"Vita interiore e politica"
di Luciano Manicardi
testo pubblicato su HOREB 87 -N. 3 del 2020
"VITA SPIRITUALE E IMPEGNO POLITICO"
Abitare se stessi?
Se la vita interiore è la capacità della persona umana di abitare se stessa dobbiamo chiederci: sappiamo abitare noi stessi? Ci troviamo a casa
nostra con noi stessi? O stiamo diventando un non-luogo a noi stessi?
Ovvero, non una dimora, ma un luogo di transito a cui siamo fondamentalmente estranei? O addirittura stiamo diventando delle sabbie mobili in
cui noi stessi affoghiamo: perché non ci conosciamo, non sappiamo decifrare cosa ci succede, perché siamo schiacciati da quelle realtà che tanti
psicanalisti e psicoterapeuti constatano ogni giorno: ansia, angoscia,
stress, fatica, demotivazione, non senso, volontà suicidaria, grigiore, stanchezza, depressione. Ora, se abitare se stessi è segno di una vita interiore,
ecco invece che vediamo oggi la grande tentazione della fuga da se stessi,
per l’enorme fatica di essere se stessi.
La fuga da se stessi
Tutti noi abbiamo bisogno di momenti di evasione, di non essere sempre presenti a noi stessi e alle nostre responsabilità, al nostro ruolo che viviamo in famiglia, sul lavoro, a scuola. Abbiamo bisogno di prendere respiro dal nostro essere figli di, padri o madri di, impiegati nel negozio di, insegnanti di, presidi di, eccetera. Vedere un film, leggere un libro, fare una passeggiata, sono momentanee pause che ci consentono di prender fiato per poi tornare alle nostre responsabilità rinfrancati. Ma oggi la quotidianità ci pesa particolarmente. Nella società della prestazione, che esige persone performative soprattutto sul lavoro, nella società che produce scarti, che richiede la costruzione della propria identità al soggetto, che esige che si sia sempre all’altezza dei legami sociali, può insorgere più facilmente che in altri tempi la sensazione di non farcela, di non essere all’altezza, e quindi la tentazione di fuggire da sé. E normalmente le manifestazioni e gli esiti di questa tentazione contemporanea sono devastanti. Si pensi al sonno compulsivo, all’anoressia, alle dipendenze dall’alcool, alle ludopatie, alle dipendenze da internet, al burnout prodotto dai ritmi frenetici di lavoro e dalla concorrenzialità spietata, si pensi alle depressioni, alle malattie psichiatriche per cui la persona si frantuma in tante personalità, si pensi a chi moltiplica la sua attività riducendo il proprio essere al fare. Si pensi agli hikikomori giapponesi, ai giovani che cercano lo sballo, che vivono l’estrema mobilità delle amicizie, che scompaiono dietro a un video o a connessioni in cui un nickname li mantiene nell’anonimato e li protegge dall’incontro faccia a faccia. Si pensi infine alle persone che scompaiono senza lasciare traccia di sé e a chi si toglie la vita (1). Occorrerebbe capacità di abitare se stessi e di alternare momenti di pausa ai momenti di responsabilità. Una vita interiore poi necessita di silenzio e di solitudine, di ascolto di sé e di riflessione. In tempi in cui le troppe cose che ci abitano e ci invadono ci gettano fuori di noi stessi, come diviene praticabile tutto questo? L’arte di conoscere se stessi è difficile, faticosa, e il demone della facilità è decisamente più potente.
Interiorità e politica
Se già è difficile l’istituirsi di una vita interiore, articolare il suo rapporto con la politica è ancor più problematico. Anche se le cose, in realtà, sono estremamente semplici. Coltivare una vita interiore è il primo passo per la costruzione e per la partecipazione feconda alla vita della polis, perché l’interiorità è il luogo dove si forgia la libertà, dove si elaborano le convinzioni che conducono a scelte e decisioni che hanno un impatto politico, dove matura la forza di dire di no, dove si pensa l’oggi e si immagina il futuro. In questo senso, nutrire una vita interiore è virtù del cittadino
Lo spazio del politico e dell’interiorità
«La politica si fonda sul dato di fatto della pluralità degli uomini, […] tratta della convivenza dei diversi, […] nasce tra gli uomini, […] nasce nell’infra, e si afferma come relazione» (2). In quella relazione, in quel “tra”, nello spazio vuoto tra gli uomini, tra me e l’altro, tra me, l’altro e il terzo, dunque nello spazio interpersonale e sociale, la politica incontra anche la dimensione dell’interiorità. Dimensione che va intesa innanzitutto negativamente come rifiuto del paradigma dell’homo absolutus, sciolto da legami e che declina la libertà come rigetto dei vincoli. Quindi come ripudio del mito del self-made man, dell’uomo che non deve nulla a nessuno, della persona chiusa nella ricerca del particulare, che riduce il mondo alle dimensioni della propria ristretta cerchia di interessi, dell’uomo che non si interroga, che non conosce né dubbio né incertezza né ricerca. Inoltre, se alla radice di una cattiva politica vi è una cattiva cultura, dietro a comportamenti politicamente scorretti ed eticamente inammissibili vi è una profonda carenza culturale che non consiste tanto nell’individualismo diffuso o nell’idea che il bene morale coincida con il perseguire il proprio interesse, ma più radicalmente nel fatto che oggi la gente non conosce quale sia il vero interesse. Il problema non è che la gente sia troppo egoista, ma che non sa amare se stessa; non è che si occupi del proprio interesse, ma che non si occupi abbastanza dell’interesse del suo vero io che in verità non conosce. Il “tra” che riguarda le relazioni interpersonali e sociali, deve dunque essere completato con il “tra” che ogni persona vive con se stessa. Dimensione interiore che poi va colta positivamente come spazio accordato alle questioni del senso inteso come direzione, significato e gusto, come assunzione cosciente di sé quale materiale da elaborare per umanizzarsi, per divenire se stesso, come ricerca di ciò che è al centro dell’esistenza umana e come realizzazione piena dell’umano nella via del perseguimento del bene comune, come sforzo di pensiero e di azione che abbia di mira il “noi”, come rispetto profondo della sacralità di ogni persona. È una sacralità concepita nel senso radicale in cui ne parla Simone Weil:
«In ogni uomo vi è qualcosa di sacro. Ma non è la sua persona. E neppure la sua persona umana. È semplicemente lui, quell’uomo. Ecco un passante: ha lunghe braccia, occhi celesti, una mente attraversata da pensieri che ignoro, ma che forse sono mediocri. Ciò che per me è sacro non è né la sua persona né la persona umana che è in lui. È lui. Lui nella sua interezza. Braccia, occhi, pensieri, tutto. Non arrecherei offesa a niente di tutto questo senza infiniti scrupoli» (3)
Questa sacralità ha la sua scaturigine nel bene e non sopporta che venga fatto il male: «Ogni qualvolta sorge dal profondo di un cuore umano il lamento infantile che il Cristo stesso non ha potuto trattenere: “Perché mi viene fatto del male?”, vi è certamente ingiustizia» (4). Lo sviluppo della vita interiore è un lavoro spirituale che, quando incontra la politica, non può che ispirare una “politica dei volti”, una politica sensibile alla sofferenza, al grido “Perché mi viene fatto del male?”, che sovente resta inespresso, perché chi più subisce violenza è spesso chi meno ha parola per difendersi e meno è capace di esprimersi. Una politica in cui il “noi” della collettività vuole articolarsi con il massimo rispetto per l’“io” di ciascuno, con il volto e il corpo di ciascuno. In effetti, non esiste solo il “tra” che separa gli uomini, ma c’è uno spazio anche tra me e me, quello in cui si inserisce la domanda: chi sono? E si inseriscono tutte le domande inerenti il senso del mio essere al mondo e la modalità delle mie relazioni con gli altri e con il mondo. E anche questo “tra” ha valenza politica e indica che la vita interiore riguarda la politica
La vita interiore, ovvero, la politica come ascesi
«La politica consiste in un lento e tenace superamento di dure difficoltà, da compiersi con passione e discernimento al tempo stesso. È perfettamente esatto, e confermato da tutta l’esperienza storica, che il possibile non verrebbe raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l’impossibile. Ma colui il quale può accingersi a quest’impresa deve essere un capo, non solo, ma anche – in un senso molto sobrio della parola – un eroe. E anche chi non sia l’uno né l’altro, deve foggiarsi quella tempra d’animo tale da poter reggere anche al crollo di tutte le speranze, e fin da ora, altrimenti non sarà nemmeno in grado di portare a compimento quel poco che oggi è possibile. Solo chi è sicuro di non venir meno anche se il mondo, considerato dal suo punto di vista, è troppo stupido o volgare per ciò che egli vuol offrirgli, e di poter ancora dire di fronte a tutto ciò: “Non importa, continuiamo”, solo un uomo siffatto ha la “vocazione” (Beruf) per la politica» (5).
Il celebre testo di Weber “La politica come professione” termina con queste ispirate parole circa l’uomo che ha la vocazione per la politica. Circa l’uomo, cioè, che “fa” politica. Il ritratto abbozzato da Weber fa emergere un invisibile dell’uomo politico, una sua dimensione profonda e nascosta che si sottrae all’apparire, che rifugge l’esibizione, che abita la profondità e – protetta dal pudore – detesta la superficialità. Questo ritratto parla, senza nominarla, della solitudine dell’uomo politico. Una solitudine intrisa di forza e di saldezza perché frutto di ascesi, di dedizione all’esercizio dell’arte di conoscersi, di esame di sé, di dialogo e lotta interiori, di pensiero e riflessione, di capacità di reggere l’urto di situazioni sfavorevoli e disperanti, senza lasciarsi abbattere. Parlare di interiorità e politica richiede anche di parlare della qualità umana della persona che si dedica alla politica, che cioè ha la vocazione (Beruf) alla politica o che ne fa una professione (Beruf). E che in questo “professare la politica” unifica mestiere e credenza, professione e professione di fede, unifica soprattutto le due dimensioni della responsabilità e della convinzione che sono le due etiche o dimensioni dell’etica sottolineate da Weber nel suo saggio. Dimensioni non esclusive l’una dell’altra (6). Poiché, infatti, l’azione politica sempre è a servizio di una causa, la causa a cui il politico si consacra implica una fede: «Egli può servire la nazione o l’umanità, può dar la sua opera per fini sociali, etici o culturali, mondani o religiosi, […] sempre però deve avere una fede» (7). Weber ritiene che chi si impegna in politica debba accordare un’attenzione particolare alla cura della propria vita interiore: la politica, che conduce l’uomo a gestire forza e potere, porterà con sé “pericolose tentazioni”, condurrà a incontrare il male, a confrontarsi con potenze diaboliche (8), a subire seduzioni potenti e richiederà perciò discernimento e saldezza, conoscenza di sé e lotta interiore, capacità di volere e capacità di dire di no. Se la dedizione alla politica esige passione, senso di responsabilità e lungimiranza, essa richiede un rigoroso esercizio al governo di sé e delle proprie passioni per acquisire forza e autorevolezza. E magari l’assunzione di quella virtù che si chiama coerenza (9). In particolare, Weber ricorda la tentazione della vanità da cui il politico si deve guardare: «L’uomo politico deve soverchiare dentro di sé, giorno per giorno e ora per ora, un nemico assai frequente e ben troppo umano: la vanità comune a tutti, nemica mortale di ogni effettiva dedizione e di ogni “distanza”, e, in questo caso, del distacco rispetto a sé medesimi» (10). Pertanto, «chi è interiormente debole si tenga lontano da questa carriera» (11). La straordinaria forza sprigionata da alcuni uomini politici è connessa alla loro profondità spirituale
Gandhi
Secondo un suo biografo, una delle scoperte più importanti nella formazione di Gandhi fu la convinzione che «per poter trasformare gli altri, dobbiamo prima trasformare noi stessi» (12). Acquisizioni che egli fece nella sua maturazione spirituale e che divennero importanti pilastri della sua azione politica e sociale furono il considerare le difficoltà come opportunità di servire e come sfide per stimolare intelligenza e immaginazione, il cogliere in ogni cosa la possibilità di scegliere se vivere per se stesso o per gli altri, il mettere in atto una volontà indomabile. E “volere” significa comandare e obbedire al tempo stesso. C’è un due in uno proprio della volontà. La volontà implica che colui che vuole, obbedisca anche a ciò che vuole. Colui che vuole si determina, ma determinarsi significa anche dare un comando a se stesso e obbedirsi. Lo stesso soggetto è quello che comanda e obbedisce contemporaneamente. «Quel che v’è di più prodigioso nella volontà è che noi siamo al tempo stesso chi comanda e chi ubbidisce» (13)
Dag Hammarskjöld
Il diario pubblicato postumo di Dag Hammarskjöld, Segretario generale dell’ONU dal 1953 fino alla tragica morte nel 1961, svelò un uomo dalla profondissima statura spirituale, dedito al dialogo interiore, che univa responsabilità politiche di portata mondiale alla coltivazione dell’interiorità, nella convinzione che «le domande che sono alla base di una vita spirituale non sono affare privato, ma possono e anzi debbono alimentareun impegno pubblico» (14).
Le dichiarazioni rilasciate da Hammarskjöld durante una trasmissione radiofonica poco dopo la sua nomina a Segretario generale dell’ONU, radicano il nesso tra impegno politico e dimensione interiore e spirituale nelle testimonianze dei mistici medievali:
«La spiegazione di come l’uomo debba vivere una vita di servizio attivo verso la società in completa armonia con se stesso come un membro attivo della comunità dello spirito, l’ho trovata negli scritti diquei grandi mistici medievali per i quali ‘la sottomissione’ è stata la via della realizzazione di sé e che hanno trovato nell’ “onestà della mente” e nell’ “interiorità” la forza di dire sì a ogni richiesta che i bisogni del loro prossimo mettevano loro davanti, e di dire sì a qualsiasi destino la vita avesse in serbo per loro quando hanno risposto alla chiamata del dovere così come l’avevano intesa» (15).
La libertà
Un’interiorità coltivata è alla base del pensiero critico, della capacità di selezionare e gestire le informazioni, di pervenire a una conoscenza e formarsi un’opinione, così come è alla radice di relazioni sociali vitali. Non a caso i regimi totalitari, perseguendo la “politicizzazione totale” (16) dell’individuo, uccidono la libertà, zittiscono le persone, ne impediscono le riunioni e le discussioni e ne spengono le capacità di pensiero autonomo: essi non si accontentano di un ossequio esteriore, ma vogliono invadere l’interiorità e impossessarsi dell’anima delle persone.
Lo spazio interiore è il primo spazio di libertà in quanto spazio di coltivazione della rivolta, del “no”, dell’iniziare a immaginare e pensare qualcosa di alternativo allo stato delle cose (17). E la politica deve fornire alternative tra opzioni diverse. Se compito della politica è governare pluralità e diversità degli uomini garantendone la libertà, allora essa è il luogo di realizzazione dell’esistenza umana autentica. La libertà è poi il potere di intraprendere qualcosa di nuovo e di inedito nella storia.
Per questo, dimensioni come l’immaginazione, la creatività e il coraggio, tutte radicate in un’interiorità profonda e ricca, sono oggi essenziali per una politica che voglia essere all’altezza della propria vocazione (18).
Luciano ManicardiPriore di BoseComunità di Bose13887 Magnano (BI)
______________
(1) Cf. D. LE BRETON, Fuggire da sé. Una tentazione contemporanea, Raffaello Cortina, Milano 2016.
(2) H. ARENDT, Che cos’è la politica?, Edizioni di Comunità, Milano 1995, 5.7.
(3) S. WEIL, La persona e il sacro, Adelphi, Milano 2012, 11-12.
(4) Ivi, 13-14.
(5) M. WEBER, La politica come professione, in Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino 1976, 120-121.
(6) «L’etica della convinzione e quella della responsabilità non sono assolutamente antitetiche ma si completano a vicenda e solo congiunte formano il vero uomo, quello che può avere la “vocazione alla politica”» (Ivi, 119).
(7) Ivi, 104.
(8) Cf. Ivi, 112-113. Cf. P. VALADIER, Lo spirituale e la politica, Lindau, Torino 2011, 24.(9) «Un uomo non può fare del bene in un settore della sua vita mentre si comporta male in un’altra parte di essa. La vita è una totalità indivisibile» (Gandhi, citato in E.EASWARAN, Gandhi. Come un uomo cambiò se stesso per trasformare il mondo, Elliot, Roma 2011, 50).
(10) M. WEBER, La politica come professione…, 102.
(11) Ivi, 100.
(12) E. EASWARAN, Gandhi…, 52. Si pensi alla nota massima di Gandhi: «Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo».
(13) F. NIETZSCHE, Al di là del bene e del male § 19 Al di là del bene e del male. Genealogia della morale, Adelphi, Milano 19864, 23).
(14) A. LABBUCCI, La salvezza e il pericolo. Spiritualità, politica e profezia ai tempi di papa Francesco, Donzelli, Roma 2015, 47.
(15) D. HAMMARSkjöLD, Tracce di cammino, a cura di Guido Dotti, Qiqajon, Magnano (BI) 2005, 249.
(16) Cf. H. ARENDT, Che cos’è la politica?..., 22.
(17) Cf. E. DONAGGIO, Direi di no. Desideri di migliori libertà, Feltrinelli, Milano 2016.(18) Cf. L. MANICARDI, Spiritualità e politica, Qiqajon, Magnano (BI) 2019.
__________
Leggi anche:
- VITA SPIRITUALE E IMPEGNO POLITICO - HOREB 87 - N. 3 del 2020