell’acquisire saperi nuovi, nel contribuire a costruire una comunità coi propri pari, a fare esperienza di incontri sorprendenti di amore di e di sapere. Sappiamo come la comunità della Scuola possa esporre anche alla frustrazione e al disagio, ma questo è ciò che testimonia la dimensione necessariamente collettiva della vita umana. Questa dimensione non è infatti un’astrazione o solo un luogo di alienazione, ma può essere anche una esistenza concreta fatta di incontri che cambiano la vita.
È questo il cuore segreto della Scuola, quello che non può apparire nei calendari, nei programmi, nei consigli di classe o nelle procedure di valutazione e nei suoi numeri. Se per i nostri figli la tentazione più grande può essere quella di considerare la Scuola tempo perso o fatica inutile, se la loro preoccupazione può essere quella di non vedere negli occhi della Scuola, il proprio futuro perché questo futuro appare incerto, pieno di insidie, privo di prospettive, ecc, la tentazione più grande degli insegnanti è quella di farsi consumare dal proprio lavoro, di perdere l’entusiasmo, di smarrire la loro vocazione. Accade talvolta anche ai migliori. Se il lavoro nella scuola diviene un ripiego, una frustrazione di ambizioni differenti, o, più semplicemente, se un insegnante non ritrova più un senso in quello che fa, rischia di venire meno il motore del desiderio che è a fondamento della formazione.
Ogni valutazione meritocratica sul corpo docente dovrebbe innanzitutto partire da questo dato: esiste nell’insegnante un desiderio vivo di sostenere il proprio ruolo? Se, per esempio, un docente si limita a seppellire la sua classe di insufficienze, non dovrebbe, anziché lamentarsi dei suoi allievi, chiedersi quale sia la propria responsabilità nel provocare un tale disastro didattico? Solitamente, in questi casi, il desiderio di occupare quella posizione desiderante, ha lasciato il posto ad altri atteggiamenti. Ecco perché il tema della meritocrazia deve trovare posto nella scuola di domani. Certamente esiste un serio problema di come si debba valutare il merito di un insegnante, su quali principi, attraverso quali dispositivi, ecc, ma il tema in sé resta inaggirabile. Diversamente la lotta contro la meritocrazia affossa la scuola verso il basso, la stagnazione, l’immobilità, il tran tran senza passione, la routine senza desiderio. La stragrande maggioranza degli insegnanti italiani interpreta il proprio ruolo con grande responsabilità e passione, ma conosciamo i danni di chi invece parassita impunemente la Scuola.
Se il compito più alto della Scuola non è quello di trasmettere nozioni, ma di formare cultura democratica, bisogna ricordare che la democrazia non è l’appiattimento delle differenze, non è cancellazione della fatica della prova, non è soppressione del merito. Tutto il contrario. Esistono figli che vengono parcheggiati nelle nostre scuole e che non hanno alcuna intenzione di applicarsi seriamente allo studio, come esistono insegnanti che si trovano ad insegnare senza averne alcun autentico desiderio. L’incrocio di queste due tendenze genera una miscela fatalmente distruttiva. Si tratta di contrastare attivamente questa doppia inclinazione. Trovare gli strumenti più adeguati senza ignorare il problema e senza arroccarsi in difese corporative. La meritocrazia non è una panacea, ma uno strumento che punta a preservare la possibilità e il rigore simbolico della prova senza il quale non c’è alcuna formazione possibile. Né per gli allievi, né per i loro docenti.