venerdì 8 gennaio 2021

"Quei ragazzi dimenticati nell’inverno della pandemia" di Walter Veltroni

Quei ragazzi dimenticati nell’inverno della pandemia
di Walter Veltroni

Il distanziamento sociale e il rischio per i giovani di smarrirsi proprio nel tempo decisivo della vita




«Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è l’età più bella della vita». La famosa frase scritta da Paul Nizan in «Aden Arabia» oggi forse può essere applicata, diminuendo l’età definita, ai ragazzi italiani, e non solo, risucchiati nel gorgo di questa infinita pandemia. Nessuno ne parla.

Nel profondo dell’animo

Nessuno sembra occuparsi di quello che sta accadendo nel profondo dell’animo degli adolescenti. Conosco molti amici che hanno figli di quell’età e leggo le analisi che varie università, in tutto il mondo, stanno facendo per capire quanto e come questa inedita condizione pesi oggi e potrà pesare domani sulla esperienza di chi oggi è più giovane. Giustamente ci si occupa, mai abbastanza, di chi è anziano. E i primi a farlo, con le loro ansie, sono spesso i nipoti. Ma chi si sta incaricando di capire com’è la percezione della vita in ragazzi che, nel momento decisivo della loro esperienza umana, si trovano espropriati, per ragioni oggettive, di ogni relazione, ogni forma di intrattenimento e di svago? E quanto pesa l’assenza dalla dimensione scolastica che è certo apprendimento ma anche scambio, condivisione, definizione di uno spazio proprio, il primo autonomo dalla famiglia, in cui ciascuno mostra se stesso ed è messo alla prova? Gli insegnanti si fanno in quattro e dal francobollo di uno schermo devono insegnare gli ablativi, la trigonometria, il Rinascimento a ragazzi di cui non possono percepire lo stato d’animo, con cui non hanno quella relazione psicologica che l’insegnamento frontale consente.

Scoperta quotidiana

Perdere la pienezza dei quattordici o quindici anni, quando il mondo è una scoperta quotidiana delle sue possibilità e delle sue insidie, non è come vivere quest’esperienza a cinquant’anni. I ragazzi si sono incupiti, chiusi, molti hanno peggiorato i loro risultati scolastici, la maggioranza trascorre il tempo appesa allo schermo di un telefono che costituisce l’aggancio al mondo esterno, in questo inverno cupo e solitario. Secondo un’inchiesta promossa da Save the Children e realizzata da Ipsos i ragazzi dicono che nel 28% dei casi un loro compagno di classe ha abbandonato gli studi. E aggiunge: «Quasi quattro studenti su dieci dichiarano di avere avuto ripercussioni negative sulla capacità di studiare (37%). Stanchezza (31%), incertezza (17%) e preoccupazione (17%) sono i principali stati d’animo che hanno dichiarato di vivere gli adolescenti in questo periodo, ma anche disorientamento, apatia, tristezza e solitudine».

Mondo virtuale

Senza scuola, parchi, sport, incontri con gli amici, cinema, concerti, cosa resta se non la dimensione apparentemente infinita, l’unica senza confini e divieti, del mondo virtuale? Quello spazio non è irreale, anche quella è realtà. Le parole, i video, i giochi sono parte di un mondo dilatato, doppio. E questa duplicità oggi costituisce un salvagente per i ragazzi. Cosa sarebbero stati questi mesi senza la possibilità di scrivere agli amici, di giocare a distanza con loro, di coltivare le passioni? Non ci dobbiamo ripetere qui le distorsioni del mondo virtuale, i rischi racchiusi nei meccanismi di semplificazione estrema, nella manipolazione della realtà, nella concentrazione di enormi poteri in poche mani. Ma è parte del mondo contemporaneo. E c’è da augurarsi che presto le democrazie si decideranno a definire regole sapienti per evitare i rischi di oligopolio e che nelle scuole, dopo aver insegnato tre volte gli etruschi, si aiuterà un ragazzo a capire e utilizzare coscientemente tecnologie di conoscenza e relazione che oggi sono tanta parte della sua vita. E a metter tutti in condizione di farlo, visto che ancora oggi quasi un milione di ragazzi non ha né tablet né pc.

Confinati in casa

Non ci si spaventi dunque se i ragazzi, confinati in casa, si affacciano sul mondo attraverso lo schermo di un telefono o di un computer. Lo fanno per non sentirsi soli. E quando lo fanno, credo sia giusto che i genitori non li colpevolizzino ma li comprendano e li rispettino. I ragazzi italiani non sanno se e quando torneranno a scuola. I banchi con le rotelle sembrano ora delle installazioni di arte contemporanea, nelle aule chiuse. Nel decidere se, come, quando le scuole riapriranno, si consideri anche il punto di vista dei ragazzi che non hanno rappresentanza, non siedono a nessun tavolo. Questo rafforza in me l’idea che la democrazia del duemila oltre alle forme di rappresentanza politico istituzionale dovrebbe alimentarsi di meccanismi di democrazia diffusa e di sussidiarietà. È possibile che mai nessun giovane abbia potuto dire la sua in tutti questi mesi di vertici, verifiche, seminari a Villa Madama?

Arcobaleno

Vorrei che in questo frenetico e spesso surreale arcobaleno di giornate, regioni, orari si tenesse conto che esistono delle anime fragili. E che ci si ricordasse, in questo che non è un Paese per giovani, che in questo momento nelle case di milioni di italiani c’è una ragazza o un ragazzo che sta annaspando nel tempo decisivo della vita e c’è il rischio che si smarrisca. Per un ragazzo il «distanziamento sociale» è una pena più grave che per un adulto. Ricordarsene sempre. In un mondo adulto che è andato in confusione su tutto: vaccini, tamponi, terapie, governi, regole... l’unica cosa su cui tutti si sono sempre uniti è stata randellare i giovani se una sera uscivano, perfino essendo consentito, per vedere amici o semplicemente prendere un aperitivo.

La peste e la stampa

In un piccolo libro curato da Sabrina Minuzzi per Marsilio e intitolato «La peste e la stampa» si riporta il racconto scritto nel 1576 dal notaio Rocco Benedetti di Venezia dopo la tremenda epidemia che colpì il nord d’Italia. Si dice: «Gli Signori prohibirno che nissuno, per undeci giorni, potesse andare in casa d’altri, né donne né putti uscir dalle sue contrade... Il negozio fra mercanti si levò in tutto, nella piazza li merciari e quasi tutti gl’altri artigiani serorno le loro botteghe... Parimente le piazze erano sgombre di genti e per la via si caminava senza ch’alcuno urtasse altro, non s’udivano più suoni né canti né altri dilletevoli intratenimenti per le strade e canali...». Quasi cinquecento anni dopo la immensa potenza della scienza e della tecnologia, che pure riuscirà a immunizzarci, ci consegna, di fronte alla pandemia, un paesaggio urbano e abitudini di vita non diverse da quelle descritte dal notaio Benedetti. Tanto più chi decide oggi deve avere nell’orizzonte delle sue motivazioni anche quello che gli algoritmi non registrano. Anche quello che sta accadendo nel cuore delle persone, tutte. E dei più fragili. Che non sono solo gli anziani. Ma anche i ragazzi, soli e ignorati, di questa Italia spaventata.