giovedì 26 novembre 2020

Il mio romanzo “politico” e i mali della scuola: Alessandro D’Avenia si racconta

Il mio romanzo “politico” e i mali della scuola: Alessandro D’Avenia si racconta

Alessandro D’Avenia – Foto di Marta d’Avenia

“‘L’appello’ è un romanzo intriso di dolore perché questa è la mia ricerca: è come se stessi scrivendo un unico libro che si avvicina a questa materia incandescente attraverso le parole. Mi piace l’idea di associarlo all’imprevedibile: in fondo, la grande lezione di questo periodo è che dobbiamo smettere di far finta che la morte e la sofferenza non esistano, perché questo atteggiamento ci sta massacrando e ha trasformato i momenti di fragilità umana, in momenti di vergogna”. 

In occasione dell’uscita del suo nuovo romanzo, abbiamo lungamente parlato con lo scrittore Alessandro D’Avenia di tenerezza, social network, ma anche del valore dello stare in aula e della ripresa della didattica a distanza: 
“Sono stato preso da un momento di sconforto che non mi aspettavo: ho finito le lezioni e mi sono sentito stanchissimo. Pur sapendo di dover incoraggiare i miei ragazzi, di trasmettere ottimismo, in questa modalità manca la dimensione carnale, manca lo stare nello stesso spazio con il corpo”


“La vita va da quando decidono che nome darti a quando quello stesso nome è solo un graffio su una lapide. Nell’uno e nell’altro caso non hai l’iniziativa, quelle lettere sono tutto ciò che hai per venire alla luce e provare a rimanerci. Forse per questo gli antichi dicevano che il destino è nel nome: che ti piaccia o no, sei chiamato a rispondere all’appello. Nel mio caso è così: mi chiamo Omero, in greco “colui che non vede”… e cinque anni fa sono diventato cieco”.

Così esordisce il professore di scienze Omero Romeo, protagonista dell’ultimo romanzo di Alessandro D’Avenia, L’appello (Mondadori, 348 pagine). Un ritorno tra i banchi di scuola per l’insegnante scrittore dopo il fortunato esordio di dieci anni fa con Bianca come il latte, rossa come il sangue. A differenza di allora, il dolore non appartiene solo agli alunni, ma è incarnato nella malattia del docente che attraverso la sua cecità sfida la sua classe-ghetto in procinto della maturità, a raccontarsi e a dare volto e storia ai propri nomi e alle proprie cicatrici.

Attingendo a forme letterarie e linguaggi diversi – dalla rappresentazione scenica alla meditazione filosofica, dal diario alla storia di formazione – D’Avenia raccoglie le voci stonate di ragazzi che nascondono ferite ma anche sogni e attraverso la dialettica e il contatto con il loro professore scopriranno che “le cose corrono, per paura di non esistere” e che “le relazioni sono fatte come i puzzle, solo con gli incastri nei vuoti si stringono legami veri”.

L’intervista

“Il mio prossimo romanzo sarà un romanzo sulla luce”. Così in un’intervista di un anno fa per il Foglio ha parlato de L’appello. Conferma questa definizione?

“Sì, è proprio un romanzo sul dare alla luce e sul venire alla luce. Il padre stesso del protagonista è un astrofisico. Tuttavia, nel livello strettamente letterale in cui la luce è un fenomeno fisico, risuona la componente simbolica. L’appello parla di ragazzi che erano nelle tenebre e, pur essendo nati, vengono alla luce grazie a uno spazio condiviso, molto simile a un grembo, quello che il professore crea attraverso il fatto di essere cieco. Proprio perché lui non vede, gli alunni possono a poco a poco nascere in questo luogo amoroso, plasmato vicendevolmente. Vivere infatti non è correre verso la morte, ma verso un venire alla luce”.

E la pronuncia del nome degli studenti attraverso l’appello è il primo passo verso questo passaggio. Lo spiega lo stesso professor Romeo, attraverso la sua ossessione per le etimologie. “Se al verbo latino pello, ‘spingere’, mescolo la preposizione ad-, ‘verso’, do vita al composto ad-pello, ‘spingere verso’, ossia l’azione compiuta da una donna quando dà alla luce”.
“Questo romanzo ha la pretesa di far risuonare le cose della vita quotidiana di una profondità che possiamo cogliere solo se il nostro sguardo non è disincantato o cinico. Mi ha sempre colpito, delle tante lettere di sfogo dei ragazzi che ricevo, di quanti si lamentino di come alcuni dei loro insegnanti non ricordino nemmeno i loro nomi. Con questa protesta non chiedono semplicemente che i docenti abbiano buona memoria, ma di farli esistere attraverso i loro nomi”.

“Dobbiamo recuperare la tenerezza dei nomi”

Non è un caso che il protagonista affermi: “L’appello significa chiamare per nome una persona per accertarsi che sia presente; invocazione, richiesta d’aiuto”. E ancora: “Non si può rispondere al proprio nome per abitudine, perché non si è vivi per abitudine, ma per inquietudine”.

“Nel far risuonare nel modo giusto il suono di un nome, c’è insita quella promessa di vita che una coppia di genitori fa al proprio figlio quando ancora non ha un volto e non è nemmeno l’immagine di un’ecografia. Il gioco che iniziano a fare mamma e papà sulla scelta dei nomi, è il loro modo per abbracciare l’essenza della persona. Mi ha sempre affascinato come nella letteratura biblica il nome sia proprio l’essenza, tanto che agli uomini non è permesso di nominare Dio perché vorrebbe dire in qualche modo possederlo. Ad Adamo Dio concede il compito di dare i nomi alle cose e tutti i nomi che Adamo sceglieva, Dio li accettava. In questo c’è una consegna e una missione: nominare bene le cose significa prendersene cura, vuol dire diventarne responsabili”.

Ma come si può ridare centralità al nome?

“Noi oggi abbiamo rinunciato a diventare responsabili delle vite degli altri, fondamentalmente ce ne importa poco. Questa è una configurazione di base che stiamo riscontrando anche in questa fase di emergenza. Ritrovare invece una tenerezza del nome, mi sembra un primo livello di mettere al mondo le persone. Le coppie, quando si innamorano, cominciano a darsi dei soprannomi, quasi che sia necessario reinventare l’altro e coglierne l’essenza, proteggendola attraverso un lessico amoroso che diventa privato ed esclusivo. Ricordo il racconto di una maestra delle prime classi elementari che, nel chiedere ai bambini, che non usano il pensiero astratto, di definire la loro idea di amore, rispondevano: ‘Amore è quando mia mamma dice il mio nome, perché come sta nella sua bocca non sta da nessun’altra parte”.

Dobbiamo recuperare la tenerezza del nome, quindi.

Sì, e per me è un tema radicale: o noi recuperiamo la tenerezza dei nomi, o perdiamo il contatto e la relazione con le persone. Come si evince dal libro, tuttavia, questa tenerezza non è sinonimo di coccola, ma di sfida. Il professore è costretto a riceverli perché non vede, ma li mette costantemente alla prova. Non è un proteggere per difendere dalla realtà, ma è un nominare per lanciare nella realtà (come si vede nella copertina del libro). Una volta che vieni chiamato all’appello, tocca a te venire fuori, come ci è capitato con le interrogazioni, e non c’era scampo. Il nome è quindi una presa in carico di quella luce che la mattina mentre ci svegliamo ci colpisce. Magari preferiremmo rimanere sotto le coperte, in particolare in un momento come questo, in cui spesso la tristezza e la malinconia possono prendere il sopravvento, ma tocca a noi rispondere”.

La sfida e il rapporto dialettico che si instaura tra il professor Romeo e i suoi alunni pone le basi sul metodo scientifico, partendo da aneddoti della vita quotidiana. Così la corsa al bagno di una studentessa diventa l’occasione per innescare un dibattito alla ricerca delle diverse tipologie di forza dell’universo. Perché questa volta ha scelto la scienza e non la letteratura?

“È una scelta che nasce da una fascinazione che da sempre subisco nei confronti della realtà, del creato e delle leggi della fisica. Essendo debole in quell’ambito, è stato bello che il romanzo mi abbia portato in quella direzione per approfondire e comprendere cosa significa guardare il mondo con gli occhi della scienza. Il professore di lettere l’avevo già raccontato nel primo e nel secondo romanzo: quello che avevo da dire in quell’ambito l’avevo esaurito. Oggi la scienza viene invocata come la depositaria della verità, molto più di altre discipline, ma credo sia una grande illusione: occorre sempre un salto dalla fisica alla metafisica”.

In che modo?

“I più grandi scienziati di cui ho letto gli iscritti, da Einstein a Heisenberg, dicono proprio questo: la scienza arriva fino a un certo punto e questa verità è stata anche dimostrata dal famoso teorema di Godel: un sistema non può fondarsi sui suoi stessi principi, ma ha bisogno di un’uscita fuori da se stesso per potersi giustificare. Che cosa sappiamo della realtà o cosa crediamo di sapere? Forse anche la pandemia è stata una grande lezione sul fatto che la scienza può dirci qualcosa del ‘come’, ma non può bastare. Quando sentiamo alcuni scienziati sostenere una tesi e altri quella contraria, noi come dobbiamo comportarci? Qual è lo strumento più adatto per intercettare la verità?”.

Il protagonista sembra aver trovato una via mediana.

“Il professore Romeo cerca proprio di unire queste due dimensioni. Non è il positivista che si affida alla scienza come unica depositaria del sapere, ma va fino in fondo nella conoscenza delle cose per poi scoprire che per coglierne l’essenza occorre comunque un salto. La sua è la fascinazione di un creato che ci sorprende sempre e che invece oggi abbiamo perso. Lo vedo con gli adolescenti: il contatto con realtà non create dall’uomo, è diventato residuale e questa mancanza si traduce nella perdita di relazione con il mondo. In fondo Omero Romeo li porta a ri-stupirsi del reale”.

Come accade con l’episodio della studentessa che corre in bagno.

“È proprio questo: trasformare la fuga in bagno in un modo di dimostrare che ci sono forze che governano la realtà di cui stupirsi continuamente. Quel capitolo, e quella lezione, si chiudono con la domanda di Romeo agli alunni: ‘Che cosa abbiamo imparato?’. E uno di loro risponde: ‘Abbiamo capito che le cose corrono, per paura di non esistere’. Così avviene il passaggio dalla fisica alla metafisica: guardare il mondo con gli occhi del metodo scientifico, ma poi lasciare intervenire il cuore per capire perché tutto questo accade. Come ci ha insegnato Pascal: il cuore fa quel salto che la ragione non può compiere da sola”.

A proposito dello stupore, attraverso la cecità del protagonista si innesca una riscoperta degli altri sensi, una ricerca che è anche una riappropriazione diversa del mondo. A partire dal modo che ha il professor Romeo di conoscere i ragazzi, toccando i loro volti.

“Sì, è così e qui torniamo al tema della tenerezza. Da quando ci hanno messo in tasca un cellulare, utilizziamo il tatto per muovere uno schermo, per far scorrere le immagini su Instagram. In questo modo abbiamo l’impressione di entrare in contatto con il mondo, ma in realtà è una superficie bidimensionale che si muove nelle solite direzioni, è un tatto che non coglie più la profondità. Il fatto che Omero Romeo sia costretto, per accogliere le vite degli alunni, a ricorrere all’udito e ad appoggiare le mani sul loro volto, vuol dire cogliere la profondità del vissuto altrui perché la carne che oggi noi tocchiamo solo per dominare, controllare e possedere, invece ha bisogno di un’infinita tenerezza. Solo le persone che amano davvero sanno dare le carezze, ma oggi sono praticamente sparite dal lessico amoroso, tutto votato al consumo e all’auto-soddisfazione. Invece la carezza è quel gesto che, un po’ come il pronunciare il nome, dice all’altro che è prezioso e fragile allo stesso tempo. Noi trattiamo ‘con tatto’ le cose fragili, quelle più preziose. Ma quale umano non è fragile? Quale persona non è contenta di essere accarezzata sul volto? Io sono convinto che abbiamo perso la parte più erotica del corpo umano, cioè il volto. Abbiamo totalmente confuso l’erotico con l’erogeno e pensiamo che la parte più erotica del corpo sia quella più stimolabile dal punto di vista strettamente del piacere”.

Da qui un passaggio-chiave del libro: “La vista è sopravvalutata: gli occhi finiscono per non vedere ciò che vedono sempre, più vedono e meno guardano”.

Credo ci sia un abuso della vista, incoraggiata dall’ipnosi del nostro tempo. Come diceva McLuhan, ogni epoca ha il suo senso ipnotizzato e noi viviamo in un’epoca che ha portato alle estreme conseguenze la vista. Una vista che vuole controllare, dominare, che gode del pregiudizio. Invece esserne privati potrebbe essere un bell’esperimento. Io l’ho fatto per scrivere questo libro, andando all’Istituto dei Ciechi di Milano. C’erano altre persone sconosciute, bisognava fidarsi degli altri, cercare il contatto con delicatezza, dover andare piano e ricostruire l’ambiente attraverso le proprie dita e l’ascolto. È un’esperienza che mi ha fatto un gran bene e mi ha portato a riflettere: se mi togliessero la vista, io che rapporto instaurerei con il mondo? Sarebbe un rapporto di tenerezza, di umiltà, che fa del ricevere, e non del dominare, il suo fine”.

Nel romanzo emerge un altro tema, quello della sofferenza, che gli studenti raccontano attraverso l’appello. Le loro storie sono diverse, ma hanno in comune delle cicatrici che vengono portate alla luce grazie al loro nome. Nel caso del professor Romeo accanto al dolore c’è la malattia, la perdita della vista. Come si affrontano dolore e malattia? A maggior ragione se hanno quel carattere dell’imprevedibilità, quello “scandalo dell’imprevedibilità” come lo definisce il filosofo Silvano Petrosino, che caratterizza così profondamente anche l’emergenza che stiamo attraversando.

L’appello è un romanzo intriso di dolore perché questa è la mia ricerca: è come se stessi scrivendo un unico libro che si avvicina a questa materia incandescente attraverso le parole. Mi piace l’idea di associarlo all’imprevedibile: in fondo, la grande lezione di questo periodo è che dobbiamo smettere di far finta che la morte e la sofferenza non esistano, perché questo atteggiamento ci sta massacrando e ha trasformato i momenti di fragilità umana, in momenti di vergogna. Gli alunni all’inizio si vergognano del loro dolore, quasi che la vita sia un posto in cui la sofferenza non debba esistere. Parliamo di uno dei temi eterni della vita umana: il primo poema scritto di cui abbiamo testimonianza è Gilgamesh in cui il protagonista va alla ricerca del segreto per non morire perché il suo migliore amico è morto e lui ne soffre terribilmente. Tutta la letteratura comincia con una domanda sul dolore e sulla morte: come si fa a guarire dal suo veleno?”.

E ogni epoca ha dato una risposta diversa.

“I Greci, tornando al tema del nome, erano convinti che per sopravvivere occorresse avere due cose: entrare nel canto epico o avere una tomba con scritto il proprio nome, anche a costo di andare incontro alla morte. Il cristianesimo porta questa dimensione su un altro livello: non hai bisogno di conquistarti un nome per vivere, perché tu sei già voluto a priori come miracolo della vita, sei figlio di Dio quindi non devi procurarti questo da solo”.

E nella cultura di oggi?

La nostra è una cultura basata sull’efficientismo e sulla prestazione più che sulla presenza, e il dolore è un ostacolo al successo. Così lo abbiamo nascosto e disintegrato e nel contempo disintegriamo noi stessi perché non riusciamo più a metterlo nell’esperienza di vita. Io lo vedo negli studenti, nella frustrazione per un brutto voto, un dolore limitato della vita quotidiana a cui non sono stati allenati, perché una cultura intera li spinge a eliminare questo aspetto”.

Allora che cosa succede nel romanzo?
“Si crea uno spazio in cui il dolore è accettato, ma non perché c’è qualcuno che ti dice: dai, resisti, stringi i denti, ma perché c’è qualcuno che ne è parte e che lo vive insieme a te. In tal modo diventa accettazione della vita stessa e il fatto che il professore sia ferito tanto quanto i suoi alunni è stata una delle cose più belle che questo romanzo mi ha regalato”.

Per quale motivo?
“Nei primi due romanzi, soprattutto nel primo con il quale questo si confronta, il professore è un personaggio risolto, è uno che sa come va la vita e la racconta agli altri. Qui c’è invece un uomo che deve capire se riesce a continuare a stare al mondo. Il diario del professore è una scoperta di se stesso a contatto con i ragazzi, uno scambio continuo in cui loro hanno bisogno di lui e lui ha bisogno di loro. La trama stessa è la narrazione di come il dolore si possa affrontare. Non è una teoria o una risposta astratta: è vivere una dimensione esistenziale che nel romanzo diventa un gioco, un viaggio di andata e ritorno continuo nella relazione tra maestro e discepolo in cui non si sa più bene chi è il maestro e chi il discepolo”.

Teatro di questo viaggio è l’aula. Nel libro si legge: “I Greci chiamavano aulos il flauto, l’aula è la cassa di risonanza in cui la vita soffia le storie di ragazzi che mai avremmo scelto. […] E qui noi insegnanti “professiamo” gli articoli del nostro credo: l’appello”. Qual è il ruolo dell’aula nel romanzo e qual è il suo valore oggi in cui si ha a che fare con la didattica a distanza?

“Ho ripreso la didattica a distanza due settimane fa. Pensavo proprio al termine ‘aula’ in relazione invece alla pratica di creare delle ‘stanze’ attraverso le piattaforme tecnologiche, il massimo della metafora concessa in questa fase. Quello della stanza è un concetto molto diverso”.

Perché?

“Ha a che fare con il verbo stare, quindi qualcosa in cui ti fermi, espleti la funzione per cui la stanza è stata pensata e poi vai via. Invece l’aula è uno spazio cavo in cui, ancora una volta, riemerge l’idea di un grembo in cui vengono ospitate delle vite. Nel riprendere la didattica a distanza sono stato preso da un momento di sconforto che non mi aspettavo: ho finito le lezioni e mi sono sentito stanchissimo. Pur sapendo di dover incoraggiare i miei ragazzi, di trasmettere ottimismo, in questa modalità manca la dimensione carnale, manca lo stare nello stesso spazio con il corpo. Nel romanzo spesso si parla del bisogno di un ‘umanesimo carnale’, perché il corpo è il luogo dell’incarnazione dello spirito. Di conseguenza, se io mi prendo cura del corpo delle persone, del loro sguardo, della loro posizione in classe, si apre un mondo. La cultura che disincarna e che pensa che questo possa fungere da alternativa, invece, ha rinunciato al corpo e alla relazione”.

Però sembra si stia andando sempre di più in questa direzione. Può essere considerata una sconfitta?

La rapidità con cui siamo ritornati alla didattica a distanza dopo aver messo le scuole in sicurezza in mille modi diversi, sì, mi sembra una sconfitta. L’aula è uno spazio cavo, ma non vuoto: è quel luogo in cui, si può accogliere la vita e la relazione, si può crescere e nutrire la speranza. McLuhan sosteneva che il medium è il messaggio. Io, tuttavia, sono convinto sempre di più che il messaggio è il medium: se ho una relazione viva con i miei alunni, anche se mi appoggio a uno strumento che disincarna, adotterò comunque tutti gli stratagemmi per rendere carnale anche questo mezzo perché voglio raggiungere i miei studenti in un rapporto che sia pieno. Così ci siamo inventati degli accorgimenti che rendano questo appuntamento, se non pari al fatto di essere nella stessa aula, quantomeno proiettato a mantenere quel contatto necessario per poter educare”.

Eppure anche prima dell’emergenza, come lei ha scritto di recente nella sua rubrica settimanale per Il Corriere della Sera, Ultimo banco, gli alunni lamentavano l’alternarsi di più supplenti a distanza di poche settimane, e gli insegnanti di essere in balia di precarietà e concorsi rimandati in piena pandemia. “Non abbiamo voluto la scuola ma un parcheggio, non docenti ma parcheggiatori a ore”, ha chiosato. Come si è arrivati a questo punto?

Vorrei che non ci appiattissimo sull’attualità, ma che sfruttassimo l’attualità per comprendere realmente cosa sta emergendo. Siamo in un sistema scolastico che ha mortificato le vite per tanti anni e nessuno ha detto niente. Mi piacerebbe che questo romanzo avesse una valenza politica”.

In che senso?

Politica per me significa prendersi cura della polis, non nel senso di orientamento partitico, il disastro di questo nostro tempo, ma nella constatazione che c’è in gioco un bene comune e trasversale che non deve essere polarizzato solo per accaparrarsi consensi. Da vent’anni facciamo i conti con una scuola che non è neanche in grado di garantire un insegnante per un anno intero, cosa che sarebbe tranquillamente risolvibile. Accanto a una gestione ridicola della cosa pubblica, c’è spesso anche la volontà di tenere le cose in questo stato”.

Durante il periodo del primo lockdown lei ha dichiarato di aver rinunciato a una proposta televisiva da parte del Ministero per realizzare invece un progetto di natura vocazionale insieme a Mario Calabresi. Come mai questa scelta?

“Qualsiasi manuale di psicologia, fin dalle prime pagine, sostiene che la felicità dipende da due ambiti: la creatività, che si realizza nella propria professione, e le relazioni buone. È la felicità nel suo senso più profondo, come la intendevano i latini, l’arbor felix, l’albero che dà frutto, che scopre che la sua vita ha senso nel momento in cui entra in contatto con il mondo in maniera creativa, dando e ricevendo amore. Mi sono chiesto durante il confinamento cosa potessi fare per perseguire questo obiettivo per me e per i miei ragazzi. Creare un altro contenuto video da fruire a distanza in cui fare la mia lezioncina su Leopardi per 15 minuti che utilità avrebbe avuto? Mi sembrava un’operazione autoreferenziale, proprio ciò che sta ammazzando l’istruzione, sia a scuola che all’università”.

Così ha rinunciato.

Sì, ma per sposare un progetto diverso, collegato all’orientamento. Ho cominciato a realizzare dei brevi video, condivisi sui miei canali social, sulla scoperta della propria vocazione, cercando di dare ai ragazzi di quarta e quinta superiore degli strumenti su quello che poteva essere il loro percorso futuro. In questo modo non mi fermavo all’attualità, ma stavo guardando al dopo-confinamento. E ho chiesto una mano a Mario Calabresi, persona a cui mi lega una profonda amicizia e che stimo. Lui nei suoi libri ha spesso parlato di vocazione, e mi sembrava il tutor perfetto per questa iniziativa. Si è trattato di un atto inaugurale, poi proseguito autonomamente, eppure ha avuto una valenza importante: mettere degli adolescenti nella condizione di riflettere sul proprio avvenire in un momento in cui il futuro sembrava non esistere, ha significato fornire loro l’antidoto al veleno della disperazione e del lasciarsi andare”.

I social network sono stati dunque uno strumento prezioso. D’altro canto il suo blog, Prof 2.0, è nato nel 2007, anni prima dell’uscita del suo primo romanzo. Qual è tuttavia il discrimine tra un uso sano di questi canali, sia per un professore sia per i suoi alunni, e il rischio di incappare in forme di dipendenza?

Il discrimine è dettato dall’autenticità del vivere la propria vocazione all’interno di quel contesto e dall’evitare l’autoreferenzialità. Io sono un insegnante, e attraverso i social network porto la mia identità, il mio linguaggio, determinando quel luogo e rimandando a un mondo che è più grande di quella piazza virtuale. In un social io dico ai miei interlocutori: guardate che stiamo qua dentro per dirci delle cose che ci servono ad agire fuori da qui: dal leggere un libro all’approfondire un argomento fino allo scoprire la propria aspirazione. È sempre un momento d’aula, un momento in cui si guarda la vita da un punto di osservazione, ma non è dato crogiolarsi, perché altrimenti si viene soffocati e quello che era un grembo diventa una prigione. La partita si gioca fra dipendere e tendere: se non c’è tensione verso l’altro da qui, inevitabilmente il medium si mangerà il messaggio. Ed è quello che da dieci anni cerco di fare. Mi piacerebbe che quando ci saranno i titoli di coda sulla mia vita, nel voltarmi indietro possa dire di non aver sprecato proprio tutto e che qualcuno si ricordi di me non tanto perché ho venduto dei libri o ho avuto chissà quanti follower, ma perché per intraprendere una scelta gli è stato utile leggere una mia frase, guardare un mio video o ritrovarsi nelle parole di un mio romanzo. Ecco, quando hai aperto più vita con la tua vita, allora la tua esistenza non è stata vana”.