mercoledì 4 novembre 2020

"L'importanza di un fiore" di Enzo Bianchi

L'importanza di un fiore
Enzo Bianchi

Installazione di Azuma Makoto
La Repubblica - Altrimenti
2 novembre 2020


L’homo sapiens è il primo e l’unico animale che seppellisce i suoi morti, da circa duecentocinquantamila anni. Non si può trattenere un fremito di commozione al vedere una sepoltura preistorica nella quale ciò che resta, lo scheletro, è composto in posizione fetale, quella assunta nel ventre materno prima della nascita; a volte è abbracciato con un altro partner in un delicato connubio; spesso è circondato da fiori, cibi o utensili.

Oggi, dopo molte migliaia di anni, sentiamo ancora il bisogno di pensare ai nostri morti. Di fatto, mentre viviamo il lutto per la loro perdita, il pensiero è continuo, persino ossessivo, poi pian piano si fa meno frequente. Eppure sentiamo il bisogno, almeno in questi giorni autunnali, di rinnovare il ricordo, la gratitudine, di riconoscere il debito nei loro confronti, accompagnando la loro memoria con dei doni, soprattutto fiori e lumi. Ciò avviene in una profonda comunione con la natura: gli alberi ingialliscono e lasciano cadere le loro foglie, la notte sopraggiunge prima, le ombre si allungano. Sembrerebbe che anche la natura si prepari a un lutto: sono i giorni dei morti.

Va però detto che questa memoria è sempre meno sentita, in particolare non è stata trasmessa alle nuove generazioni come necessario legame con chi li ha preceduti. Non si è trasmesso loro che a ciascun essere umano spetta continuare una storia che lo precede, lo sorpassa e lo attraversa: non possiamo dimenticare il passato e ciò che è esso ci ha lasciato come compito da proseguire nella natura, nella vita, nella cultura, nella società, cioè nell’umanità.

La nostra società non solo ha rimosso la morte, tentando ossessivamente di contemplare le icone della giovinezza, ma purtroppo rimuove anche i morti, li dimentica, non sente più alcun legame con essi. Hanno vissuto accanto a noi, le nostre vite si sono incrociate e sostenute ma, una volta che hanno lasciato questo mondo, ben presto si è affievolito il sentimento della loro mancanza e sono come svaniti dei nostri pensieri.

Secondo la tradizione ebraico-cristiana il seppellimento è un atto importante, soprattutto per quelli che restano. Non solo perché prendano coscienza concreta dell’implacabile ritorno alla terra, a madre terra da cui siamo stati tratti, ma perché la tomba è sempre un memoriale, un segno di un corpo che ha vissuto, amato, sofferto, lavorato, intrecciato relazioni, e dunque merita un riconoscimento. Anche un fiore, una volta all’anno, nel giorno dei morti, può essere eloquente per rinnovare un legame, per pensare ai morti e quindi anche ai mortali.

È significativo che la violazione delle tombe riguardi spesso quelle dei cimiteri ebraici. Ciò testimonia che l’odio cieco vuole non solo il genocidio ma anche la distruzione dei segni di una presenza; vuole che regnino la scomparsa e la dimenticanza. Un nemico morto non è più un nemico, ma chi è odiato senza ragione agli occhi dei suoi persecutori deve non solo morire ma anche scomparire. Al contrario, la pietà per i morti nutre la misericordia per i vivi.

Pubblicato su: La Repubblica