«CON I NUOVI LOCKDOWN A PAGARE SARANNO SOPRATTUTTO LE DONNE»
«Da un lato molte sono rimaste senza lavoro, dall'altro su molte famiglie, soprattutto su numerose madri, è ricaduto tutto il peso del lavoro domestico». La presidentessa di Telefono Rosa Maria Gabriella Carneri Moscatelli lancia l'allarme e in questa intervista al condirettore di Famiglia Cristiana racconta le difficoltà nell'affermarsi nella professione e come è diventata paladina dei diritti femminili.
Maria Gabriella Carneri Moscatelli con il condirettore di Famiglia Cristiana Luciano Regolo. |
Dati alla mano, il 72 per cento dei 2,7 milioni di lavoratori che sono tornati al lavoro, alla fine della serrata nazionale, il 4 maggio sono uomini. E questo per una naturale conseguenza del fatto che le attività a rischio più contenuto, (manifatturiere edili, ecc), si caratterizzano per una tipica prevalenza maschile. Il carico dei compiti di cura della famiglia per le donne, con il ritorno in massa dei mariti o compagni alla “attività esterna” nei mesi scorsi è addirittura aumentato, finendo per rendere ancora più risicata l’offerta di lavoro per loro. Il tasso di occupazione femminile in Italia , da sempre fanalino di coda in Europa, è al di sotto del 50 per cento, fermo al 49,9% secondo l’ultimo rapporto Istat.
Il gap del tasso di occupazione tra uomini e donne nella fascia di età tra i 15 e i 64 anni, è di quasi 18 punti. Eppure le donne hanno un grado di istruzione maggiore, e sono presenti in molte professioni qualificate.
«Sono dati», continua Carnieri Moscatelli, «che devono farci riflettere sull’importanza di non mollare la guardia durante questa emergenza. Bisogna insistere nell’informazione, nella lotta al pregiudizio, nella formazione di una cultura incentrata veramente sulle pari opportunità. So bene cosa significa per una donna farsi strada sul piano professionale in ambienti solitamente appannaggio degli uomini». La presidente di Telefono Rosa, infatti, è stata tra le prime donne ad arrivare ai vertici del top-management bancario. E ha una storia davvero fuori dal comune, di cui non parla spesso, alle prese com’è con le tante emergenze concrete alle quali ha scelto di dedicarsi, lasciando i vantaggi di una fortunata carriera per una battaglia che percepiva come più importante.
Da dove l’è venuto l’impulso ad abbracciare la lotta per i diritti delle donne?
«Dal vissuto personale, credo dalla mia stessa infanzia. Sono nata a Roma in un palazzo dalle cui finestre si vede il piazzale di Porta Pia. E ho sempre vissuto qui, in questa città. La mia famiglia è stata molto unita, affettuosa, tutti grandi lavoratori. Aveva un unico grosso “difetto” per l’epoca: era antifascista. Sia io sia mia sorella fummo spedite a scuola dalle Orsoline di Via Nomentana, perché essendo la figlia maggiore più grande di me di parecchi anni, mio padre non voleva che partecipasse alle adunanze del partito fascista. Le suore rispettavano le diverse idee politiche e religiose e consentivano di non andarvi. Quando avevo 9 anni, una tragedia si abbatté sulla nostra serenità, papà morì all’improvviso, il che comportò un brusco cambiamento di vita. Mamma si trovò da sola con due ragazze una alla vigilia degli esami di maturità e l’altra appena in quinta elementare»
Una storia dunque di impegno e nello stesso tempo solidarietà al femminile?
«Sì perché mia madre responsabilizzò subito noi figlie, facendoci presente che da quel giorno in poi i nostri studi dovevano essere finanziati da borse di studio. Mia sorella, quindi, si diplomò a 18 anni ed entrò all’università, trovandosi però un lavoro al quale si dedicò mentre portava avanti gli studi. Superò tutti gli esami brillantemente, tanto da prendere addirittura due lauree. La morte di mio padre segnò la mia vita. Da una parte mi creò incertezza, dall’altro, però mi fece comprendere immediatamente che se non mi fossi preparata con serietà, non avrei potuto approdare da nessuna parte. Così terminai le scuole con buoni voti e anche io portai avanti gli studi universitari mentre lavoravo».
Frequentava anche da ragazza i movimenti femminili?
«Sì, li ho scoperti da giovanissima e ho maturato la consapevolezza che la donna nella società di allora era sicuramente in subordine all’uomo sia all’interno della famiglia sia, soprattutto, nel mondo lavorativo. Iniziai a lavorare a 18 anni in un’azienda agricola privata e poi presso una società di elettricità. Nel 1960, anno decisamente felice, entrai in banca e conobbi mio marito con il quale poi creai una famiglia meravigliosa, abbiamo vissuto insieme sessant’anni e purtroppo è scomparso quest’anno».
Quando parla di quel 1960 le brillano gli occhi…
«Sì, é stato forse l’anno più bello della mia vita perché acquistai quella sicurezza che mi mancava, la consapevolezza che avrei potuto andare avanti ed essere del tutto indipendente. Il mondo bancario era molto difficile per una donna, ancor più per una ragazza appena diciottenne. Un mondo completamente maschilista, in cui le donne erano ritenute poco più che segretarie e incapaci di fare altro. Ecco, perché, giorno dopo giorno, è maturata in me la convinzione della necessità di intervenire nel mondo del lavoro. Per poter incidere su una mentalità e su un costume veramente punitivo per tutte le donne».
Torniamo alla sua carriera: come ha bucato il muro?
«Dopo i primi anni passati all’interno di un ufficio dove non si poteva alzare la testa dal lavoro, nel 65, finalmente uno spiraglio di libertà: la Filiale in cui lavoravo si trasferì dalla Galleria Colonna in Via del Tritone, in un palazzetto accanto agli uffici della Presidenza del Consiglio e da lì in poi si respirò aria nuova. Dirigenti giovani diedero nuova vitalità all’agenzia stessa e compresero che la presenza e l’intelligenza femminile dovevano essere impiegate diversamente e valorizzate. La mia vita lavorativa cambiò completamente. Dagli incarichi modesti ricoperti sino ad allora passai a ruoli sempre più importanti che mi consentirono di raggiungere la posizione di vice direttore di sede, obiettivo prestigioso e decisamente difficile, anche per gli uomini»
Grazie al suo lavoro ha incontrato tante personalità importanti. Qualcuna che l’ha colpita particolarmente?
«Questi incontri li considero un bagaglio umano prezioso, unitamente alla formazione maturata attraverso l’esperienza lavorativa. Fra l’altro molte di queste persone ho continuato a frequentarle negli anni: dall’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini, alla famiglia Agnelli, dal direttore del Tempo, a quello del Messaggero, i cronisti di La Stampa. La filiale della San Paolo in Via del Tritone era uno scrigno un crocevia di grandi nomi della politica, dell’industria e della cultura o dell’arte. Ricordo la grande emozione il giorno in cui incontrai Guttuso con cui poi potei intessere una conoscenza sempre più approfondita, oppure lo scultore Fazzini e vari registi, come Ettore Scola. All’epoca dirigevo gli sportelli di Via della Stamperia e successivamente ho assunto il ruolo di responsabile dell’ufficio investimenti clienti».
L’impatto col jet-set le fece dimenticare la questione femminile?
«No assolutamente. Non mi sono mai dimenticata della posizione della donna nella nostra società tanto che nel 66 all’interno della struttura di Via della Stamperia creai il nucleo sindacale della Uib -Uil. Ne facevano parte parecchie mie colleghe con le quali ancora oggi ho ottimi rapporti e con cui abbiamo lottato per ottenere la parità dei diritti delle donne. Contemporaneamente lavoravo all’interno dei gruppi femministi impegnati a scardinare un sistema vecchio, logoro».
Fu quello l’humus da cui nacque Telefono Rosa?
«Sì, il movimento delle donne ha deciso di lasciare il Palazzo bel "Buon Pastore" e di occupare quello di Via della Lungara dove ancora oggi ha sede la Casa Internazionale delle Donne. Nell’88 creammo il Telefono Rosa. Si voleva sondare la violenza all’interno delle famiglie ma da parte mia c’era anche la volontà di capire la posizione economica della donna all’interno delle stesse e del mondo del lavoro. Il piccolo nucleo di donne che fondò il Telefono Rosa ha lavorato con molta determinazione e, se oggi l’Associazione ha raggiunto i livelli attuali lo deve proprio a tutte le fondatrici che si impegnarono poi a far crescere l’associazione, portandovi dentro il bagaglio culturale e la rete di conoscenze intessute negli anni. È del tutto evidente che se non avessimo saputo creare buoni rapporti interpersonali, se non fossimo riuscite a farci stimare per il nostro impegno, la nostra preparazione e la nostra disponibilità non avremmo potuto mai approdare a nulla».
Era così difficile farsi ascoltare?
«All’epoca, negli anni 80, entrare dentro il sacrario della Camera dei Deputati e del Senato era difficilissimo, non ti ascoltavano. Noi invece proprio grazie al nostro percorso avevamo un filo diretto con quelle poche donne che erano all’interno delle Istituzioni: da Nilde Iotti a Giglia Tedesco, da Elena Marinucci a Rosa Russo Jervolino. Con loro abbiamo lavorato e siamo riuscite a far approvare la famosa legge contro la violenza sessuale. Oggi il Telefono Rosa, grazie all’impegno di quegli anni, può contare su una credibilità e una stima notevoli».
Non le ha dato potere o prestigio il fatto di esserne diventata presidente?
«In realtà, le tante amiche e amici non mi hanno conosciuta e stimata in quanto presidente del Telefono Rosa ma in quanto Gabriella: bancaria, femminista e battagliera. Il Telefono Rosa, che sono orgogliosa di aver fondato, non mi ha dato né visibilità né tantomeno potere. Il potere, per me, lo esercita chi non ha capacità di lavorare in gruppo, chi non ha capacità di ascolto e di comunicazione ma soprattutto chi non ha capacità manageriali e ha bisogno di ricorrere ad altri mezzi per affermarsi. L'associazione mi ha dato tanto lavoro, tante grane e sicuramente la soddisfazione di aver aiutato la parte più debole della società. E non è ancora finita, purtroppo questa pandemia ci impone di alzare ancora di più il livello da guardia e darci da fare»
(fonte: Famiglia Cristiana, articolo di Luciano Regolo 05/11/2020)