sabato 3 aprile 2021

Sabato Santo: preghiera di fronte alla Sindone in diretta tv-sat e social - "La sofferenza tra scandalo e mistero" riflessione di Enzo Bianchi

Sabato Santo: preghiera di fronte alla Sindone
in diretta tv-sat e social


Come annunciato da Mons. Nosiglia oggi sabato 3 aprile dalle 16.30 si terrà una speciale liturgia di fronte alla Sindone. Di seguito il testo integrale della sua comunicazione.

In questi tempi tormentati abbiamo bisogno di alimentare e comunicare la nostra speranza. E per noi credenti il modo più efficace di accrescere la speranza del mondo intero è la preghiera comune, il mettersi in ginocchio di fronte al Signore.

Per questo celebriamo, anche nel prossimo Sabato Santo, giorno del silenzio davanti al sepolcro del Signore ma anche dell’attesa della sua risurrezione una speciale liturgia di fronte alla Sindone che ci ricorda questo evento centro vivo della nostra fede e della nostra speranza.

L’appuntamento è dunque per sabato 3 aprile, alle 17, dalla Cattedrale di Torino. La liturgia sarà trasmessa in diretta su TV2000 e il segnale raggiungerà, tramite i satelliti, il mondo intero, grazie alla collaborazione della Segreteria per la Comunicazione della Santa Sede e del Centro televisivo vaticano. Alla diretta televisiva si accompagnerà la presenza sui social media, per permettere a un pubblico il più vasto possibile di partecipare a questo momento. La diretta sui social media inizierà infatti alle ore 16.30, con interventi e testimonianze che preparano alla contemplazione della Sindone.

La preghiera di fronte alla Sindone in questo 2021 non è una semplice ripetizione di quella celebrata nel 2020. Lo scorso anno ci trovavamo in una situazione di emergenza completamente sconosciuta; oggi siamo più consapevoli delle difficoltà da affrontare e degli impegni che possiamo prendere. Soprattutto, abbiamo capito che la prima nostra forza si trova nel continuare con coraggio la vita e aiutare quanti si trovano in difficoltà e necessità. ...



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"La sofferenza tra scandalo e mistero" 
di Enzo Bianchi


Introduzione

In questa mia riflessione ci sono parole balbettate, pensieri appena abbozzati, echi di molte voci ascoltate e interpretate durante la mia vita e certo alcuni squarci di luce che rischiarano i pensieri e i sentimenti, squarci di luce dovuti alla parola del Signore che in diversi modi mi raggiunge.

Parlare della sofferenza, del dolore, e quindi della malattia e della morte, è un’operazione faticosa e difficile, eppure noi umani non possiamo farne a meno. Gli animali subiscono e vivono la sofferenza, ma noi la vogliamo interpretare, vogliamo cogliere in essa l’esistenza o la non esistenza di un senso, vogliamo sapere: unde malum? Cur malum? Ad quid malum? Queste sono le domande che ogni uomo o donna si è posto e si pone sotto il cielo, in ogni terra, in ogni cultura.


1. L’enigma della sofferenza

La sofferenza è un’esperienza universale e l’umano è homo patiens, è sempre un uomo che conosce la sofferenza e che da essa non può evadere. La sofferenza è il caso serio della nostra esistenza, e dove c’è la sofferenza l’uomo è minacciato. La sofferenza può essere fisica, psichica, morale; può essere causata da noi stessi, capaci del male attivo, ma anche da altri o dalla stessa natura, e allora diventa sofferenza subita, passiva. Resta la verità radicale: ogni creatura prima o poi ne è colpita, e comunque la morte, sofferenza ultima ed estrema, coglie ogni vivente… Sentiamo la nostra vita fragile, precaria, minacciata e limitata dal male, e non cessiamo di interrogarci, di gridare o di sussurrare gemendo: “Perché?”. Da millenni di ricerca spirituale non è ancora venuta una risposta. Molti sono stati i tentativi, alcuni dei quali capaci di imporsi come formulazione e di risuonare come dogmi; ma neppure questi sono riusciti a rispondere alla domanda che tutti noi ci ripetiamo puntualmente, soprattutto quando siamo assaliti dalla sofferenza.

Per i cristiani le sante Scritture hanno la capacità di rivelare, di alzare il velo su chi è l’uomo e sul suo rapporto con il Dio vivente, e tuttavia neppure esse giungono a rispondere alla domanda del perché della sofferenza. Da dove viene il male? Non da Dio – ci testimoniano le Scritture (cf. Sap 2,22-24, ecc.) –, ma neanche l’uomo da lui creato ha introdotto il male e la sofferenza nel mondo, anche se vi ha acconsentito fino a essere lui stesso capace di arrecare sofferenza e morte. Non è l’essere umano l’origine del male, anche se del male si è fatto e si fa responsabile nel suo vivere limitato in questo mondo.

In verità non c’è spiegazione al problema del male, della sofferenza, della malattia, della morte. Se nei tempi passati si è cercato di spiegare l’inspiegabile, oggi, con la consapevolezza che possediamo del divenire dell’uomo e delle sue origini, non accettiamo più che la nostra sofferenza derivi dalle colpe di qualcuno che ci ha preceduto e che, di conseguenza, ci sia stata data in eredità. Diciamo la verità: nel tentativo di difendere Dio e di non incolparlo, si è finito per incolpare l’uomo! Oggi sappiamo che non siamo interamente padroni della nostra vita e del nostro destino, a cominciare dalle condizioni della nostra nascita, perché l’esistenza di ciascuno di noi dipende dai genitori, dalle condizioni di vita, di educazione, di cultura, di solidarietà sociale, di benessere o di miseria. Sappiamo di essere fragili, aggredibili da forze mortifere che abitano il nostro pianeta (terremoti, eruzioni vulcaniche, epidemie…); sappiamo di essere abitati da pulsioni di male, coscienti e non coscienti, dunque di essere capaci di procurare sofferenza, ma anche di resistere alla sofferenza, a volte di guarirla o di arginarla: sempre però con dei limiti precisi, imposti dalla nostra condizione di mortali… Anche la nostra responsabilità e la nostra libertà sono limitate.

Dunque la fede cristiana non risolve il problema dell’origine del male e del soffrire, non lo spiega. Anche per chi ha fede in Dio, la sofferenza resta un enigma che può oscillare tra scandalo e mistero. Scandalo innanzitutto, quando l’enigma assume la forma di domande che conosciamo bene, perché ripetute in modo ossessivo in questi ultimi secoli dai sofferenti: com’è possibile che un Dio buono permetta la sofferenza? O non è buono, ma è distante, indifferente, forse anche sadico, oppure è impotente, dunque non è Dio! Si pensi anche alle domande risuonate nel secolo scorso nei campi di sterminio e nei gulag: “Dov’è Dio?”. Ecco come l’enigma della sofferenza diventa scandalo, e noi sappiamo che molti motivano il loro rifiuto di Dio proprio a partire da queste forte senso di giustizia e di amore per l’uomo, da questa com-passione che li abita.

Altri invece nel loro cercare senso percorrono sentieri diversi, giungendo così a leggere l’enigma come mistero. Cosa significa? L’enigma è ciò che è inspiegabile, assurdo, è solo oscurità, mentre il mistero è ciò che è nascosto, non immediatamente compreso, ma che può aprirsi e consegnare una rivelazione. Ecco allora come si può percorrere questa strada verso il mistero. In primo luogo occorre avere il coraggio, la forza di non proiettare su Dio le immagini prodotte in noi dalla sofferenza che ci colpisce. Qui non posso non denunciare come una certa corrente “devota” all’interno del cristianesimo abbia assunto la forma patologica del dolorismo, leggendo in modo sviante la sofferenza di Cristo e quindi proponendo ai sofferenti un esempio sovente non cristiano.

Affermare che è il Signore a mandare la sofferenza per il nostro bene, cioè per purificarci dai peccati, oppure per farci espiare i peccati del mondo, oppure per farci comprendere ciò che altrimenti non comprenderemmo, è dire delle bestemmie! Se nell’Antico Testamento vi sono espressioni che ci mostrano un Dio irato, il quale manda malattia, sofferenza e morte per punire i peccatori o i loro figli, Gesù ha pronunciato un “no” deciso a tali spiegazioni! Egli ha definitivamente spezzato il circolo perverso peccato-castigo divino-sofferenza-morte, rivelando innanzitutto che il malvagio, il peccatore si procura il male e la sofferenza da se stesso, percorrendo una via mortifera. Gesù ha inoltre svelato il volto di un Dio che vuole la vita del peccatore, vuole addirittura perdonarlo e mostrargli il suo amore, affinché si converta e viva nella pienezza della vocazione umana. La sofferenza non viene da Dio, ma dalla nostra condizione umana e anche dal nostro cattivo operare, dal male che siamo capaci di compiere, volontariamente o involontariamente.

Qui vanno chieste intelligenza e grande vigilanza, soprattutto a quanti hanno il compito di accompagnare i sofferenti e di prendersi cura di loro: non ripetano assiomi o parole della tradizione religiosa, che hanno una parvenza di fede cristiana mentre invece sono vane e a volte arrecano ancor più dolore. Negli scritti di una grande donna che ha speso la sua vita nella carità, si legge che un giorno disse a un malato di cancro: “Sii contento, perché Dio ti ha baciato donandoti questa malattia”. Ebbene, io vi dico che, al di là dell’intenzione, queste parole possono suonare come una bestemmia. La sofferenza, la malattia e la morte – lo ripeto ancora una volta – non vengono da Dio, ma dalla nostra condizione umana terrestre, finita, fragile, perché si nasce per morire, nel ciclo della vita.

Non si dica neppure che la sofferenza serve per la nostra purificazione o redenzione. È vero che la sofferenza è un’esperienza umana che può essere apportatrice di insegnamento, può mutarci, può renderci più aperti e comprensivi verso gli altri, più solidali. Ma a volte, il più delle volte, abbruttisce, spinge il malato a chiudersi in se stesso, provoca in lui la depressione; lo sappiamo, a volte lo rende diverso, irritabile, violento, incapace di vivere i rapporti come li aveva vissuti fino ad allora. Il cardinale Jean-Marie Villot, segretario di stato vaticano, sul letto d’ospedale, durante la malattia che lo ha condotto alla morte, ha detto: “Sappiamo pronunciare belle frasi sulla sofferenza. Io stesso ne ho parlato con calore. Dite ai preti di non dirne niente: noi ignoriamo quello che è. Ho pianto per quello che ho detto”. Sì, di fronte all’enigma dell’irriducibile sofferenza, come lo chiamava Paul Ricoeur, enigma che resiste a ogni sapienza e sanziona lo scacco di ogni discorso, occorre percorrere un’altra strada, affinché l’enigma diventi mistero:

occorre avvicinarsi, farsi prossimo al sofferente,
occorre osservarlo e ascoltarlo,
occorre donargli la propria presenza,
e solo in seguito si può osare dire qualche parola che apra cammini di senso.

Non si tratta di trovare o dare risposte all’enigma, tanto meno di fare discorsi “impositivi”, ma di accompagnare la via che il malato può percorrere per fare della malattia e della sofferenza uno spazio in cui cerchi di amare e di accettare di essere amato dagli altri. Il cristiano non conosce strade che aggirino la sofferenza, ma una strada che la attraversi e permetta al sofferente di restare umano, sempre capace di umanizzarsi e di umanizzare chi gli sta accanto. La fede non sopprime l’assurdo, e ogni malato può fare suo il grido di Gesù: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mc 15,33; Mt 27,46; Sal 22,2). Ma può farlo accettando la condizione umana di creatura, chiedendo agli altri di essere aiutato e sollevato dal dolore, cercando di cogliere nella propria sofferenza un luogo in cui Dio gli è accanto più che mai, perché Cristo stesso si è identificato con il sofferente, che sia uno che soffre per fame, per malattia, o per qualsiasi altro bisogno che patisce (cf. Mt 25,31-46). Scriveva il grande teologo della chiesa di Milano Giovanni Moioli, un uomo veramente spirituale, ormai malato e prossimo alla morte:

Alla sofferenza si può dare un senso quando, abbandonato ogni titanismo, negata ogni rassegnazione e ogni resa alla sofferenza, impegnati in una vera resistenza alla sofferenza, senza cadere nella rivolta che contesta o bestemmia la vita o Dio, senza disperare, allora ci si sottomette con un “amen”. Allora si può dire: “Io sono più grande della sofferenza che vivo, perché trovo il segreto della mia esistenza nell’amare e nell’essere amato”. Allora posso dare il nome di “croce” alla mia sofferenza. Ma attenzione: non è la croce che ha reso grande Gesù, bensì è Gesù che ha fatto di uno strumento di morte un luogo per manifestare l’amore: la croce non è dolorista, è epifania dell’amore!

Perché le Scritture dell’Antico e del Nuovo Testamento per ben tre volte chiedono ai credenti di “guardare a colui che hanno trafitto” (cf. Zc 12,10; Gv 19,37; Ap 1,7)? Perché guardare alla croce è per chi soffre guardare a chi ama fino a soffrire, ama nella sofferenza e vincerà con l’amore la sofferenza della sofferenza, cioè la morte. Vorrei concludere questa prima parte, in cui ho tentato di leggere la sofferenza alla luce del mistero, con le parole del grande teologo belga Adolphe Gesché:

La Bibbia non pretende di spiegare, e ancor meno di giustificare il male. Lo situa precisamente nella sua realtà enigmatica, perché il male è là, non si sa da dove viene, ma è là, in qualche modo reperibile … [La parola di Dio testimonia] il rifiuto più radicale del male e di ogni sua giustificazione, grazie all’affermazione più eclatante della sua realtà, del suo non-senso assoluto. Non vi è in questa tradizione nemmeno un’ombra di giustificazione del male, sia essa di ordine morale, o estetico o razionale. Il male è precisamente l’ingiustificabile. Il serpente, infatti, è bollato [in modo definitivo]… : “Perché hai fatto questo, sii tu maledetto” (Gen 3,14).
(Le mal, Cerf, Paris 1993, pp. 104-105 )

Ma se l’umano sa legare la sofferenza all’amore, riesce anche a possedere una speranza contro ogni speranza e può confidare a Dio la sua sofferenza, perché il Signore è un Salvatore compassionevole, è un Dio-uomo che ha conosciuto la sofferenza e l’ha attraversata, amando fino all’estremo (toùs idíous … eis télos egápesen: Gv 13,1).


2. La sofferenza nella vita di Gesù

La sofferenza è stata presente nella vita di Gesù – essendo stato egli uomo, veramente uomo in tutto come noi – sotto due forme: la sofferenza che egli ha incontrato, diventata in lui con-sofferenza, com-passione, e la sofferenza che gli è stata inflitta in tutta la sua vita, quella che lo ha condotto alla morte terribile e vergognosa della croce. Quando leggiamo con attenzione i vangeli, diventiamo innanzitutto consapevoli che gli incontri di Gesù con i sofferenti occupano la maggior parte del tempo da lui vissuto. Possiamo dire che Gesù non si è mai sottratto ai sofferenti e che di loro si è sempre preso cura. Gesù era altro rispetto ai sacerdoti e agli scribi, abituati a incontrare gli uomini e le donne nella sofferenza scrutando il loro peccato, interessandosi della loro colpa. Gesù, al contrario, cercava di comprendere, di conoscere la sofferenza di chi incontrava, di questa si interessava, per portare alla liberazione, e solo dopo vi leggeva il peccato, per assolvere totalmente dal peso della colpa. Non ha mai pensato che la sofferenza fosse salario, castigo per il peccato, ma sapeva vedere in essa un frutto del male e della sua potenza, da lui individuata con diversi nomi: Satana (colui che si oppone), diavolo (colui che divide), demonio (colui che ha forza), Principe di questo mondo…

Possiamo dire che Gesù ha tracciato una via riguardo alla sofferenza, una via che noi, alla sua faticosa sequela, possiamo percorrere dietro a lui che sempre ci precede. Il cammino da lui tracciato è un cammino di mitezza e di umiltà: “Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi darò riposo … Imparate da me, che sono mite e umile di cuore” (Mt 11,28-29). Al suo seguito non dobbiamo pretendere di dare spiegazione né giustificazione alla sofferenza. Gesù ha rifiutato le spiegazioni correnti, comuni circa il male: non sono stati i genitori, con i loro peccati, la causa della cecità del figlio (cf. Gv 9,1-3); non erano più peccatori degli altri quelli su cui crollò la torre di Siloe (cf. Lc 13,4-5), “perché Dio fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti” (Mt 5,45). Se noi contempliamo Gesù, vediamo un uomo (e i cristiani nella fede vedono anche Dio!) che ha lottato contro la sofferenza della malattia fisica, psichica e mentale e delle marginalizzazioni ed esclusioni che ne derivano. Ha lottato contro ogni forma di sofferenza con le sue parole, spesso prendendosi cura del sofferente, qualche volta portandolo anche alla guarigione. Nella lotta di Gesù contro la sofferenza c’è la lotta di Dio contro il male! Non è un caso che Gesù sia differente da tutti i profeti che l’hanno preceduto: durante la sua vita terrestre mai ha inviato una sofferenza a qualcuno, mai ha compiuto un’azione di castigo, perché la sofferenza non era sua alleata, ma un avversario da combattere e da cui liberare le persone che incontrava. Chi ha vissuto con lui è potuto arrivare all’applicazione a lui stesso, a Gesù, della profezia di Isaia sul Servo sofferente: “Egli ha preso su di sé le nostre sofferenze e si è caricato delle nostre malattie” (Is 53,4; Mt 8,17).

Alla sequela di Gesù ci accorgiamo che egli è stato molto discreto sulla sofferenza, molto parco di parole al riguardo: Gesù si interessava dei sofferenti, non della sofferenza, così come si interessava dei poveri, non della povertà! Per lui la sofferenza era il vissuto delle persone diverse, con sofferenze diverse, diversamente vissute. Per questo era capace di commozione profonda, di com-passione che sconvolgeva le sue viscere, come i vangeli annotano con frequenza (cf., per esempio, Mc 1,41; 6,34; Mt 14,14). Gesù si avvicinava, si faceva prossimo all’altro, e una volta vicino, faccia a faccia, cercava di leggere e di ascoltare la sua sofferenza. Non si imponeva, non si presentava come un guaritore o un taumaturgo, ma faceva domande, chiedeva al sofferente cosa desiderava, tentava sovente un contatto, addirittura con il tatto, con il toccare (Francesco di Assisi si è ispirato a Gesù quando ha baciato il lebbroso!), per dare il segno di un’esperienza concreta di relazione: in questi incontri il posto centrale non era riservato a ciò che Gesù faceva, ma a ciò che riusciva a dire con la propria presenza. La sua com-passione non era mai invadente, lasciava la libertà al sofferente e, una volta che lo aveva curato o guarito, Gesù lo inviava nuovamente alla sua vita, ai suoi, senza trattenerlo. È significativo che mai abbia chiesto a un sofferente: “Offri a Dio la tua sofferenza”. Mai! Perché? Perché giudicava questa espressione una scorciatoia devota ma sviante. Non si offre a Dio ciò che è male, per questo André Sève ha potuto scrivere:

Cristo non ha offerto la sua sofferenza al Padre,
ma gli ha offerto ciò che diventava in quella sofferenza:
un essere che andava fino in fondo, fino all’estremo.
fino al punto più profondo dell’amore,
fino al vertice dell’amore capace di salvare.

Il sofferente, dunque, non dice: “Ti offro la mia sofferenza”, come se Dio avesse bisogno del dolore, bensì: “Ti offro la mia vita nella quale ci sono anche sofferenze. Ti offro i miei tentativi di vivere l’amore e di accogliere l’amore. Ti offro la mia intera vita, in cui ci sono gioie e sofferenze, e ti chiedo di mandarmi il tuo Spirito, perché possa continuare a resistere alla sofferenza e a combatterla e possa comprendere ciò che per me è incomprensibile”. Gesù stesso ci dà l’esempio di questo atteggiamento nelle ore che precedono il suo arresto, quando, in preda alla sofferenza, nell’orto degli Ulivi (cf. Mc 14,32-42 e par.) cade ripetutamente a terra, suda sangue (cf. Lc 22,44) di fronte alla morte violenta e maledetta che si avvicina, chiede più volte al Padre di allontanare da lui quel calice, lo chiede in una vera lotta con Dio, perché di fronte a quell’enigma sente dentro di sé la ribellione. Ma in quel conflitto l’enigma diventa mistero, finché Gesù può dire: “Non la mia, ma la tua volontà sia fatta!”. Per questo, secondo Luca, Gesù non porta la croce, ma la abbraccia!

Che cosa ha vinto la paura, la sofferenza di Gesù? Il suo amore eis télos! La sua morte non è stata quella di Socrate, ma un atto preciso: “Padre, nelle tue mani depongo il mio respiro” (Lc 23,46; cf. Sal 31,6). Gesù non ha negato la sofferenza; non l’ha allontanata, perché non poteva; non l’ha subita rassegnato, come se un destino incombesse su di lui: no, l’ha attraversata, continuando a cercare il senso della sua vita, pur nella sofferenza. Qui è definitivamente l’exeghésato (Gv 1,18) del Padre, di Dio: ovvero, con la sua umanità, nella storia, essendo proprio lui “l’immagine del Dio invisibile” (Col 1,15), Gesù ci ha narrato che Dio si impegna accanto all’uomo nella lotta contro il male; che Dio, come dice il salmo, fa sentire al sofferente la sua voce (“Nell’angoscia io sono con lui”: Sal 91,15); che Dio, entrato nella condizione umana, spogliatosi completamente delle sue prerogative divine (cf. Fil 2,6-8), ha assunto tutto di noi mortali, fragili, sofferenti, tutto eccetto il peccato (cf. Eb 4,15). Ormai la nostra carne di Adamo, carne di Gesù, è in Dio; ormai non si può più dire “Dio” senza dire “uomo” né si può più dire “uomo” senza dire “Dio”. Nella trasfigurazione della carne umana avvenuta in Cristo risorto, i segni della sofferenza, le cinque piaghe nelle mani, nei piedi e nel costato testimoniano che Dio ha patito in Gesù Cristo e che la sofferenza è stata vinta con la resurrezione, perché l’amore vissuto da Gesù, il Figlio dell’agápe che è Dio (cf. 1Gv 4,8.16), è stato più forte della morte.

In virtù di tutto ciò, che cosa dunque attende noi cristiani, discepoli del Signore Gesù Cristo? Dobbiamo innanzitutto cambiare il nostro sguardo su Dio, per non dargli un volto perverso, per non fermarci allo scandalo della sofferenza e per tentare di far emergere dall’enigma del dolore la possibilità del mistero della vita. Noi oscilliamo tra l’essere ciechi e l’essere voyeurs… Dovremmo invece cercare di essere “vedenti”, di tenere i due grandi occhi aperti – come afferma Johann Baptist Metz – per guardare e vedere: vedere non dall’alto, ma faccia a faccia, nella vicinanza, nella prossimità. Occorre poi passare dal vedere all’ascoltare e quindi dall’ascoltare al toccare concretamente i corpi perché, se è soprattutto il corpo a essere attaccato dalla sofferenza, è nel corpo che deve essere sperimentata la carità, la solidarietà, la relazione, la presenza: infatti, “nihil est in intellectu quod non sit prius in sensu” (Tommaso d’Aquino, Quaestiones disputatae de veritate, q. 2 a. 3 arg. 19).

Guardare Gesù, contemplare la sua vita umana quotidiana, fino a guardare colui che è stato trafitto: questa è la via per fare passare la sofferenza dallo scandalo, o dall’enigma, al mistero. Si tratta di qualcosa che è molto semplice: umanizzare la sofferenza. E si deve fare attraverso le infinite vie che noi umani possiamo imboccare con consapevolezza e carità trasparente: avvicinarsi e rendere prossimo il sofferente, ascoltarlo, rispondergli e parlargli più con i gesti che con le parole, offrirgli la nostra presenza, fargli sentire che soffriamo con lui, aiutarlo a rinnovare la fiducia e la speranza, fargli capire che in ogni caso l’amore, ossia ciò che si vive nell’amore, vincerà la morte, e dunque sarà possibile essere di nuovo in relazione, in comunione. Se qui sulla terra la relazione è stata vera, forte, amorosa, potrà forse essere vinta dalla morte? No, è solo destinata a risorgere. Gesù ha detto: “Chi crede in me, anche se muore, vivrà” (Gv 11,25), e il discepolo amato ha così tradotto queste parole: “Chi ama il fratello, è passato dalla morte alla vita” (cf. 1Gv 3,14).


Conclusione

Questa meditazione avviene in occasione dell’ostensione della Sindone, icona che il Servo del Signore ci ha scritto nella sua sofferenza fino alla morte. In quel volto e in quel corpo appena tratteggiati noi intravediamo Gesù eis télos, “alla fine”, “all’estremo” della sua vita e del suo amore; ma vediamo anche la sintesi di tanti volti sofferenti di uomini e donne che nella loro vita sono stati assimilati a quest’uomo. “Ecce homo!” (Gv 19,5), l’uomo per eccellenza, l’uomo che nella sofferenza ha dato la vita per gli altri, l’uomo debole, precario, portato alla morte dall’ingiustizia degli umani che non tollerano di vedere il volto di un giusto (cf. Sap 1,16-2,20).

Questo volto
è il volto dei cristiani perseguitati nei nostri giorni (penso a quei cristiani copti trucidati mentre gridano il nome di Gesù sulle coste libiche, le stesse dove i romani nei primi secoli martirizzavano i cristiani);
è il volto dei malati che, tornati a casa, trovate nel letto o su una sedia, paralizzati e incapaci di rialzarsi;
è il volto del vecchio colpito dal morbo di Alzheimer, che con il suo sguardo inespressivo vi trafigge il cuore;
è il volto del bambino o del giovane diversamente abile che incontrate per strada.

È lo scandalo! E se volete farlo diventare mistero, fermatevi, avvicinatevi, prendete quel volto tra le mani e baciatelo con venerazione! Sentirete dentro di voi, nel vostro cuore: “Tu lo stai facendo a me!” (cf. Mt 25,40), e dietro quel volto vedrete il volto di Gesù.

Allora il mistero si apre, la vita anche nella sofferenza ha un senso e può essere vita, relazione, comunione.