sabato 27 febbraio 2021

"La via crucis della rotta balcanica" di Simonetta Venturin

"La via crucis della rotta balcanica"
di Simonetta Venturin (*)


E' iniziata in sordina, a partire dal 2015, e via via è andata prendendo vigore. Oggi migliaia di migranti la percorrono, con incerta - sempre più incerta - fortuna, finendo per lo più bloccati in un campo nelle isole greche o in qualche altro paese dalla Macedonia alla Bulgaria, passando per Serbia e Croazia fino a bussare all’Italia. Sono malvisti, cacciati e scacciati: nessuno li vuole, tutti li respingono, talvolta vengono letteralmente braccati.

foto: archivio Ipsia-Acli

E’ iniziata in sordina, a partire dal 2015, e via via è andata prendendo vigore. Oggi migliaia di migranti la percorrono, con incerta – sempre più incerta – fortuna, finendo per lo più bloccati in un campo nelle isole greche o in qualche altro paese dalla Macedonia alla Bulgaria, passando per Serbia e Croazia fino a bussare all’Italia. Sono malvisti, cacciati e scacciati: nessuno li vuole, tutti li respingono, talvolta vengono letteralmente braccati.

L’argomento della rotta Balcanica è spinosissimo e sempre legato alla prospettiva da cui lo si guarda. Per i paesi che vengono attraversati questi migranti sono un peso da scrollarsi di dosso. Visti da fuori sono persone a cui si chiede di vivere sotto, profondamente sotto, la soglia della dignità che all’umano appartiene.

Nella politica – comune e condivisa – dello scaricabarile le contraddizioni si sommano senza escludere nessuno dei coinvolti a partire dall’Europa stessa, che con una mano paga alla Turchia sei miliardi di euro purché trattenga i migranti e non li lasci risalire fin nel suo cuore e con l’altra le rifiuta l’ingresso nell’Unione a causa del mancato rispetto dei diritti umani. Un cortocircuito logico dai disastrosi esiti umanitari.

Poi ci sono gli stati citati, che i migranti devono attraversare per raggiungere le loro mete, di solito orientate al nord. Nello Scavo, giornalista di Avvenire che da tempo segue la questione migranti nelle rotte di terra e di mare (Lampedusa), ha scritto più volte – e ribadito di recente in un webinar aperto alle Caritas italiane – che neanche a pagamento gli stati attraversati dalla rotta sono disposti a gestire il problema, né a dare ospitalità, accoglienza, campi migliori e integrazione alle persone in fuga. Rifiutano pure l’apertura di corridoi umanitari. Il perché sta nella logica umana di chi sta meglio: se si diffonde la voce, di migranti ne arriveranno ancora di più, invece l’obiettivo è fermarli. Nel frattempo, la realtà di quel che accade è scritta su braccia e gambe di chi è stato fermato, nelle cronache dei campi incendiati, negli scioperi della fame di questi invisibili.

Emblema della situazione è diventato il campo profughi di Lipa, andato a fuoco il 23 dicembre e ancora senza soluzione. Quasi mille uomini cercano ora di sopravvivere nella neve della Bosnia sotto tende precarie: li abbiamo visti tutti nei tg.

La strategia di dividere gli uomini dalle donne e bambini (assonanze da brivido ad un mese dal Giorno della memoria) è funzionale ai guardiani: meno problemi, meno tensioni, ma non meno violenze che si abbattono su donne e bambini. Questa divisione distorce pure la verità per chi guarda da fuori: non sono solo giovani maschi a spostarsi, a sognare un’Europa che ora scoprono così lontana.

Fuori dai campi, in zone abbandonate dalla guerra della ex Jugoslavia e in ruderi fatiscenti, intere famiglie – con bambini senza scuola – cercano di vivere, senza porte e finestre nell’inverno balcanico, provando il game. Così viene chiamato ogni tentativo di ingresso nello stato successivo: una roulette affidata alla buona sorte e aiutata da laute mance ai passeur – gli scafisti di terra – nuova veste di mafie e malavita. Sono tante le frontiere da passare dalla Turchia a Trieste: ogni filo spinato esige soldi, ripetuti tentativi, mesi di attesa e rischio perenne di essere ricacciati indietro.

Si tratta perlopiù di afghani e pakistani, ma come ha spiegato Scavo, sono così giovani che spesso l’Afghanistan non lo hanno quasi visto: vissuti a loro volta nei campi per rifugiati, dove hanno coltivato il sogno – e il bisogno – di un futuro altrove. A volte si nascondono nei boschi, sperando in un varco dal quale entrare nella civiltà sognata.

Anche Laurence Hart dell’Agenzia internazionale per le migrazioni ha confermato: “Non sono capricci che li guidano, ma situazioni tragiche di pericolo di vita” (Radio Rai3, Fahrenheit, 4 febbraio). Si tratta di richiedenti asilo, tra i quali ci sono donne e tanti minori anche non accompagnati di cui spesso si perdono le tracce: “E perderli significa alimentare la tratta e la prostituzione” (sempre Hart).

Un quarto dei migranti presenti in Italia è arrivato dalla rotta balcanica; nel 2020 circa 4mila persone sono entrate via terra da Nordest. Hart ha confermato concentrarsi nei confini tra Stati le zone più insidiose, quelle in cui si verificano le riammissioni, eufemismo per respingimenti: con cani, fucili, bande armate che la polizia dei confini – specie della Bosnia – dice costituite da privati armatisi spontaneamente per difendere il territorio.

Eppure le migrazioni sono, per definizione, un fenomeno naturale per i popoli. Diventano un problema quando manca la volontà di un coordinamento sul da farsi, di una sinergia nelle accoglienze. A nulla o poco vale ricordare che gli immigrati producono il 9,5 del Pil italiano; inascoltato l’invito a vederli come portatori di ricchezza economica oltre che umana e culturale. La realtà è un’altra: se la rotta balcanica si è trasformata in una Via Crucis, anche molti tra noi gridano Crucifige.

(*) direttore “Il Popolo” (Pordenone)
(Fonte: Sir 25 febbraio 2021)

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