giovedì 14 gennaio 2021

ROBERTO VECCHIONI: "A SCUOLA C'È SEMPRE VITA, MA A DISTANZA È PIÙ DIFFICILE"

ROBERTO VECCHIONI:
"A SCUOLA C'È SEMPRE VITA,
MA A DISTANZA È PIÙ DIFFICILE"

Nel dibattito sulla scuola Roberto Vecchioni racconta la sua esperienza di insegnante liceale e universitario, cui ha dedicato un libro: "E una volta ho costretto i miei alunni a leggere e "riscrivere" il Vangelo"


In un momento in cui c’è chi soffia sull’insofferenza, sul conflitto generazionale che l’esasperazione della pandemia sembra a tratti esacerbare, Roberto Vecchioni, 77 anni, che parallelamente alle canzoni ha trascorso la vita insegnando prima Lettere al liceo, poi all’università, se ne esce con un atto di fiducia nei ragazzi, uno strano libro di “lezioni” sui generis. Pagine in cui lo si vede in azione in una classe, che è la summa di tante classi vere, di cui riprende realisticamente anche il linguaggio non sempre forbito, le curiosità, gli sfottò, le insofferenze e i voli pindarici nell’avventura della conoscenza. Il titolo programmatico Lezioni di volo e di atterraggio (Einaudi) si presta a prendere rotte che escono subito dalla scuola per approdare alla vita.

Professor Vecchioni, volo e atterraggio sono le cose da imparare?

«Volare e atterrare richiamano le due cose fondamentali della vita: il sogno e la realtà. È compito degli insegnanti mettere i ragazzi sulla strada per capire che cos’è il sogno, che cos’è la realtà e come gestire l’uno e l’altra. Perché, come dice la Bibbia, c’è un tempo per sognare e un tempo per fare cose reali».

Quanto c’è di vita vissuta e quanto di romanzo in questa avventura nella trasmissione della conoscenza?

«Il nucleo di quelle lezioni-racconto è vero, le ricordo così. Poi dovendo scrivere qualcosa di narrativo ho allargato il discorso al verosimile».

Lo studio è per materie, ma si direbbe che tra le sue righe si legga il bisogno di ricomporre il sapere nella sua complessità. È così?

«La divisione per materie è antichissima e insostituibile, però sarebbe bello che ogni tanto ci fossero momenti in cui gli insegnanti affrontano insieme un argomento ciascuno dal proprio punto di vista, creando l’occasione di una grande “ammucchiata di pensiero”».

La pandemia sta mettendo a nudo la scarsa cultura scientifica nella popolazione. Paghiamo l’aver identificato la cultura con l’umanesimo?

«Non esiste dissidio tra scienza e fede, non vedo perché dovrebbe esisterne uno tra umanesimo e materie scientifiche. La scienza rappresenta la visione logica della struttura del mondo, l’umanesimo la visione del pensiero, delle risposte all’insicurezza. Abbiamo bisogno di entrambi. Per tradizione classica abbiamo a lungo trascurato la cultura tecnico-scientifica, è stato un errore. Molto importante, invece, è che resti una solidissima base umanistica: la tecnica da sola è un palazzo senza i primi piani, che vaga nell’aria privo di fondamenta. A riempire di senso ciò che facciamo è la giustificazione finalistica. Sarebbe pericolosissimo un sapere tecnico incapace di interrogarsi sulle conseguenze di ciò che crea».

Ha accennato alla fede, nel libro si parla di Vangelo proposto come oggetto di studio. È importante conoscerlo al di là della religione?

«Nel Padre Nostro c’è l’assioma per tutti i comportamenti. Lì c’è tutto quello che siamo: la nostra umbratilità, la nostra paura, il nostro bisogno di carità e fraternità. I miei ragazzi allora non erano granché religiosi, anzi, li ho costretti a leggere il Vangelo e a riscriverlo cercando di entrare nel punto di vista dei diversi evangelisti: ci hanno messo mesi e sono venute fuori cose di grande precisione storica. Da cattolico a me del Vangelo interessa tutto, ma ci sono dentro cose universali, baluardi che tengono su il senso del mondo e la possibilità di una visione che non sia materialistico-meccanicistica. L’amare i nemici è rivoluzionario, non esiste in nessun altro libro sacro. L’invocare il padre è in tutte le religioni, ma nessuno lo fa alla maniera del Padre Nostro in cui Dio perdona comunque e sempre».

Quanto permea la nostra cultura anche laica?

«Molto, senza sapere niente della cultura cristiana non capiremmo nulla di tanta parte della nostra letteratura e arte figurativa. Anche se poi i pensieri sull’animo umano, sull’essere mortali, sull’immortalità dell’anima, sul fatto che si lotta con i giusti, sono venuti prima di Cristo, hanno basi anche laiche, anche pagane: si pensi a Platone, a Marco Aurelio Antonino, agli stoici. Solo che in loro questo viene da un’oscurità umana che si fa domande, il Vangelo da una luminosità divina che risponde».

Nelle sue canzoni, da La stazione di Zima, all’Uomo che si gioca il cielo a dadi, prevale la dimensione dell’uomo in cerca. A che punto è nel percorso tra domande e risposte?

«Indietro. Nessun cristiano arriva, io nasco agnostico, il mio percorso è stato lunghissimo, complicato, costellato di grandi aiuti: penso all’intelligenza di monsignor Pignedoli, alla corrispondenza con il cardinale Ravasi, illuminante per la mia vita. La fede è un grande mistero, a volte ti brilla qualcosa e ti sembra di averla, poi invece rimani deluso e arretri: è uno sforzo spaventoso tentare di arrivarci con la ragione, perché la fede è un fatto di sentimenti. Io la sto costruendo mattone per mattone».

È complicato discutere con i ragazzi di questi temi?

«No, no. Anche all’università andiamo tantissimo sui temi dell’aldilà, della metafisica. Si cerca sempre, sia tra i negazionisti sia tra quelli che accettano: siamo qui e basta o c’è qualche altra cosa? È la madre di tutte le domande, nessuno può eluderla».

A proposito di negazionismo, in tanti anni con i ragazzi ha mai visto la scienza sulla graticola come ora?

«Non mi pare. Mai l’epistemologia in senso razionale è stata messa in discussione come oggi. Ci vedo il frutto di anni di buio, di insicurezza che si rifugia nell’assurdo, di voglia di negare l’evidenza per farsi notare. Il dramma è che c’è chi ci crede. Anche un credente accetta che ci sia chi non crede allo spirito, più difficile ammettere che non si creda alla fisica, alla chimica. C’è uno “sbrindellamento” della coscienza. Credo che c’entri anche lo scetticismo verso la competenza: non è un mondo per maestri, appena uno dice una cosa vagamente intellettuale viene preso a pernacchie».

A proposito di maestri, quanta creatività serve per insegnare a distanza?

«È uno sforzo titanico, perché la scuola è coralità, ha il compito di insegnare il bene e il male di stare insieme. Non basta cliccarsi e guardarsi in uno schermo; la fisicità conta quando si deve imparare a stare in un gruppo variegato e abituarsi a capire il punto di vista degli altri».