lunedì 14 settembre 2020

"A lezione di superbia" di Sandra Gesualdi

A lezione di superbia

I primi ragazzi mandati all’estero da don Lorenzo Milani


Nel settembre del 1966, quando partì, Carla non aveva mai viaggiato. Prima il pullman da Vicchio per Firenze, poi l’aereo verso Londra. Da sola. Una frangetta a mascherar la paura, la gonna coi calzini bianchi e una famiglia au pair che l’aspettava oltre Manica. Oggi si direbbe un soggiorno di studio-lavoro. Mezzo secolo fa, fu la prima ragazzina a essere mandata da don Lorenzo Milani all’estero. Da Barbiana, un poggio battuto dal vento, venti case di mezzadri sparse nel bosco e sospese nel nulla, senza acqua potabile e strada, la luce elettrica arrivata da qualche mese.

«Cara Elena — scrive don Lorenzo alla Brambilla — Mauro si è finalmente deciso a partire per l’Inghilterra. Contemporaneamente mi è stata finalmente offerta l’occasione a spedire la Carla. Così la prima ragazzina barbianese di 15 anni avrà finalmente la parità coi maschi».

Michele invece, di anni ne aveva 17 quando prese il treno, biglietto di sola andata destinazione Stoccarda. A perfezionare la lingua, lavorando prima da un fabbro, poi come operaio alla Mercedes. «Voglio fare di voi degli euro sindacalisti», lo convinse il priore. In quella fabbrica lontana, era lo straniero dove conobbe l’umiliazione del migrante. La superò iscrivendosi al sindacato e iniziando a occuparsi dei diritti dei migranti. «Dici che la superbia barbianese ti ha fatto battere la testa tante volte. Ringraziane Dio. È segno che ti sei mosso. Chi non si muove non batte neanche la testa. Ringraziala la superbia che ti ha fatto superare lo strappo di quella notte alla stazione di Firenze, quando l’Eda diceva che quel vagone nero pareva un carro funebre e l’umiltà vile del vinto ti sussurrava di restare a casa perché troppo giovane per affrontare la solitudine e l’oppressione degli emigrati».

Carla e Michele, i miei genitori, la superbia l’hanno imparata a scuola. Gliel’ha insegnata don Lorenzo Milani, insieme a molti altri ragazzi e ragazze, a suon di Vangelo e Costituzione, libri unici da condividere, vitamine, discussioni infinite sul significato di una parola, lettura del giornale e ansia da giustizia sociale alimentata ogni giorno come un fuoco, dal vento di quel poggio. «Ho deciso, dopo matura riflessione che l’umiltà è la rovina della classe operaia e peggio ancora, contadina e montanara», affermava.

A lezione di superbia, quella che permette di superare la paura dei vinti figli dei vinti e consente di scoprire chi si è, nel profondo. Indagare se stessi, quale sia la propria scintilla per poi metterla a disposizione degli altri. Questo era il fondamentale insegnamento. Uscire sempre insieme dai problemi e dalle ingiustizie, interessarsi a tutto e tutti.

Quella scuola speciale, dove si incontravano parole nuove come fossero amici attesi, si misuravano le rotte delle stelle con un astrolabio sbilenco e il proprio coraggio si mescolava ai trucioli di un telaio piallato a mano, era la scuola di Barbiana. Il telaio proprio quello che per Gandhi procurava la dignità del lavoro ed educava al fare. I ragazzi lo scoprirono studiando il movimento non violento e leggevano la biografia del Mahatma. Decisero di ricostruirlo.

Solo da adulta ho capito che cosa fosse successo in quella stanza piena di cartine disegnate e incollate dai ragazzi, di volumi vecchi, strani cannocchiali costruiti con pezzi di tubi, un Padre Nostro trascritto in cinese antico e un «M’importa» in inglese a lettere cubitali.

Barbiana è stata casa, famiglia dalle maglie larghe ma dai sentimenti fittissimi, scuola viva e infinito luogo dell’anima. Su quei tavoli si è continuato a imparare a scrivere e leggere, anche dopo la morte di don Lorenzo. Con naturalezza e senza accorgersene come se la scuola non riuscisse a interrompersi. Si è mangiato tutti insieme aggiungendo sempre posti e dividendo le braciole all’olio come se quell’aula non potesse abdicare al senso di comunità di cui era pregna. Si sono mischiati quaderni coi lenzuoli da ripiegare a ribadire che la conoscenza si intreccia ininterrottamente con la vita. A portare fiori di campo in quel minuscolo cimitero di campagna dimora eterna per giganti.

Da adulta ho capito perché Michele dicesse che in quel luogo era rinato. Negli anni Cinquanta, quando don Lorenzo fu nominato, (esiliato), parroco di Barbiana, quel fazzoletto di terra era la sinossi e concentrazione di ogni emarginazione e ingiustizia sociale. I barbianesi gli ultimi degli ultimi, i reietti, gli esclusi, timidi e sospettosi, chiusi nella loro ignoranza. Lorenzo fece la cosa più genuina che un uomo di fede profonda potesse attuare: cercò il Vangelo incarnato e lo trovò nella povertà di quel suo sparuto popolo, nei calli delle loro mani da mezzadri, nello sguardo basso dell’umiliazione e nel silenzio del non sapere. La scuola fu luce e rivoluzione. Le parole imparate, cercate, capite, accumulate le chiavi che aprono ogni porta. Lorenzo fu un maestro che comprese quanto scuola e Verbo fossero, per i suoi piccoli montanari, più potenti di una schioppettata in pieno petto e più rassicuranti di un abbraccio materno. Luogo di senso dove capire e farsi capire, dribblare il dito per puntare lo sguardo dritto alla Luna, «imparare a imparare e insegnare a insegnare», sviluppare pensiero e crearne di nuovo, porsi domande e trovare soluzioni.

Michele in quella scuola asciugò la rabbia dell’escluso assaggiando l’ebrezza della conoscenza da condividere. Diventò insegnante dei più piccoli, scoprì che il sapere allontana le paure, si sentì adeguato più che giudicato, accolto più che respinto, acceso di coscienza più che riempito di nozioni. In quell’aula povera scoprì di essere parte di un mondo ingiusto e sfruttato a cui poteva dare un contributo, imparò a studiare con e per gli altri e avere sempre occhi su e per il mondo. «In questi anni vi ho educato a sentirvi classe, a non dimenticarvi della umanità bisognosa, e a tenere a bada il vostro egoismo», dirà ai suoi ragazzi don Lorenzo poco prima di morire. «Perché non si tratta di produrre una nuova classe dirigente, ma una massa cosciente».

Carla quando tornò dall’Inghilterra sapeva una nuova lingua, quanto bastava per non aver timore di prendere per mano le fragilità di Marcellino, il bambino che non riusciva a parlare. Quella fu la sua scintilla.

In una delle ultime lettere a mio padre il priore scrive che: «Era meraviglioso da vecchi prendere una legnata da un figliolo, perché è segno che quel figliolo è già un uomo e non ha bisogno di balia, e qui è il fine ultimo di ogni scuola: tirar su dei figlioli più grandi di lei, così grandi che la possano deridere. Solo allora la vita di quella scuola o di quel maestro ha raggiunto il suo compimento e nel mondo c’è progresso».

La pretesa, più che la speranza è che da lunedì riapra una scuola dove sconfiggere pregiudizi e paure, alzare con superbia lo sguardo sulle ingiustizie del mondo e diventare piccole e piccoli cittadini liberi, «vivi e ribelli» capaci di superarle.

di Sandra Gesualdi
(fonte: L'Osservatore Romano 12/09/2020)