Il progetto di ResQ – People saving People
Una nave per salvare vite umane
Una nave battente bandiera italiana per sostenere donne, uomini e bambini costretti a fuggire da situazioni drammatiche. È il progetto dell’associazione ResQ – People saving People nato da un piccolo gruppo di amici che, stanchi di vedere morire migliaia di migranti nel tentativo disperato di attraversare il Mediterraneo, hanno deciso di rompere il muro dell’indifferenza e di mettersi in gioco. «Gli Sos di chi naufraga si perdono tra le onde e la gente muore», dice Lu-ciano Scalettari, inviato speciale di «Famiglia cristiana» e presidente di ResQ. «Il Mediterraneo, per secoli culla di civiltà e patrimonio di culture e visioni, oggi è diventato un cimitero di persone alla ricerca di un futuro migliore. Noi vogliamo bloccare questo sterminio. Vogliamo salvare la vita di coloro che migrano verso il nostro continente, a prescindere dalla nazionalità, dalla religione e dai motivi che li spingono a farlo. Vogliamo che la bandiera italiana diventi emblema di accoglienza, riparo, salvezza. Una nave efficiente che risponda unicamente alle leggi del mare e al diritto internazionale, secondo i principi imprescindibili e non negoziabili di umanità, imparzialità, indipendenza e neutralità».
Le cronache ci consegnano con cadenza quasi giornaliera i bollettini dei naufragi. Non sono «disgrazie o tragiche fatalità — denuncia Cecilia Strada, responsabile della comunicazione di ResQ —. Sono persone uccise dai ritardi nei soccorsi, dall’indifferenza, dalla politica dei muri e dei respingimenti. Parlarne è essenziale, così come è necessario ascoltare il mare, ascoltare chi dal mare chiede aiuto. Questa cosa ci riguarda tutti».
Partiti in 17 nel 2019, i soci sono ora oltre 1.200. Tra questi, Lella Costa, Alessandro Bergonzoni, Ascanio Celestini, Gad Lerner, Giovanni Soldini, don Virginio Colmegna, Massimo Cirri, Sara Zambotti. E Gherardo Colombo, presidente onorario dell’associazione. «Il nostro obiettivo è quello di aggiungere una nave alla flotta umanitaria, oggi del tutto insufficiente. Attraverso il nostro esserci, non soltanto contribuiremo a salvare le persone ma anche a diffondere i principi della Costituzione, quelli che garantiscono la dignità e la sopravvivenza di ogni individuo», afferma l’ex magistrato.
«Difficile resistere a una visione così pura, chiara e concreta come quella di sottrarre alla morte vite umane», dice Zambotti, conduttrice di Caterpillar. «È un’iniziativa che permette a tutti noi di superare il senso di vergogna e di impotenza per quello che succede in mare. In questo anno cupo è stata una luce, l’idea giusta per restituirci entusiasmo e voglia di partecipare». Insieme al suo compagno radiofonico, Massimo Cirri, Zambotti, il 13 dicembre ha condotto una maratona di raccolta fondi, una diretta di 9 ore: più di 80 ospiti, 150 mila persone raggiunte e donazioni per oltre 174 mila euro, di cui 100 mila dall’Unione buddhista italiana.
«Questa causa è legata a tanti stereotipi e pregiudizi, non è certamente tra le più popolari, ma vedere che in questo anno difficile così tante persone hanno deciso di salire a bordo ci dimostra che non siamo soli e che è giusto andare avanti» dice Lia Manzella, progettista, vicepresidente dell’associazione che si è innamorata subito del progetto. «Mi ha convinto la natura complessa e nello stesso tempo semplice dell’iniziativa, l’idea di poter fare qualcosa di concreto. Ci sono persone che muoiono in mare, perché dare per scontato che non si possa fare nulla?». A sostenere il progetto anche più di 60 associazioni e 3.500 donatori. Grazie a loro e a decine di volontari il sogno di una nave della società civile si sta realizzando. «Siamo all’ultimo miglio — dice Scalettari — In preparazione abbiamo una fitta rete di iniziative, fra cui un’asta benefica e un tour estivo per raccogliere fondi. Il varo della nave è previsto all’inizio dell’estate. Saremo in tanti. Sarà un momento commovente».
A bordo anche Alì Sohna, un ragazzo gambiano scampato a un naufragio all’età di 15 anni, nel 2015. «Sono partito con mia madre e mio fratello e sono arrivato solo. Mamma si è fermata dopo la traversata nel deserto del Sahara. Non c’erano abbastanza soldi per proseguire in tre». La donna ha trovato rifugio in Niger e, malata da tempo, dopo un paio di anni è morta. Alì non l’ha più incontrata, «ma la vedo ogni sera prima di dormire. Le sue parole di incoraggiamento le porto sempre con me». Alì e il fratello salgono su una barca per attraversare il Mediterraneo. «Eravamo in 650. Dopo due giorni la barca si è capovolta e sono morte 500 persone. Tra queste mio fratello. L’ho visto annegare». Per lo shock Alì perde la voce. «Per me la vita era finita». A Matera, dove approda, fa il suo incontro con il teatro e ritrova la parola e il sorriso. «Il sorriso è qualcosa che fa vivere il cuore». Da qualche mese Alì vive a Napoli dove, per conto di una ong, lavora come mediatore culturale e tiene laboratori teatrali nelle case di accoglienza per migranti. Sale di nuovo su una barca, Alì, ma questa volta dalla parte di chi salva, per fare agli altri quello che è stato fatto a lui. «Se non mi avessero salvato oggi non sarei qui, non farei teatro e non potrei aiutare chi ha vissuto la mia stessa esperienza». E non potrebbe mantenere l’impegno che ha preso con se stesso. «Devo vivere anche la vita di mia madre, di mio fratello di sangue e di tanti altri fratelli. Sono felice di far parte dell’equipaggio. Io ci sono e ci sarò sempre».
(fonte: L'Osservatore Romano, articolo di Marina Piccone 27 maggio 2021)