Andrea Grillo
Sindrome Zelig e politica della maglietta
Il caso è certo singolare: un leader politico italiano, che si reca al confine tra Polonia e Ucraina, nel corso di un gravissimo conflitto bellico, viene accolto dal sindaco del paese polacco di confine con un breve discorso, sulla gravità della situazione umanitaria di accoglienza delle decine di migliaia di profughi e con la esibizione di una maglietta, con la effigie di Putin con berretto militare, rinfacciata pubblicamente come indumento indossato a suo tempo dal politico italiano, da cui la frase conclusiva: “Nessun rispetto per lei”. In modo clamoroso la guerra porta a galla la logica distorta e perversa di un modo di fare politica che si riduce a “inseguire il consenso”. E che il politico italiano ha incarnato, negli ultimi anni, nella forma più paradossale e scandalosa.
Come funziona la cosa? E’ molto semplice. Il politico si spoglia delle sue vesti istituzionali e diventa, di volta in volta, ciò che l’interlocutore vuole che sia: se vai a Mosca indossi la maglietta di Putin, se Trump vince le elezioni, metti il cappellino dei Repubblicani, se visiti i cacciatori, ti vesti come se andassi a caccia, se vai dai pescatori ti compri la canna da pesca, se vai dalla protezione animali, ti accompagna un grazioso cagnolino e se parli agli industriali, diventi un imprenditore rampante. A ciascuno dici quello che vuole sentire e cavalchi, di volta in volta, i sentimenti prevalenti. Se c’è la pandemia giri senza mascherina, ma se viene carnevale, ti mascheri in modo ostentato.
Come uno Zelig della politica, ottieni una visibilità per imitazione, diventando un mero accidente imitativo, rinunciando alla sostanza. Così sposi sostanzialmente di volta in volta quello che passa, e lasci cadere, come una contingenza superflua, quel minimo di coerenza che renderebbe degna la tua funzione. Qui, come è evidente, si svolge, in forma clamorosa, una parabola di decadenza politica, che in Italia ha assunto la sua forma più spudorata con la nascita di Forza Italia e con Berlusconi “presidente operaio”. Il modello “originale” non è Salvini, ma Berlusconi. Che però, a differenza di Salvini, aveva e ha i soldi. E quindi ha potuto governare la “sindrome Zelig” in modo meno sguaiato, anche se con effetti più dirompenti. Svuotare la politica di idee e inseguire semplicemente gli umori del momento è una tentazione per tutti. Però, a lungo andare, la promessa di “un milione di posti di lavoro” o il paragone tra il “grande Putin e il piccolo Mattarella”, o anche la “abolizione della povertà” si assomigliano tutte come “illusioni per ottenere consenso”.
Ciò che Salvini ha introdotto, a differenza della iperstilizzazione politica di Di Maio, è questa “foga imitativa”, che si applica direttamente al corpo. Si deve ricordare, infatti, che questa “ossessione per il camuffamento” non è diminuita nella fase in cui Salvini è stato ministro degli Interni. Ogni viaggio istituzionale (e quanti ne ha fatti da ministro!) era una occasione per indossare una nuova divisa, per mettere un diverso cappello, per identificarsi in un diverso “corpo”. Così alla deriva andreottiana di Di Maio corrisponde la deriva zelighiana di Salvini. Entrambe le derive sono molto rischiose: la prima perché, prima o poi, sotto il vestito impeccabile può apparire il “niente”: soprattutto in tempo di guerra il vestito non assicura il monaco. La seconda perché a furia di cambiare vestito, ti dimentichi la sequenza e ti incarti. E, paradosso dei paradossi, anche nella scena della più grande infamia, accanto al Sindaco che ti mostra la maglietta con volto sorridente del Putin, anche lì, in Polonia, vicino a migliaia di profughi, ti presenti con la “giacca sponsorizzata” della Olimpiadi di Cortina. E’ più forte di te e non ne esci.
Aver indossato il volto di Putin sul proprio cuore resta un grande simbolo ideale, anche se tu lo vivi come marketing politico. Una volta associato il tuo corpo ad un altro corpo, ad un volto, ad un ideale, è difficile correre in difesa di coloro che quella simbolica la vivono, ovviamente, capovolta. Mantenere una certa distanza, evitare le identificazioni simboliche di parte, è necessario all’arte della politica. Che non è sporca solo se riesce in questo difficile mestiere di lavorare sulle differenze e sulle distinzioni, per assicurare spazi di mediazione e di gestione dei conflitti che non portino alle guerre (militari, sociali, etiche, generazionali, territoriali, amministrative). Se di guerra ferisci, di guerra perisci.
La scena del sindaco che srotola la maglietta davanti ad un Salvini complensibilimente umiliato è un momento che non deve essere inteso solo come “nemesi storica” e come “legge del taglione”: ricevi, o Salvini, con gli interessi quello di cui per anni hai abusato in vista di un consenso superficiale. Non è solo questo: è il rivelarsi improvviso e scandaloso di una politica miope, che attraversa tutto il campo politico, che vive di improvvisazioni, di “adesioni immediate” senza spessore, e che si illude che si possa fare politica senza esserne “professionisti”. In quella maglietta srotolata, nella quale la politica “perde ogni rispetto”, c’è una grande parabola, che dice: se pensi di fare politica solo cavalcando le grandi emozioni, le stesse emozioni, dopo qualche momento, tornano su di te e ti mangiano vivo. Le magliette con gli slogan o con i volti non si addicono ai politici veri.
Il rispetto per le istituzioni è il vero nodo. Non si rispettano le istituzioni, parlamentari e di governo, se si associano immediatamente ad una “parte”. Il Ministro dell’Interno non si veste né da poliziotto, né da carabiniere, né da finanziere, né da operaio, né da minatore, perché deve restare diverso da ogni parte per tutelare davvero tutti. Così mi pare giusto evocare anche il Salvini “senza maglietta”, il famoso salvini alla spiaggia. E far memoria delle parole con cui la figlia di Aldo Moro ricordava come suo padre, anche alla spiaggia, andasse sempre “in giacca e cravatta”. Diceva, “per rispetto delle istituzioni che rappresento”. Il trasformismo delle magliette è una “raccolta di consenso immediato” che come un boomerang si traduce, qualche tempo dopo, nelle parole dure, ma inevitabili, con cui ti senti dire, da uno sconosciuto sindaco al confine tra Polonia ed Ucraina, che esibisce il simbolo di una identità imbarazzante: “Nessun rispetto per lei”. Ciò che avevi pensato uno strumento di consenso diventa il simbolo di una contraddizione tra la “pace che vuoi portare” e i “simboli di cui ti sei coperto”. L’intenzione buona e i simboli della identificazione spensierata col nemico fanno guerra in te e tu ne sei la prima vittima. Solo senza memoria è possibile vivere così. Ma la memoria, negli altri, rimane. E chiede rispetto. Soprattutto durante una guerra.
(fonte: Come se non 9 marzo 2022)
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