Mons. Giancarlo Bregantini
Arcivescovo di Campobasso-Bojano
Più cuore nelle mani
I trent’anni della Giornata del malato ci ricordano che non basta curare o somministrare vaccini. Bisogna metterci il cuore.
«Mettici più cuore in quelle mani!». Così si rivolse san Camillo de Lellis a un giovane che vedeva svogliato nell’assistere i malati. I suoi malati. E il santo fremeva, perché capiva che non basta dare le mani all’ammalato, cioè offrire una medicina o un vaccino, ma occorre dare il cuore. E ciò riguarda sia la cura delle persone sia quella delle cose, poiché il grido dei poveri e il grido della Terra sono intimamente associati, come ci insegna la Laudato si’. Il mese di febbraio resta il mese della tenerezza per quell’attenzione agli infermi che ci viene riproposta dalla Giornata del malato, istituita ormai trent’anni fa, da papa Giovanni Paolo II, l’11 febbraio 1982.
Ero cappellano, allora, del Centro traumatologico ospedaliero di Bari. Fu una vera sorpresa, quella giornata. Comprendemmo subito che vi era dentro la passione di quel Papa che aveva tanto sofferto, in seguito al tragico attentato del 13 maggio 1981 in piazza San Pietro. La corsa rapidissima all’ospedale Gemelli, la trepidazione del mondo intero, la catena incessante di preghiera e la grandezza di un Papa che seppe annunciare il Vangelo della speranza anche dal suo letto di dolore, rendendolo un pulpito di parole vere. Così avviene per ogni ammalato. Specie ora, nel tempo di una pandemia che sembra non finire mai.
Il Papa nel suo messaggio per la giornata di quest’anno raccoglie in primo luogo la forza crescente di trent’anni di esperienza, accanto al letto degli ammalati. Di anno in anno, è cresciuta questa sensibilità, che si è fatta stile sociale e politico di prossimità. Per questo, il Papa rilancia il tema della misericordia, imparando da Gesù sulle strade della Galilea: «Insegnava nelle loro sinagoghe, annunciando il Vangelo e guarendo ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo» (Mt 4,23).
Lo stesso fanno gli apostoli, sempre vicini alla sofferenza, al carcere, fino al martirio. La malattia, infatti, produce una tremenda sensazione di isolamento, di paura e una dolorosa fatica spirituale, che rischia di bloccarci nella sofferenza. Scrive il filosofo Emmanuel Lévinas, nella citazione che ne fa il Papa: «Il dolore isola assolutamente ed è da questo isolamento assoluto che nasce l’appello all’altro, l’invocazione all’altro». Perciò è sempre più necessario versare sulle ferite l’olio della consolazione e il vino della speranza.
Ricordo anch’io, nei giorni in cui mi fu sostituita la valvola mitralica all’ospedale di Trento, la forza che mi diede quell’infermiere che, passando di lì per caso mentre entravo in sala operatoria, mi prese la mano con tenerezza, finché la fiducia prese il posto della paura. Ecco, di questa mano abbiamo immenso bisogno, anche nella realtà dei nostri preti che operano con zelo nelle corsie ospedaliere. Ogni stanza è un mondo a sé, ogni ammalato richiede ascolto, sguardo nel cuore, in una prossimità personalizzata. È la più bella eredità che mi ha lasciato l’esperienza di tre anni di cappellano all’ospedale di Bari.
Ed è proprio su questa base che, nei mesi più acuti della pandemia, sollecitato dall’Azienda sanitaria del Molise a inviare nel reparto covid un prete giovane che potesse portare i sacramenti agli ammalati, guardai negli occhi uno di loro, aperto e cordiale. Subito accolse la mia richiesta, con coraggio. Entrò, con tutte le precauzioni necessarie, ma il bene fatto fu immenso, per le parole date ai morenti, l’olio della consolazione a chi viveva nel buio della disperazione, la serenità donata ai familiari finalmente informati di persona. Il rischio fu affrontato con l’eroismo dei santi. In tutti rimase impressa quella sua mano di prete amico, carica di tanto cuore.
(fonte: Messaggero di Sant'Antonio 11/02/2022)