Il suicidio di Seid è un dolore privato
che ci chiama in causa.
di Lanfranco Caminiti
Fosse stato verde, Seid, o arancione o pure bianco – oggi staremmo qui comunque a piangere la sua scomparsa. Perché che il “male oscuro” di vivere ti acchiappi a vent’anni e ti trascini in un orribile abisso senza ritorno – è cosa che strazia il cuore.
È la seconda causa di morte tra i giovani, il suicidio – la prima, con cifre impressionanti, sono gli incidenti stradali. E troppo spesso il suicidio arriva a chiudere un percorso di autolesionismo. Sono dati non solo italiani, ma d’Europa e del mondo. Il “male oscuro” tra i giovani è globale, e non bada ai nazionalismi e al colore della pelle.
L’allarme è cresciuto durante il contagio. Psicologi, neuropsichiatri, operatori denunciano l’aumento dei casi – si parla di un 20 percento in più. L’isolamento, la solitudine, il confinamento, l’allontanamento dalle “occasioni” di incontro con i coetanei come la scuola, lo sport o il tempo libero – funzionano da detonatore di implosione. Si rompe vieppiù o anche solo si inabissa il rapporto con i genitori, con gli adulti. Peraltro, quello che si teme è che il tempo non funzionerà da soluzione, quando si tornerà alla “normalità”. Perché il tempo può funzionare anche da accumulatore di sensazioni negative, fino a trasformarle in patologie. È già accaduto, con la Spagnola nel 1919, con la Sars nel 2003: la scienza lavora sulla casistica.
Perciò, la morte di Seid ci pone crudamente di fronte la nostra fragilità, la nostra comune e collettiva fragilità del vivere. Che il contagio ha moltiplicato. Siamo una società che tende a “dimenticare” il dolore e la morte, presi dall’iperattivismo, dalla performance e la morte non è contemplata, è un evento lontano, forse pure solo una leggenda che gli umani si tramandano ma che la scienza moderna – la farmacologia, la tecnologia, la biomedicina – saprà come “rimediare”. Dobbiamo lavorare – si dice e si legifera qui e là – oltre i settant’anni: come potremmo morire?
Invece, con il contagio la morte è irrotta di nuovo nelle nostre vite: le immagini dei camion militari che trasportavano le bare a Bergamo verso i crematori, dei detenuti che scavavano le fosse comuni a New York, delle pire per le strade di Nuova Delhi ci hanno spaventato, terrorizzato. Presto rimosse. Ciascuno si è affidato a una propria “strategia di sopravvivenza” – non sempre confidando nei provvedimenti governativi, che chi ne voleva di più e chi pensava fossero già eccessivi. Non sempre le strategie di sopravvivenza funzionano: qualcuno ce la fa, qualcuno non ce la fa. Seid non ce l’ha fatta.
Non ce ne vogliano perciò i genitori. La morte di Seid oltre a essere un fatto, un dolore privatissimo è un fatto sociale, è un fatto collettivo. Ci sono morti che ci interrogano – come società. Ogni lutto è individuale, ogni dolore è personale, ogni morte strazia i familiari. E non c’è lutto o dolore che possa essere paragonato, che possa essere sovrapposto. Ma la morte della giovane operaia Luana – ci ha sconcertato. La morte del giovane Willy – ci ha sconvolto. La morte del giovane Seid – ci ha spezzato. Sono storie, le loro, che ci chiamano in causa, tutti. Sono storie, le loro, che ci raccontano non solo della condizione dei giovani, ma di quello che siamo diventati tutti noi, come società.
Di questi ragazzi a noi rimangono poche cose che diventano pubbliche, virali – molte invece costruiscono il tessuto vivo della memoria dei familiari. Di Luana, per dire, rimangono foto di una bellissima giovane donna che voleva diventare un’attrice. Di Seid rimangono le foto della sua breve carriera nelle giovanili del Milan, e tante della sua passione per il calcio. Ma rimane anche un documento crudele, terribile, nobile – quella sua lettera di un paio di anni fa. Una lettera che ha una forza politica – e lo dico nel senso più forte, di civiltà, di comunità – mai letta. Non solo nel denunciare il “razzismo banale”, quello, di cui scriveva Seid: «mi raccontava un amico, anch’egli adottato, che un po’ di tempo fa mentre giocava a calcio felice e spensierato con i suoi amici, delle signore si sono avvicinate a lui dicendogli: ”Goditi questo tuo tempo, perché tra un po’ verranno a prenderti per riportarti al tuo paese”».
Seid provava a “storicizzare” la sua stessa biografia, la sua stessa vita: «Prima di questo grande flusso migratorio ricordo con un po’ di arroganza che tutti mi amavano. Ovunque fossi, ovunque andassi, ovunque mi trovassi, tutti si rivolgevano a me con grande gioia, rispetto e curiosità. Adesso, invece, questa atmosfera di pace idilliaca sembra così lontana; sembra che misticamente si sia capovolto tutto, sembra ai miei occhi piombato l’inverno con estrema irruenza e veemenza, senza preavviso, durante una giornata serena di primavera. Adesso, ovunque io vada, ovunque io sia, ovunque mi trovi sento sulle mie spalle, come un macigno, il peso degli sguardi scettici, prevenuti, schifati e impauriti delle persone».
Quindi, c’è stato un “prima” e c’è stato un “dopo” – ovvero la grande ondata migratoria, che però dura da oltre due decenni proprio l’età di Seid, e il progressivo scivolamento della nostra società verso l’intolleranza. In questo, la politica della paura, la politica del sospetto, la politica che ha fatto del razzismo banale una forma di consenso ha avuto un ruolo determinante: un cortocircuito tra la pancia del paese e le istituzioni. Un testacoda che ci sta mandando fuori strada come società.
Forse le polemiche nel mondo politico sono state un filo sopra le righe: chi ha voluto giocare la semplice equazione razzismo=suicidio, per farne stato d’accusa a avversari, è stato presto smentito dagli stessi genitori di Seid. Non si può ricondurre quel gesto a una semplificazione: e d’altronde, il male oscuro non ha “una” sola origine. D’altra parte, “certificare” la lettera di Seid come “vecchia di due anni” e quindi che nulla c’entrerebbe è una cosa senza senso, proprio per gli stessi motivi di prima: il malessere scava a lungo dentro la nostra anima e non è detto che ci porti obbligatoriamente a farla finita; ma tutto quello che si è pensato, due anni fa, quattro anni fa, non per questo ha meno valore, ha meno significato, ha meno potenza distruttiva.
Perciò, se lo strazio per la perdita incolmabile di Seid non può che restare dentro lo spazio privato dei suoi familiari, a noi rimane il dovere civile di non disperdere quella testimonianza. Quella lettera, quel documento politico.
Io vorrei che quella lettera diventasse libro di testo nelle scuole italiane di ogni ordine e grado. Vorrei che un brano di quella meravigliosa lettera d’amore per la vita diventasse una delle tracce per gli esami di stato di questo sventurato paese. Vorrei che il presidente Mattarella donasse alla memoria di quel talentuoso e straordinario ragazzo un premio, un’onorificenza. Perché quella lettera è la cosa più nobile, più cruda, più politica che mai sia stata scritta su cosa siamo diventati. Vorrei un lutto nazionale, per dire a voce alta a quei genitori che loro hanno cresciuto un figlio bellissimo.
Nicotera, 7 giugno 2021.
pubblicato su “il dubbio”, quotidiano dell’8 giugno 2021.
(fonte: Blog dell'autore 08/06/2021)
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Pubblichiamo di seguito il testo integrale della lettera scritta da Said
e che l'associazione "Mamme per la Pelle" ha condiviso con un post su Facebook.
Dinanzi a questo scenario socio-politico particolare che aleggia in Italia, io, in quanto persona nera, inevitabilmente mi sento chiamato in questione. Io non sono un immigrato. Sono stato adottato quando ero piccolo.
Prima di questo grande flusso migratorio ricordo con un po’ di arroganza che tutti mi amavano. Ovunque fossi, ovunque andassi, ovunque mi trovassi, tutti si rivolgevano a me con grande gioia, rispetto e curiosità. Adesso, invece, questa atmosfera di pace idilliaca sembra così lontana; sembra che misticamente si sia capovolto tutto, sembra ai miei occhi piombato l’inverno con estrema irruenza e veemenza, senza preavviso, durante una giornata serena di primavera. Adesso, ovunque io vada, ovunque io sia, ovunque mi trovi sento sulle mie spalle, come un macigno, il peso degli sguardi scettici, prevenuti, schifati e impauriti delle persone. Qualche mese fa ero riuscito a trovare un lavoro che ho dovuto lasciare perché troppe persone, prevalentemente anziane, si rifiutavano di farsi servire da me e, come se non bastasse, come se non mi sentissi già a disagio, mi additavano anche la responsabilità del fatto che molti giovani italiani (bianchi) non trovassero lavoro.
Dopo questa esperienza dentro di me é cambiato qualcosa: come se nella mia testa si fossero creati degli automatismi inconsci e per mezzo dei quali apparivo in pubblico, nella società diverso da quel che sono realmente; come se mi vergognassi di essere nero, come se avessi paura di essere scambiato per un immigrato, come se dovessi dimostrare alle persone, che non mi conoscevano, che ero come loro, che ero italiano, che ero bianco. Il che, quando stavo con i miei amici, mi portava a fare battute di pessimo gusto sui neri e sugli immigrati, addirittura con un’aria troneggiante affermavo che ero razzista verso i neri, come a voler affermare, come a voler sottolineare che io non ero uno di quelli, che io non ero un immigrato. L’unica cosa di troneggiante però, l’unica cosa comprensibile nel mio modo di fare era la paura.
La paura per l’odio che vedevo negli occhi della gente verso gli immigrati, la paura per il disprezzo che sentivo nella bocca della gente, persino dai miei parenti che invocavano costantemente con malinconia Mussolini e chiamavano “Capitano Salvini". La delusione nel vedere alcuni amici (non so se posso più definirli tali) che quando mi vedono intonano all’unisono il coro ”Casa Pound”. L’altro giorno, mi raccontava un amico, anch’egli adottato, che un po’ di tempo fa mentre giocava a calcio felice e spensierato con i suoi amici, delle signore si sono avvicinate a lui dicendogli: ”Goditi questo tuo tempo, perché tra un po’ verranno a prenderti per riportarti al tuo paese”.
Con queste mie parole crude, amare, tristi, talvolta drammatiche, non voglio elemosinare commiserazione o pena, ma solo ricordare a me stesso che il disagio e la sofferenza che sto vivendo io sono una goccia d’acqua in confronto all’oceano di sofferenza che stanno vivendo quelle persone dalla spiccata e dalla vigorosa dignità, che preferiscono morire anziché condurre un’esistenza nella miseria e nell’inferno. Quelle persone che rischiano la vita, e tanti l’hanno già persa, solo per annusare, per assaporare, per assaggiare il sapore di quella che noi chiamiamo semplicemente Vita.