martedì 2 febbraio 2021

Perché i giovani non debbano suicidarsi di Giuseppe Savagnone

Perché i giovani non debbano suicidarsi
di Giuseppe Savagnone

Autolesionismo e suicidi di giovani al tempo del Covid

Ai primi di dicembre l’allarme sugli effetti della pandemia a livello psicologico veniva dai medici dell’Azienda Sanitaria di Trento, che denunciavano un numero di suicidi, tra i giovani, «neanche lontanamente paragonabile a quelli degli anni scorsi». In questo inizio d’anno, è il professor Stefano Vicari, responsabile di Neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza dell’ospedale pediatrico «Bambino Gesù» di Roma, a segnalare il crescente disagio di ragazzi e bambini: «Io non ho mai avuto tanti accessi al pronto soccorso di tentativi di suicidio e di autolesionismo (…). Ho avuto ragazzini di 12 anni che si sono buttati dalla finestra (…). Mi arrivano ragazzini in ambulanza da tutto il Centro Sud e ora anche dal Nord».

Oltre il negazionismo

I “negazionisti” continuano a ripetere che stiamo enfatizzando, attribuendoli al Covid, fenomeni patologici che si verificavano già negli anni passati, e che nulla è cambiato nella realtà. Ed è vero che il suicidio, in Italia, è la seconda causa di morte dei giovani dai 10 ai 25 anni, dopo gli incidenti stradali.

Ma, a dimostrare il reale aggravarsi del fenomeno ai nostri giorni basta il confronto fatto dal neuropsichiatra del «Bambino Gesù»: «Nel 2011 abbiamo avuto 12 ricoveri per attività autolesionistica, a scopo suicidario e non, mentre nel 2020 oltre 300, quindi quasi uno al giorno».

La minaccia non è solo per la salute fisica e per l’economia

In questi mesi si è molto parlato della minaccia che il Covid rappresenta per la nostra salute fisica. Oppure della crisi economica, determinata sia dai pericoli oggettivi di contagio, sia dalle misure imposte dal governo per contenerlo. Molto meno spazio è stato dedicato alle conseguenze che la pandemia sta avendo, a livello conscio o inconscio, nella psiche delle persone, soprattutto di quelle meno capaci, per la loro giovane età, di metabolizzare i limiti e le incognite presenti nel nuovo contesto.

È mancata la scuola

Lo stesso dibattito sulla riapertura o meno delle scuole ha avuto come sfondo due temi, entrambi importanti, ma nessuno dei quali riguardava il problema della salute psicologica dei ragazzi. Nel caso della scuola primaria e secondaria di primo grado, l’urgenza è stata di consentire ai genitori di continuare la loro attività lavorativa; per quella secondaria superiore, si sono – peraltro giustamente – sottolineate le difficoltà della didattica a distanza nel garantire un efficace svolgimento delle lezioni. Forse non si è tenuto abbastanza conto del fatto che la scuola non è solo il luogo della trasmissione della cultura, ma anche quello delle relazioni umane indispensabili al consolidamento e alla crescita della personalità e che proprio a questo livello la Dad costituisce una pesante deprivazione per i più giovani.

Non basta il virtuale per dare colore alla vita

Perché il rapporto umano, per essere tale, non può rimanere solo virtuale. Pur nella piena consapevolezza dei grandi contributi che la tecnica può offrire alla scuola, come ad ogni altro tipo di esperienza comunicativa – e quindi ben lungi dal cadere in quell’atteggiamento puramente negativo che impedisce di vedere e di valorizzare l’apporto dei nuovi mezzi per arricchire sia la didattica che molte altre attività culturali –, non si può tuttavia rinunciare al primato di quel tipo di relazione in cui le persone sono coinvolte nella loro interezza psico-fisica.

E non è stata solo la comunità scolastica a venir meno. La palestra, i momenti di svago vissuti con i coetanei al pub o in pizzeria, la stessa deprecata movida, costituivano momenti importanti di sfogo per tanti giovani (e non solo per loro). Le serie televisive seguite da casa non sono sufficienti a compensarli. La vita si è impoverita, ha perso molti dei colori che la rendevano affascinante o almeno piacevole.

Il pericolo della dipendenza dallo schermo

Peraltro, la cosa più terribile non è che i ragazzi soffrano di questa condizione irreale, ma quando non ne soffrono più. Quando si abituano a relazionarsi alle altre persone e alla realtà attraverso lo schermo del computer, del tablet o dello smartphone al punto da perdere perfino la nostalgia degli spazi esterni, delle strette di mano, degli abbracci, delle chiacchierate in gruppo. Perché lo schermo non è solo un valido strumento di comunicazione, è anche un filtro, una difesa – da qui il verbo “schermirsi” e l’espressione “farsi schermo con la mano” – che attenua l’impatto con la realtà e con le altre persone. Può diventare difficile, a chi si assuefà a questa “anestesia”, affrontare i volti, i gesti, le parole di interlocutori in carne ed ossa. È forse a questo che pensa il professor Vicari quando osserva che «sarà impegnativo convincere i ragazzi a uscire di nuovo di casa».

Un divenire senza senso

Ma forse sulla depressione dei giovani – l’iceberg di cui gli atti di autolesionismo sono solo la punta emergente – influisce anche un altro fattore, oltre a quello del rarefarsi della sfera relazionale, ed è la perdita del senso del futuro. È una malattia che affligge la nostra cultura già da molto prima della pandemia. Alla origini della post-modernità sta la tesi di Nietzsche che il progresso è un’illusione e che la storia, con le sue passioni, le sue apparenti rivoluzioni, le sue vicende liete o drammatiche, è un eterno ritorno di ciò che è già stato. Un divenire, insomma, magari affannoso, ma che non porta da nessuna parte.

Da qui un clima culturale che ha privilegiato l’“attimo fuggente”, il “carpe diem”, e ha fatto apparire superflue le domande sul “senso” – nella duplice accezione di “direzione” e di “significato”–, di tutta la nostra frenetica corsa quotidiana. Da qui, anche, lo scarso interesse della maggior parte dei giovani per la politica, che dovrebbe essere basata sulla progettazione del futuro. Anche se, in questo clima, essa si è sempre più ripiegata su logiche difensive, puntando sulla paura e sul mantenimento dell’esistente.



L’effetto della pandemia

Da questo punto di vista, la pandemia ha solo portato all’estremo una malattia dell’anima che già ci corrodeva e che spiega l’indebolimento delle passioni, già segnalato da molti ben prima del suo esplodere. È del 2010 la diagnosi spietata del 44° Rapporto Censis sul nostro Paese: «Sembra avvenire ogni giorno di più che il desiderio diventi esangue, senza forza, indebolito da una realtà socioeconomica che da un lato ha appagato la maggior parte delle psicologie individuali attraverso una lunga cavalcata di soddisfazione dei desideri (…) e che dall’altro è basata sul primato dell’offerta che garantisce il godimento di oggetti e di relazioni mai desiderati, o almeno non abbastanza desiderati».

Il Covid ha però capovolto il movente di questa mancata proiezione dei giovani verso il futuro: non un eccesso consumistico che toglie il gusto di desiderare , appagando sul nascere tute le pulsioni, ma il venir meno di tutte le prospettive su cui normalmente si poteva puntare, sul piano economico, lavorativo, esistenziale. In questa versione, la perdita del futuro si manifesta più chiaramente nel suo profondo significato di “disperazione”. Il vuoto che prima i nostri giovani vivevano in modo indolore, ora si manifesta più crudamente come motivo di depressione.

La mancanza di progettualità degli adulti

È appena il caso di dire che la responsabilità di questo clima non è solo della pandemia, ma del modo in cui noi adulti continuiamo ad affrontarla. Era così anche prima. Non c’è stato bisogno del Covid per lavorare alacremente, a livello mondiale, alla desertificazione del nostro pianeta e, a livello nazionale, al crescente accumularsi di un debito pubblico che schiaccerà chi verrà dopo di noi. E da tempo, anche nelle famiglie, non eravamo più in grado di offrire altri obiettivi che quelli relativi alla “sistemazione” personale e alla difesa del nostro attuale tenore di vita.

Basta guardare allo scenario politico per rendersi conto che questa incapacità di dare un “senso”, una direzione, alla vita individuale e collettiva, si sta perpetuando nel tempo della pandemia. Al di là dei fattori contingenti, gli osservatori più acuti sono d’accordo sul fatto che, in questo momento, il vero limite, sia del governo, sia dell’opposizione, è di non avere un vero progetto che dia significato alle loro proposte settoriali.

Mettere mano a una cultura che apra speranza

Certo, i nostri giovani non si suicidano (come qualche adulto è tentato di fare) alla vista dei disastrosi scenari della politica. Forse, se si chiedesse loro perché stanno così male, non lo saprebbero neppure dire. Ma noi, gli artefici di questa società, i seminatori, consapevoli o inconsapevoli, di questa cultura senza futuro (è da noi che i nostri figli l’hanno recepita), non abbiamo il diritto di stupirci del loro profondo disagio.

Ma, se vogliamo riparare, non basterà creare le condizioni della riapertura in sicurezza delle scuole o altre singole misure. Qui è necessario mettere mano a una nuova cultura, pensarla, diffonderla. Per ritrovare noi stessi qualcosa che valga la pena di costruire nel lungo termine e offrirlo ai nostri figli, perché abbiano di nuovo la possibilità di sperare.
(fonte: TUTTAVIA 22/01/2021)