Bose: fratelli e sorelle si diventa
Intervista al nuovo priore del monastero di Bose, fr. Sabino Chialà (cf. SettimanaNews, qui), curata da Daniele Rocchetti.
– Che cosa ti ha portato a Bose e quando?
La mia prima visita a Bose risale all’inizio del 1988. Quell’incontro mi bastò per capire che questo era un luogo preparato anche per me, per cui il 4 ottobre 1989 arrivai qui per rimanere.
Quanto al “cosa” mi ci abbia portato, è difficile dire. Una ricerca, un desiderio, un’inquietudine, una chiamata? La percezione di un cammino percorribile e di una comunione possibile con il Signore e con uomini e donne, anche molto distanti dal mio mondo di origine.
– Per quali ragioni hai deciso di rimanere e “perseverare nella vita monastica”?
Per qualcosa che detto a parole suona banale: perché giungendo qui, dopo aver girovagato per altri luoghi simili, ho sentito di essere arrivato “a casa”. Poi è iniziata l’elaborazione di quella percezione.
Un’elaborazione ancora non finita, perché le ragioni per cui si persevera in una scelta ci vengono svelate, e donate, man mano che si va avanti. La perseveranza si nutre di ricerca, come in una relazione di amore.
Monachesimo: una ricerca aperta
– Cosa chiedere e cosa non chiedere al monachesimo oggi?
Chiederei che sappia ridire a se stesso, innanzitutto, e al resto del mondo le ragioni profonde del suo esistere. Spesso si parla di “crisi” del monachesimo o della vita religiosa, e si pensa ai numeri che diminuiscono. Ritengo invece che la vera crisi sia di identità.
Siamo innanzitutto noi, monaci e religiosi, ad aver bisogno di ricomprendere che cosa vogliamo essere o meglio che cosa siamo chiamati ad essere. Il resto verrà di conseguenza.
– Nella Bibbia la fraternità non è un dato genetico ma una conquista, non un punto di partenza ma di arrivo: fratelli non si nasce ma si diventa. Cosa vuol dire oggi vivere insieme in un monastero? Quali sono le difficoltà maggiori?
La fraternità è un cammino, una scoperta e un dono. Richiede lotta, perché la paura della morte – quella ferita originaria che fa dell’essere umano la creatura più debole e per questo anche più creativa – lo spinge con forza a lottare contro l’altro per sopravvivere. Il più grande inganno che la paura della morte ci instilla è infatti proprio quello di convincerci che l’altro ci toglie la vita; invece è l’altro che ci dà vita.
Si tratta di un meccanismo perverso, che a volte ci prende e di corrode dal di dentro, incattivendo il nostro occhio. Sì, fratelli si diventa, anche in monastero. Quando arriva un nuovo fratello o una nuova sorella, pur con una certa gradualità, viene inserito nel corpo comunitario. Ufficialmente è già “fratello” o “sorella”. Ma bisogna che lo diventi con il cuore.
E questo non è facile e richiede ascesi, affidamento, libertà, spazio interiore. In una parola: disponibilità a crescere “con” e “alla presenza di”. “Con” quei fratelli e sorelle che sono lì accanto a lui e anche per lui, e “alla presenza” del Signore che ha chiamato ciascuno a quella medesima vita. Quando uno dei due elementi viene meno iniziano i problemi.
La Parola salva, ma non ci mette al riparo
– Cosa significa, da monaci, fare i conti con le fragilità che ci attraversano? Come attrezzarsi, spiritualmente e umanamente, per non farsi soverchiare?
Esattamente quello che significa per ogni essere umano. Spesso si pensa ai monaci come a degli esseri più forti e meglio equipaggiati. Poi, per una qualche ragione, giunge ineluttabilmente la rottura dell’incanto. Esperienza dolorosa quanto feconda. Un po’ è responsabilità nostra aver fatto credere di essere meno vulnerabili degli altri.
Un po’ è per un’immagine cucitaci addosso da chi ingenuamente cerca in noi qualcosa di solido cui aggrapparsi, in cui credere incondizionatamente, atteggiamento che a volte rasenta l’idolatria. Non dimenticherò mai la reazione di un’ospite che, mentre parlavo della fragilità di cui anche noi monaci facciamo esperienza, sobbalzò sulla sedia e con una sofferenza immane disse gridando: “Basta! Ho già la mia di fragilità! Da voi mi aspetto forza!”.
Non siamo meno fragili, ma forse potremmo essere meglio equipaggiati. Dico “potremmo essere” perché non è scontato neppure questo. E poi dell’equipaggiamento bisogna volersene servire. Per equipaggiamento intendo tutto quello che la nostra vita ci offre come strumenti per vivere in modo fecondo la nostra fragilità.
– Mettere al centro la Parola non salva dalla fatica e dalle imperfezioni. Come evitare che non sia solo uno slogan?
La Parola “salva” ma non ci “mette al riparo”, anzi ci salva esponendoci. A noi stessi, innanzitutto. Ci mette a nudo. L’esperienza della lectio divina con cui noi monaci apriamo la giornata è questo: accettare di esporsi alla luce della Parola. Una luce che svela, non per condannare, ma per guarire.
Una luce dolce e amorevole, perché materna, nel senso che è generativa. Quanto agli slogan: tutto nella vita spirituale può diventare una grande farsa. Si tratta di un rischio inevitabile. Ma ciascuno di noi, se accetta di non galleggiare in superficie, può conoscere il proprio cuore, dove solo è possibile distinguere la verità dalla finzione.
Peculiarità di Bose: da alimentare
– Quanti sono i fratelli e le sorelle della Comunità? Avete novizi?
In questo momento la comunità è composta da una sessantina di monaci e monache, tra cui due novizie e sette giovani, fratelli e sorelle, in formazione, che si preparano alla professione monastica definitiva.
– Dove stanno a tuo avviso le peculiarità proprie di Bose?
Il monachesimo non ha peculiarità marcate. Si tratta di una grande intuizione che si esprime come ricerca, e che accompagna la Chiesa fin dal suo nascere. Nei secoli ha assunto colori diversi, a seconda dei tempi, dei luoghi, degli uomini e delle donne che gli hanno dato carne.
Così è anche per noi: un’intuizione e una ricerca che vengono da lontano, che passano attraverso la carne degli uomini e delle donne concreti che in questi cinquant’anni gli hanno dato vita e che continua il suo percorso, in obbedienza alla Parola di Dio, nell’alveo ampio e multiforme delle Chiese cristiane, alla scuola della tradizione monastica, e in ascolto e dialogo con gli uomini e le donne del nostro tempo.
– Dopo quanto è accaduto, credi che le peculiarità di Bose si salveranno?
Nella misura in cui sono vitali, sì. E per vitali intendo capaci di dare vita. Ciò che vale si salva, anzi è già stato salvato dal Signore. Io credo nella sua fedeltà, che è più grande della nostra.
Credo anche nel valore del dono che fratelli e sorelle hanno fatto della loro vita a questa comunità, nei suoi colori caratteristici. Queste due cose messe insieme mi fanno ben sperare. Ma di una speranza libera, che non pretende se non quello che il Signore ha in animo di donarci.
Anni difficili
– Gli ultimi due anni hanno messo a dura prova la vita della comunità. Quali perle preziose avete scoperto insieme durante questo periodo?
Quello che dicevo appena prima: la fedeltà di Dio e la dedizione mite e paziente di fratelli e sorelle a un cammino comune che ha ancora valore.
E con questo l’affetto e la vicinanza di tantissimi amici che, pur nella sofferenza, pur non comprendendo e a volte anche rivolgendoci parole dure ma sofferte, ci hanno attestato una prossimità al di là di ogni immaginazione.
– Cosa vuol dire, da priore, essere a servizio dei fratelli e delle sorelle?
Devo ancora capirlo… Con la spontaneità di chi comincia, direi che significa in primo luogo ascolto: del Signore e insieme dei fratelli e delle sorelle, dei loro cammini.
E poi servizio di comunione: operare per l’incontro tra quelle persone così diverse che compongo una comunità, senza tuttavia occupare il centro, ma lasciando che sia il Signore il luogo di incontro.
– Nell’ultimo periodo sei stato molto vicino a Luciano. Cosa hai imparato e cosa ti ha colpito del suo servizio?
Di lui ho apprezzato soprattutto la mitezza e la fedeltà ai fratelli e alle sorelle. Ho visto la sua costanza anche quando il peso di cui era gravato era particolarmente oneroso.
Ha saputo portare a termine il suo mandato, per poi riconsegnarlo, con cuore libero, come qualcosa di non suo, che gli era stato solo affidato per un tempo.
Nel cammino ecumenico
– Siete una delle poche comunità monastiche miste. Avete ragionato su come modificare la governance del monastero a favore delle monache?
Di per sé già l’attuale statuto non fa alcuna discriminazione tra uomini e donne. Ad esempio, una sorella può essere eletta priora, tanto quanto un fratello. Tuttavia ci stiamo interrogando sul nostro vissuto reale di mezzo secolo di convivenza, e sul ruolo effettivo che le sorelle hanno avuto nella nostra vicenda.
– Recentemente, il 9 gennaio scorso, con Luciano Manicardi e Luigi d’Ayala Valva sei stato ricevuto al Fanar, a Istanbul, dal Patriarca Ecumenico di Constantipoli, sua Santità Bartholomeos. Qual è il valore di questa visita?
Il desiderio di Luciano e della comunità era quello di rinsaldare i rapporti con una Chiesa con cui abbiamo sempre avuto ottime relazioni, e anche quello di annunciargli la nostra intenzione di riprendere i convegni ecumenici, interrotti a motivo della pandemia, nella forma che ci sarà possibile.
Da parte del Patriarca abbiamo sentito grande affetto e sollecitudine paterna per il nostro cammino. Ci ha ribadito il suo sostegno e noi gli abbiamo assicurato la nostra preghiera e il nostro impegno per l’unità tra le Chiese.
– Tu sei uno studioso dei primi secoli cristiani. Secoli segnati, anche tra i credenti, da grandi conflitti e da grandi passioni. C’è una lezione di ieri utile anche per l’oggi?
La lezione è che non siamo mai al riparo da nulla. Siamo fragili… Il più delle volte lo predichiamo. Poi arriva il momento in cui capita di vivere quella fragilità nella propria carne. È doloroso, ma può essere un grande momento di Grazia.
– Il futuro di Bose lo scriverà il Signore insieme ai fratelli e le sorelle della comunità. Tu come lo immagini?
Difficile descrivere i sogni… lasciamo disegnare al Signore la via. Noi rimettiamoci ogni giorno in ascolto.
(fonte: Settimana News, intervista di Daniele Rocchetti 10/02/2022)