martedì 12 ottobre 2021

"LA LEZIONE DEL MEDITERRANEO" don Mimmo Battaglia, Arcivescovo di Napoli

"LA LEZIONE DEL MEDITERRANEO" 
don Mimmo Battaglia, 
Arcivescovo di Napoli

Omelia pronunciata dalla Sezione San Luigi della PFTIM l’8 ottobre 2021 
per la Santa Messa al convegno 
“Mistica e dialogo interreligioso nel contesto del Mediterraneo”




“Amici e amiche,

è con gioia che saluto ciascuno di voi, fratelli e sorelle nella fede, uomini e donne di ogni credo, persone tutte di buona volontà, nella consapevolezza che stiamo vivendo in questi giorni una grazia particolare: quella di celebrare la vita interiore che il Signore a piene mani dona a tutti coloro che lo cercano con cuore sincero, rendendo il loro sguardo capace di andare oltre l’immediato, la loro mente pronta ad afferrare le altezze dell’invisibile, le loro mani capaci di riconoscere l’oro divino tra la terra dell’umano e tra i solchi increspati degli ultimi, dei marginali, dei sofferenti.

Ci ritroviamo su questa collina bellissima della nostra città, affacciata sul mare, e da cui si scorge con facilità il porto, crocevia di mille contaminazioni inattese, luogo che genera nel cuore di Napoli, incontri tra le differenze degli uomini, armonizzate dall’abbraccio conviviale di Dio.
Il Mare Mediterraneo, conduce sulle sponde della nostra città l’eco di tanti popoli, culture, storie che si intrecciano con il sentire del nostro popolo, arricchendolo di vita e di sapienza, rendendolo solidale alle gioie e ai dolori di ogni porzione di terra affacciata su questo mare, divenuto troppo spesso luogo di morte per tante esistenze in cerca di un futuro migliore. Il Mediterraneo è per la nostra città una vera e propria cattedra di vita, da cui la storia dona continuamente lezioni importanti, capaci di incidere sul presente, aprendolo al futuro.

Di quale futuro ci parla il Mediterraneo? Quali sono le sue lezioni? Mi vorrei soffermare con voi su tre lezioni che questo mare, in questo tempo, ci dona: la prima riguarda l’unità, la seconda la necessità della sosta contemplativa, e infine l’ultima, un invito alla mistica dell’inclusione.

Il Mediterraneo ci dona una lezione di unità. Ogni popolo, affacciato sulle sponde di questo mare, è cresciuto nello scambio con i popoli incontrati grazie alla navigazione avventurosa tra le sue onde. Nessuno ha potuto trincerarsi tra i propri confini, obbligato dalle esigenze a navigare i sentieri della scoperta dell’altro, superando la paura iniziale della diversità e lasciando spazio allo stupore derivante dall’incontro autentico, vero, profondo con l’altro. Possiamo così parlare di una vera e propria cultura “mediterranea”, fatta di unità, di capacità di sintesi, di sana integrazione, di propensione all’incontro e alla scoperta dell’altro. Si tratta di una cultura a volte messa in discussione da inutili ideologismi e combattuta da interessi egoistici ma le cui radici profonde, se difese, continuano a generare frutti di futuro.

Tra le onde di questo mare ha navigato anche l’apostolo Paolo in catene, incontrando fratelli e sorelle che grazie ai continui scambi tra le sue sponde, avevano già ricevuto il dono della fede, confermandone quindi il cammino, ravvivandone la fiamma di carità e confermandoli nel sentiero della grazia. Nella lettera ai Filippesi che abbiamo ascoltato, Paolo esprime chiaramente in che cosa un apostolo, un discepolo di Gesù trova motivo di gioia: nel constatare l’unione degli spiriti, l’unità dei cuori, la capacità di imparare da Dio l’amore, innestandolo poi nella reciprocità delle relazioni quotidiane. Evitando di considerarsi superiori agli altri. Senza piedistalli, gradini, troni. È questa in fondo la base del dialogo, è questo il perimetro dell’incontro possibile, al di fuori del quale assistiamo solo a monologhi ripetitivi, è questa la gestazione degli incontri capaci di cambiare la vita, incontri che divengono culle di nuove esperienze, ampliamenti di interiorità, nuovi punti di partenza per la ricerca dell’altro e, con l’altro, della ricerca di Dio.

L’unità infatti non è soltanto un punto di partenza ma è anche la condizione del cammino autentico, e la meta a cui conduce la ricerca sincera di Dio. E se ciò è indispensabile all’interno della comunità cristiana non lo è di meno per ciò che concerne l’incontro tra fedi diverse, tra tradizioni differenti, tra religioni e percorsi spirituali capaci sempre di arricchirsi nell’incontro con l’altro.

Il Mediterraneo, percorso dalle diverse fedi monoteiste e dalle diverse tradizioni spirituali, ci insegna la necessità dell’incontro, e ci mette in guardia dal pregiudizio e dall’egoismo, che ha reso nei secoli e rende purtroppo ancora oggi – penso alla tragedia di tanti migranti – questo mare un luogo di scontri, di battaglie, di contrapposizione tra ideologismi pericolosi. Solo superando il piccolo orticello del proprio io, solo imparando a divenire un “noi” sano, dove le differenze divengono risorse, dove i limiti si trasformano in nuovi punti di partenza, dove la crescita personale non avviene sull’altro ma con l’altro, ci metteremo davvero in sintonia con quanto il Mediterraneo ci insegna.

Il Mediterraneo ci dona una lezione sulla necessità di sostare e contemplare. Una lezione che nasce spontaneamente, ogni qualvolta ci troviamo a passeggiare tra i meravigliosi paesaggi delle coste, sulle lunghe spiagge che si affacciano sulle sue acque.

È incredibile l’ambiguità del mare: se da un lato infatti con i suoi porti è un luogo di frenesia, di continuo scambio, di perenne incontro, dall’altro lato con la bellezza del suo paesaggio intercetta le domande più profonde dell’uomo, il suo bisogno di contemplazione, di sostare dinanzi alla trascendenza che lo avvolge. Sarebbe sbagliato credere che questi due movimenti del cuore, che queste due esigenze dell’umano, il movimento e la sosta, siano in contraddizione. In realtà l’una non può esistere senza l’altra: l’andare di ogni giorno rischia di diventare sterile senza uno sguardo contemplativo, senza l’arte della riflessività, senza la capacità di sostare dinanzi ai punti interrogativi che la storia ci pone e alle bellezze con cui ci afferra per spingerci più in alto; d’altra parte ogni autentica contemplazione innesca una dinamica di crescita, un movimento che spinge l’umano a non chiudersi in se stesso ma ad andare verso l’altro, tendendogli la mano, realizzando la solidarietà.

È importante che i nostri incontri, che i nostri convegni, che i nostri studi conservino sempre la loro natura contemplativa, che non finiscano per essere esercizi di mera logica, luoghi di ragionamenti chiusi. É necessario che il percorso della teologia e del dialogo interreligioso sia capace di tenere insieme i due poli, la contemplazione e l’azione, dando vita ad esperienze “contemplattive”, come diceva don Tonino Bello, mio amico e maestro. Era questa la prospettiva di Gesù: il Vangelo ci dipinge infatti un’immagine di frenesia e di continua attività dei dodici, il cui gruppo si ritrovava ad essere la meta ricercata da uomini e donne che andavano e venivano continuamente, mossi dal bisogno. Gesù non disdegna questa continua apertura all’altro da parte dei suoi discepoli, è felice nel vedere la loro grande disponibilità e infatti non c’è una parola di rimprovero ma di premura, di tenerezza: fermatevi, riposatevi, state in disparte. Recuperate la vostra interiorità, esercitatevi nell’ascolto di Dio, affinate lo sguardo contemplativo e solo dopo, mossi dalla contemplazione e dalla compassione, ritornate a donarvi alla gente, bisognosa di pastori che la sappiano nutrire con amore vero e disponibilità concreta. In questo tempo di pandemia, o postpandemico come qualcuno inizia a definirlo, abbiamo bisogno di una teologia che sappia ascoltare Dio rintracciando il suo eco e la sua parola tra le tante parole e le molte grida che salgono dalle città dell’uomo. E il mediterraneo, crocevia di queste grida, amplificatore delle speranze e dei dolori dei popoli che su di esso si affacciano, è un vero e proprio luogo teologico, una cattedra da cui il Cielo parla continuamente.

Il Mediterraneo richiede più che mai uno sguardo mistico e dona una lezione di mistica dell’inclusione. Inclusione è una parola dal retrogusto “sociale”, apparentemente più adatta ad un convegno sociale che ad un momento spirituale o ad un tavolo in cui si parla di Dio. Eppure Dio è al contempo colui che include ogni cosa e che chiede alle sue creature di essere incluso.

È paradossale, può sembrare irriverente, ma Dio è come un bambino che chiede di essere accolto, di essere visto, di essere riconosciuto e ospitato, incluso nell’orizzonte della nostra vita. Nel Mediterraneo Dio si presenta a noi come quei bimbi che le immagini televisive ci mostrano, con le braccia tese, su una barca alla deriva, in attesa che un soccorritore, un samaritano nel mare, lo prenda, lo accolga, lo salvi. Dio è come un bambino con le braccia tese, con lo sguardo penetrante, capace con la sua piccolezza e leggerezza di celarsi tra le pieghe più inaspettate della storia. Spesso i credenti corrono il rischio di volergli insegnare i confini, i recinti sacri in cui può muoversi senza disturbare troppo lo scorrere della vita. Quella che concediamo a Dio e di conseguenza agli altri è un’inclusione “parziale”, a distanza.

Eppure questo Dio, così piccolo, riesce a scappare da qualsiasi prigione dorata, a fuggire dalle strettoie dei ragionamenti saccenti, ad infilarsi negli spazi più insoliti, navigando con leggerezza i canali sottili delle vicende umane: può così essere cercato ovunque e ovunque sa farsi presente. Senza esaurirsi, senza confondersi. Conservando la sua libertà. La sua infinita alterità. Includerlo nella propria vita significa accogliere la luce e decidere di diventare vetro. Fragile, nudo ma trasparente.

Nel mondo esistono tanti uomini, tante donne e mille modi di essere. Vi sono gli uomini e le donne “cella”, quelli che per paura dell’incertezza preferiscono delimitare, vagliare e contenere pensieri, intuizioni, esperienze, beatificando chi sta dentro, condannando chi sta fuori. Vi sono poi gli uomini e le donne “ponte”, quelli che ben ancorati alla propria terra non disdegnano l’incontro con l’altro, consapevoli che tutti possono essere arricchiti dalla parola dell’altro. Vi sono infine gli uomini e le donne “di vetro”: trasparenti e solidi, essi sanno che i propri concetti e le proprie visioni fruttificano nella misura in cui non ingabbiano i raggi. Per questo decidono di farsi trasparenza di luce, irradiazione colorata di calore, veicolo e canale di una fonte inafferrabile la cui luce è ovunque. Nei pozzi profondi del cuore come negli abissi marini, nei riti degli uomini come in quelli della natura.

Ecco, credo che un vero dialogo interreligioso può essere portato avanti solo da uomini e donne che desiderano divenire vetro, trasparenza di luce, abbandonando la presunzione del possesso. Se vuoi includere Dio nella tua vita devi imparare a lasciar passare la sua luce. Se vuoi includere Dio nella tua vita devi imparare ad amare la brezza che avvolse Elia, il vento leggero, a volte seguendolo, altre volte sostando nel silenzio, lasciandoti accarezzare dal suo soffiare. E soprattutto evitando di chiuderti in luoghi sicuri e sigillati, ossessionato magari dal timore degli spifferi: alcuni, è vero, fanno ammalare ma altri ridestano alla vita. Anche nei paesi del Mediterraneo stiamo assistendo sempre più ad un avanzare della secolarizzazione e del materialismo, quasi come se non ci fosse più posto per Dio e per la spiritualità. Ma spesso il rifiuto di Dio è il frutto delle false immagini che ci siamo fatti del suo volto, della sua essenza, del suo volere. Immagini dense di proiezioni, di pregiudizi, di sovrapposizioni. Nate dalle ferite umane e non da sogni divini. Raccontate e trasmesse da cattedre onniscienti ma prive di stupore. Solo quando vinciamo la tentazione di sapere tutto, solo quando abbandoniamo la certezza del possesso per imboccare il sentiero inquieto della ricerca e dell’accoglienza, l’Amore di Dio diventa evidente nella sua trasparenza e ci consente di annunciarlo con rinnovato vigore.

Fratelli e sorelle, l’inclusione è possibile solo se il nostro sguardo è capace di andare oltre e di penetrare nel cuore della vita. Per questo è necessario che tutti coloro che cercano Dio, il significato profondo dell’esistenza, il senso ultimo della storia, affinino il loro sguardo immergendolo nella mistica dell’inclusione e dell’accoglienza. Questa mistica è una ferita aperta. È un paese sempre inesplorato. È uno sguardo lanciato oltre la superficie delle cose per abbracciare il macrocosmo nel microcrosmo.

La mistica dell’inclusione è un incontro con una realtà abitata da congiunzioni in cui Dio, l’altro, il proprio sé non si escludono, né si combattono ma si ritrovano insieme nella novità perenne dell’amore. La mistica dell’inclusione è una mistica discreta, che dona sguardi differenti sulla realtà, che fugge la tentazione dell’abitudine, l’economia della catalogazione, la prigionia degli schemi granitici privi di vita. La mistica dell’inclusione non è una corrente spirituale o una nuova via, ma si realizza in tutte le vie e in tutte le esperienze laddove lo sguardo del cuore riesce a contemplare lo Spirito che riempie la terra, lo Spirito che soffia dove vuole, lo Spirito che bussa alla porta dell’esistenza servendosi spesso di porte diverse da quella principale, celandosi dietro realtà inaspettate, da molti definite profane. La mistica dell’inclusione è una mistica che non conosce recinti sacri, che non distrugge il tempio ma lo supera, che non rinnega nessun sistema religioso ma che li attraversa tutti, che non disdegna l’appartenenza alla comunità ma la amplia.

La mistica dell’inclusione, per noi cristiani, è la consapevolezza di appartenere al gregge di Cristo sapendo che lo status che ne deriva non reca dignità e prestigi particolari se non quello di sentirsi amati e partecipi dell’ansia evangelica del Buon Pastore che desidera che nessuno si perda ma che tutti abbiano la vita. La mistica dell’inclusione è il recinto aperto, la porta spalancata, il buco nella rete, la finestra senza grate, aperta sull’orizzonte dell’altro, illuminata dalla presenza dell’oltre.

La mistica dell’inclusione è libertà di Cristo che si riversa nel limite dell’uomo, sostenendolo nel comprendere che non tutto è comprensibile, attivando in lui l’intuito e il desiderio dell’amore che vede dove c’è buio, che sente dove c’è frastuono, che orienta anche in mezzo alla confusione generata dai mille miscugli interiori e relazionali dell’umano. La mistica dell’inclusione è un raggio dell’amore del Padre che dall’interno dell’anima accarezza le palpebre dei suoi figli, donando vigore alle pupille, dilatandole sull’invisibile, ampliando il paesaggio del reale da cui sono generati e che generano essi stessi ogni giorno, con le loro scelte, i loro dolori, le loro speranze. 
La mistica dell’inclusione è una mistica di desiderio, una ginnastica di accoglienza che chiede di far posto a Dio e di far spazio all’altro. Chiunque sia. Guardando non ai suoi meriti ma ai suoi bisogni, non al suo stato sociale ma alle sue ferite nelle quali è possibile scorgere le ferite stesse di Cristo.

È questo che ci insegna il Mediterraneo, con i suoi orizzonti ampi, con le ferite degli uomini che lo attraversano, con i segni di morte che racchiude e le possibilità di vita che ci spalanca. Il mio augurio è che questi giorni il Mare Nostrum diventi davvero per noi un maestro di vita, un segnale capace di indicare il futuro di Dio.

Amen!”