venerdì 8 ottobre 2021

Massimo Recalcati Le giuste parole sconfiggono la bestia

Massimo Recalcati
Le giuste parole sconfiggono la bestia 


La Stampa, 4 ottobre 2021 

Il caso Morisi, assunto dai media come un caso inquietante della degradazione della vita politica nel nostro paese, non è, purtroppo, affatto un caso, nel senso dell'eccezione, quanto piuttosto l'inquietante espressione di una regola. Nel mondo della comunicazione giornalistica si è infatti lentamente imposta una cultura trasversale dell'insulto e della diffamazione che sembra non trovare argine e di cui la Bestia è solo la punta dell'iceberg. 

Fa impressione notare che tra coloro che oggi si scagliano contro Morisi e la sua penosa vicenda umana, vi sono senza alcun senso della vergogna anche gli interpreti più feroci di un giornalismo aggressivo, teppistico, ideologicamente giustizialista, evidentemente diffamatorio che sulla spinta antipolitica promossa dal populismo grillino delle origini ha imperversato nel nostro paese con la colpevole collusione dei media che hanno sfruttato a fini di audience questa modalità oscena di concepire il racconto politico: giudizi sommari, uso sistematico del dileggio, storpiatura fascista dei nomi, alterazioni palesi della verità, sostituzione del confronto politico con la squalifica morale dell'avversario. 
Ma, come spesso accade in questi casi, il giro impietoso della ruota del tempo trasfigura fatalmente gli aggressori negli aggrediti. Il detto popolare si rivela ancora una volta profetico: chi semina vento raccoglie tempesta. Nondimeno nulla lascia presagire che vi sarà un effettivo cambio di passo. Siamo invece di fronte all'attivismo di giornalisti che dopo aver sparato senza cura su soggetti poi dichiarati innocenti militano tra le file dei maggiori accusatori della Bestia e della sua azione politica. 

Il ragionamento deve però essere più ampio: la comunicazione nel nostro tempo tende a privilegiare le sensazioni rispetto ai contenuti, l'effetto pubblicitario rispetto alle argomentazioni, l'obbiettivo immediato del consenso rispetto a quello lungo della verità. È una triste evidenza che ha come denominatore comune la negazione del peso delle parole. E invece le parole pesano. E questo peso coincide con le loro conseguenze. 
Altrove ho definito la vita adulta come quella – al di là dell'anagrafe - che si sforza di assumere le conseguenze delle proprie parole. Quando questo sforzo è assente la vita si manifesta nella forma irresponsabile dell'adolescenza dove il gioco delle parole tende a prescindere dall'assunzione delle loro inevitabili conseguenze. 

Questo gioco ha coinciso purtroppo con la vita politica del nostro paese negli ultimi decenni. Ma si tratta, in realtà, di un grande problema etico, filosofico e politico. 
Quale relazione esiste tra la parola e le cose, tra la parola e la realtà? Le parole si limitano a nominare una realtà che esiste di per sé, a prescindere dalle parole oppure forgiano la realtà, la plasmano? Sono davvero solo puro flatus vocis, come ritenevano i nominalisti alla Roscellino, oppure hanno il potere di fare esistere la realtà, di trasformarla, di trasfigurarla? 

Problema enorme che concerne innanzitutto la responsabilità non solo nei confronti della propria parola, ma anche di ciò che la nostra parola potrebbe provocare. Valga per tutti il caso ormai storico di Toni Negri che nelle sue parole affermava la necessità dell'uso radicale della forza nella lotta di classe ma negò sempre ogni responsabilità rispetto a coloro che nel nome di queste parole praticarono alla fine degli anni Settanta forme armate di violenza politica. Ora il clima politico e civile è molto diverso. In gioco non c'è più il conflitto aspro e cruento tra ideologie, ma l'astuzia feroce per l'aggregazione più efficace del consenso. 
E tuttavia il problema resta drammaticamente lo stesso: le parole hanno o non hanno un peso? 
Oggi vediamo come esse possono non solo armare le mani, ma anche distruggere famiglie, persone, reputazioni, carriere. Esse non sono allora sostituti simbolici della violenza – dove c'è violenza non c'è parola, afferma Lacan –, ma possono anche manifestarsi come l'espressione più estrema della violenza.
Le parole non sono strumenti neutrali della comunicazione, ma possono essere veri e propri proiettili, bastoni, spranghe. 

Siamo di fronte in questi casi ad uno snaturamento feroce della sua natura che è invece quella di presiedere il processo di umanizzazione della vita. La legge della parola si costituisce infatti, alla sua origine, come una alternativa netta alla violenza. È il dono maggiore del linguaggio: la vita non è il luogo di una guerra senza quartiere di tutti contro tutti per la propria affermazione perché il dono della parola ci dovrebbe indurre al dialogo e al riconoscimento reciproco. È, in fondo, quello che ci differenzia dal mondo animale. È ciò che rende una vita davvero civile. Non a caso il soprannome guerriero della Bestia allude ad un regno che non conosce affatto la legge della parola.
(fonte: sito dell'autore)