mercoledì 30 settembre 2020

«“Adesso torniamo alla normalità”: no, questo non va perché questa normalità era malata di ingiustizie, disuguaglianze e degrado ambientale. La normalità alla quale siamo chiamati è quella del Regno di Dio» Papa Francesco Udienza Generale 30/09/2020 (foto, testo e video)

UDIENZA GENERALE

Cortile San Damaso
Mercoledì, 30 settembre 2020


Il Papa è arrivato al Cortile di San Damaso, dove lo hanno accolto circa 500 fedeli nel rispetto delle norme di sicurezza e di distanziamento sociale, poco dopo le 9. Nel percorso a piedi lungo le transenne, che come di consueto durante l’udienza del mercoledì precede la catechesi, ha benedetto foto, rosari, libri, oggetti e immagini, firmandone qualcuna, e si è soffermato a parlare con un gruppo di ragazzi americani, riconoscibili dalla grande bandiera a stelle e strisce adagiata sulla transenna. Non è mancato lo scambio dello zucchetto e l’incontro, sempre a debita distanza, con alcune giovani famiglie con bambini, ai quali Francesco si è rivolto per dire qualche parola. 















Catechesi “Guarire il mondo”: 9. Preparare il futuro insieme a Gesù che salva e guarisce

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Nelle scorse settimane, abbiamo riflettuto insieme, alla luce del Vangelo, su come guarire il mondo che soffre per un malessere che la pandemia ha evidenziato e accentuato. Il malessere c’era: la pandemia lo ha evidenziato di più, lo ha accentuato. Abbiamo percorso le vie della dignità, della solidarietà e della sussidiarietà, vie indispensabili per promuovere la dignità umana e il bene comune. E come discepoli di Gesù, ci siamo proposti di seguire i suoi passi optando per i poveri, ripensando l’uso dei beni e prendendoci cura della casa comune. Nel mezzo della pandemia che ci affligge, ci siamo ancorati ai principi della dottrina sociale della Chiesa, lasciandoci guidare dalla fede, dalla speranza e dalla carità. Qui abbiamo trovato un solido aiuto per essere operatori di trasformazione che sognano in grande, non si fermano alle meschinità che dividono e feriscono, ma incoraggiano a generare un mondo nuovo e migliore.

Vorrei che questo cammino non finisca con queste mie catechesi, ma che si possa continuare a camminare insieme, «tenendo fisso lo sguardo su Gesù» (Eb 12,2), come abbiamo sentito all’inizio; lo sguardo su Gesù che salva e guarisce il mondo. Come ci mostra il Vangelo, Gesù ha guarito i malati di ogni tipo (cfr Mt 9,35), ha dato la vista ai ciechi, la parola ai muti, l’udito ai sordi. E quando guariva le malattie e le infermità fisiche, guariva anche lo spirito perdonando i peccati, perché Gesù sempre perdona, così come i “dolori sociali” includendo gli emarginati (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 1421). Gesù, che rinnova e riconcilia ogni creatura (cfr 2 Cor 5,17; Col 1,19-20), ci regala i doni necessari per amare e guarire come Lui sapeva fare (cfr Lc 10,1-9; Gv 15,9-17), per prendersi cura di tutti senza distinzioni di razza, lingua o nazione.

Affinché questo accada realmente, abbiamo bisogno di contemplare e apprezzare la bellezza di ogni essere umano e di ogni creatura. Siamo stati concepiti nel cuore di Dio (cfr Ef 1,3-5). «Ciascuno di noi è il frutto di un pensiero di Dio. Ciascuno di noi è voluto, ciascuno di noi è amato, ciascuno è necessario».[1] Inoltre, ogni creatura ha qualcosa da dirci del Dio creatore (cfr Enc. Laudato si’, 69. 239). Riconoscere tale verità e ringraziare per gli intimi legami della nostra comunione universale con tutte le persone e con tutte le creature, attiva «una cura generosa e piena di tenerezza» (ibid., 220). E ci aiuta anche a riconoscere Cristo presente nei nostri fratelli e sorelle poveri e sofferenti, a incontrarli e ascoltare il loro grido e il grido della terra che se ne fa eco (cfr ibid., 49).

Interiormente mobilitati da queste grida che reclamano da noi un’altra rotta (cfr ibid., 53), reclamano di cambiare, potremo contribuire al risanamento delle relazioni con i nostri doni e le nostre capacità (cfr ibid., 19). Potremo rigenerare la società e non ritornare alla cosiddetta “normalità”, che è una normalità ammalata, anzi ammalata prima della pandemia: la pandemia l’ha evidenziata! “Adesso torniamo alla normalità”: no, questo non va perché questa normalità era malata di ingiustizie, disuguaglianze e degrado ambientale. La normalità alla quale siamo chiamati è quella del Regno di Dio, dove «i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo» (Mt 11,5). E nessuno fa il finto tonto guardando da un’altra parte. Questo è quello che dobbiamo fare, per cambiare. Nella normalità del Regno di Dio il pane arriva a tutti e ne avanza, l’organizzazione sociale si basa sul contribuire, condividere e distribuire, non sul possedere, escludere e accumulare (cfr Mt 14,13-21). Il gesto che fa andare avanti una società, una famiglia, un quartiere, una città, tutti è quello di darsi, dare, che non è fare un’elemosina, ma è un darsi che viene dal cuore. Un gesto che allontana l’egoismo e l’ansia di possedere. Ma il modo cristiano di far questo non è un modo meccanico: è un modo umano. Noi non potremo mai uscire dalla crisi che si è evidenziata dalla pandemia, meccanicamente, con nuovi strumenti - che sono importantissimi, ci fanno andare avanti e dei quali non bisogna avere paura - ma sapendo che neppure i mezzi più sofisticati potranno fare tante cose ma una cosa non la potranno fare: la tenerezza. E la tenerezza è il segnale proprio della presenza di Gesù. Quell’avvicinarsi al prossimo per camminare, per guarire, per aiutare, per sacrificarsi per l’altro.

Così è importante quella normalità del Regno di Dio: il pane arrivi a tutti, l’organizzazione sociale si basi sul contribuire, condividere e distribuire, con tenerezza, non sul possedere, escludere e accumulare. Perché alla fine della vita non porteremo niente nell’altra vita!

Un piccolo virus continua a causare ferite profonde e smaschera le nostre vulnerabilità fisiche, sociali e spirituali. Ha messo a nudo la grande disuguaglianza che regna del mondo: disuguaglianza di opportunità, di beni, di accesso alla sanità, alla tecnologia, all’educazione: milioni di bambini non possono andare a scuola, e così via la lista. Queste ingiustizie non sono naturali né inevitabili. Sono opera dell’uomo, provengono da un modello di crescita sganciato dai valori più profondi. Lo spreco del pasto avanzato: con quello spreco si può dare da mangiare a tutti. E ciò ha fatto perdere la speranza a molti ed ha aumentato l’incertezza e l’angoscia. Per questo, per uscire dalla pandemia, dobbiamo trovare la cura non solamente per il coronavirus – che è importante! – ma anche per i grandi virus umani e socioeconomici. Non bisogna nasconderli, facendo una pennellata di vernice perché non si vedano. E certo non possiamo aspettarci che il modello economico che è alla base di uno sviluppo iniquo e insostenibile risolva i nostri problemi. Non l’ha fatto e non lo farà, perché non può farlo, anche se certi falsi profeti continuano a promettere “l’effetto a cascata” che non arriva mai.[2] Avete sentito voi, il teorema del bicchiere: l’importante è che il bicchiere si riempia e così poi cade sui poveri e sugli altri, e ricevono ricchezze. Ma c’è un fenomeno: il bicchiere incomincia a riempirsi e quando è quasi pieno cresce, cresce e cresce e non avviene mai la cascata. Occorre stare attenti.

Dobbiamo metterci a lavorare con urgenza per generare buone politiche, disegnare sistemi di organizzazione sociale in cui si premi la partecipazione, la cura e la generosità, piuttosto che l’indifferenza, lo sfruttamento e gli interessi particolari. Dobbiamo andare avanti con tenerezza. Una società solidale ed equa è una società più sana. Una società partecipativa – dove gli “ultimi” sono tenuti in considerazione come i “primi” – rafforza la comunione. Una società dove si rispetta la diversità è molto più resistente a qualsiasi tipo di virus.

Mettiamo questo cammino di guarigione sotto la protezione della Vergine Maria, Madonna della Salute. Lei, che portò in grembo Gesù, ci aiuti ad essere fiduciosi. Animati dallo Spirito Santo, potremo lavorare insieme per il Regno di Dio che Cristo ha inaugurato in questo mondo, venendo tra noi. E’ un Regno di luce in mezzo all’oscurità, di giustizia in mezzo a tanti oltraggi, di gioia in mezzo a tanti dolori, di guarigione e di salvezza in mezzo alle malattie e alla morte, di tenerezza in mezzo all’odio. Dio ci conceda di “viralizzare” l’amore e globalizzare la speranza alla luce della fede.

Guarda il video della catechesi


Saluti

...

APPELLO


Oggi ho firmato la Lettera apostolica «Sacrae Scripturae affectus», nel 16° centenario della morte di San Girolamo.

L’esempio di questo grande dottore e padre della Chiesa, che ha messo la Bibbia al centro della sua vita, susciti in tutti un rinnovato amore alla Sacra Scrittura e il desiderio di vivere in dialogo personale con la Parola di Dio.

* * *

Rivolgo un cordiale saluto ai fedeli di lingua italiana. Il Signore vi ottenga il bene che desidera il vostro cuore per voi stessi e per quanti vi sono vicini nel cammino della vita.

Il mio pensiero va infine, come di consueto, agli anziani, ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. Ciascuno, nella situazione in cui si trova, sappia essere generoso sia nell’impegno per un futuro migliore, sia nell’accettazione della prova e della sofferenza, sia nel mutuo amore per l’edificazione di una famiglia concorde e vera.

Guarda il video integrale




“Il Vegliardo di Patmos” di Vincenzo Arnone - Recensione di Aldo Pintor


“Il Vegliardo di Patmos”
 
 
di Vincenzo Arnone
 
Recensione di Aldo Pintor




Ha sempre suscitato interrogativi l'identità del personaggio del quarto Vangelo chiamato il discepolo che Gesù amava. Gli studiosi lo identificano quasi all'unaminità con Giovanni il figlio di Zebedeo il fratello di Giacomo cui viene attribuita la paternità appunto di questo quarto Vangelo, oltre che di tre epistole e del famoso scritto visionario dell'Apocalisse scritto nell'isola greca di Patmos. Questa identificazione è stata elaborata sulla base di più indizi. Uno è il fatto che questo misterioso discepolo compare sempre negli episodi dove negli altri Vangeli è presente Giovanni, un'altra cosa che ci fa pensare è che in questo quarto Vangelo Giovanni non viene mai nominato come se fosse una scelta dell'autore di non voler apparire una scelta di umiltà.

Stando a quanto dice la tradizione, Giovanni lasciò Gerusalemme dopo la Pentecoste e si recò prima in Samaria e poi a Efeso dove radunò un folto gruppo di fedeli. Riguardo a questo periodo trascorso a Efeso, San Girolamo racconta di un Giovanni vecchissimo condotto all'assemblea liturgica dai suoi discepoli in quanto non più autosufficiente che ripeteva incessantemente: “Piccoli figli amatevi gli uni con gli altri”. E quando gli facevano notare la ripetitività della sua affermazione lui rispondeva: “Questo è il comandamento del Signore se fosse anche il solo a essere osservato basterebbe”.

Su Giovanni figlio di Zebeleo in tanti hanno scritto sia esegeti sia semplici fedeli che scrittori comunque affascinati dalla sua figura. E' un apostolo che ha sempre colpito per il suo forte afflato spirituale e profetico spesso contrapposto a un legalismo dottrinario. E tra le tante opere a lui dedicate in questi giorni è uscito il libro che segnaliamo scritto da Don Vincenzo Arnone “Il Vegliardo di Patmos”. Uno strano romanzo epistolare.

L'autore è un coltissimo sacerdote siciliano che da tanti anni opera a Firenze ed è uno studioso dei rapporti tra Bibbia e letteratura. In questi giorni ha dato alle stampe la sua creazione letteraria davvero originale.

Nel libro che stiamo presentando viene raccontato che nell'anno 110 d.C. un po' di tempo dopo la morte di Giovanni un contadino di Patmos tal Ermogene scrive all'amico Marone una lunga lettera proprio su un vecchio che stava a Patmos che aveva uno sguardo misterioso diverso dagli altri uomini. Questa figura aveva colpito molto Ermogene in modo tale da attirare la sua attenzione. In particolare Ermogene è colpito dallo sguardo di quest'uomo enigmatico. Lo sguardo di chi aveva provato una felicità che non è di questo mondo. Questo misterioso vecchio è appunto Giovanni. Dal riepilogo della vita di Giovanni che compare in questo libro apprendiamo che all'inzio cercò di sfuggire all'influenza di Gesù di Nazareth questo rabbì così diverso dagli altri. Ma dopo una fuga e una meditazione nel deserto decise di intraprendere un cammino di conversione e amicizia con lui e di accettare di diventare suo discepolo. Questo fortissimo legame con Gesù lo portò unico fra gli apostoli nel golgota sotto la Croce e al mattino di Pasqua a credere alla Resurrezione senza nessun bisogno di entrare nel sepolcro. Ermogene lo descrive come un vecchio silenzioso. Un vecchio che passeggiava in silenzio volgendo il suo sguardo verso Efeso come in cerca di qualcosa che aveva perduto o come chi custodiva un segreto. E ciò che colpisce il narratore esattamente come Ermogene è la descrizione del suo sguardo penetrante. Giovanni che all'inizio del suo Vangelo sottolinea come al principio era la Parola viene in questo libro descritto curiosamente come un uomo del silenzio. Come se le parole di Gesù fossero custodite nel suo silenzio così come tutti i momenti che aveva vissuto in sua compagnia. Questi ricordi gli procurarono una grande felicità che nulla al mondo avrebbe potuto togliergli ma anche una profonda inquietudine.

Giovanni ricordava bene lo sguardo di Gesù, sguardo che prometteva un mondo nuovo capace di far credere all'amore. E di quello sguardo aveva profonda nostalgia. Nostalgia di quell'amore che dà un senso e significato a ogni momento della nostra vita e questo amore era tutto quello che Gesù domandava. E questo è quanto Giovanni ha capito e tramandato di Gesù.

Vincenzo Arnone attraverso il suo personaggio di Ermogene ce lo ricorda con questo strano e prezioso libretto.




A quale età i giovani escono di casa? Perché c'è tanta differenza in Europa?

A quale età i giovani escono di casa?
Perché c'è tanta differenza in Europa?



 
GIOVANI CHE ESCONO DI CASA.
CHI NON TROVA LA PORTA?
di Francesco Belletti*

L’analisi dei diversi contesti nazionali, così diversi tra loro, forse aiuta a districarsi nelle varie ipotesi interpretative senza affidarsi a pregiudizi e semplificazioni. Certamente le politiche attive per facilitare l'uscita di casa e la conseguente maturazione dei figli adulti hanno un ruolo decisivo. E vanno promosse perché l'autonomia dei giovani è la priorità di ogni nazione che voglia costruire un futuro.

I recenti dati Eurostat sull’età a cui i giovani escono di casa in 32 Paesi europei sono di estremo interesse, ben al di là della consueta lamentazione sui cosiddetti bamboccioni italiani. In effetti l’età media complessiva europea di uscita di casa si attesta nel 2019 attorno ai 26 anni, ed è facile notare che in Svezia si esce a 17,8 anni (!), mentre in Italia si esce a 30,1 anni. A dire il vero non è l’Italia il Paese con il dato più alto: si deve andare in Montenegro, dove i giovani escono ancora più tardi, a 33,1 anni. E la Svezia è davvero un caso a parte: in nessun altra nazione si scende sotto i 20 anni: in Lussemburgo si esce a 20,1 anni, in Finlandia a 21,8, e seguono altri Paesi del Nord Europa. 

L’analisi dei diversi contesti nazionali forse aiuta a districarsi nelle varie ipotesi interpretative senza affidarsi a pregiudizi eccessivamente semplificatori: colpa dei ragazzi che non vogliono rischiare? colpa delle famiglie che non si fidano dei figli e li “trattengono”? colpa del mercato del lavoro, che offre solo lavori precari? colpa delle politiche, che investono su altre categorie e non sostengono giovani e bambini? Probabilmente in tutte queste ipotesi c’è del vero, e sarebbe meglio capire come intervenire su ciascuna di esse, anziché cercare il colpevole. Però dai dati si possono notare diversi aspetti.


In primo luogo ci sono “gruppi di nazioni” con comportamenti omogenei: quelle in cui si esce più tardi, dove cioè i giovani fanno più fatica a conquistare l’autonomia, sono in primo luogo i Paesi balcanici (da questi si esce più tardi, tra i 31 e i 33 anni), e in seconda battuta i Paesi mediterranei (Italia, Spagna, Portogallo, Grecia, attorno ai 30 anni). L’interagire delle difficoltà economiche per i giovani, delle scelte politiche inadeguate e delle culture familiari più o meno emancipanti offre qui combinazioni molto differenti. Dall’altra parte, emergono i Paesi scandinavi, dove si esce prima possibile (tra i 20 e i 22 anni), e poi i Paesi centro-europei (tra 23 e 25 anni). Cosa fa soprattutto la differenza tra questi gruppi di nazioni? Certamente le politiche attive per l’autonomia dei giovani hanno qui un ruolo decisivo. Ad esempio sarebbe interessante sperimentare nel nostro Paese alcune delle misure di sostegno ai giovani che qui sono normali, come abitazioni facilmente accessibili e a basso costo, occasioni di lavoro non precarie, e magari anche l’università lontano da casa (aiuterebbe certamente l’autonomia), e vedere se sono le nostre famiglie ad essere bloccate e i nostri ragazzi ad essere pigri, e non, piuttosto, le politiche ad essere gravemente deficitarie. Diamo un’opportunità ai nostri figli: non ci deluderanno!

Un secondo dato, colpevolmente trascurato da molti commenti, è la differenza di genere: in alcuni Paesi l’età di uscita dalla casa è drammaticamente diversa tra maschi e femmine, evidenziando traiettorie di vita sicuramente diverse. È il caso soprattutto dei Paesi balcanici: in Macedonia la differenza è di oltre 7 anni (i maschi escono in media a 35,6 anni, le femmine a 28). In Italia, il differenziale è presente (come in quasi tutti gli altri Paesi), ma molto più contenuto (maschi a 31 anni, femmine a 29,1). È un dato da non dimenticare, soprattutto perché le giovani donne hanno l’ulteriore potenziale handicap della gravidanza e della maternità, che sicuramente le penalizza fortemente, in assenza di politiche pubbliche efficaci e di una cultura del lavoro ancora troppo indifferenti alla grave emergenza natalità.

Cosa possono suggerire questi dati, qui solo brevemente analizzati? In primo luogo conviene ricordare che rimanere a lungo nella casa dei propri genitori costituisce per i giovani un oggettivo e prezioso “ammortizzatore”, di fronte a scenari sempre più complessi e turbolenti, ma questa scelta rinvia spesso troppo a lungo il loro protagonismo sociale e la loro reale autonomia. Sono tutti anni guadagnati alla propria libertà, quelli in cui si esce, si rischia, si mettono in gioco i propri talenti. E sarebbe interesse di tutti consentire ai giovani di prendersi in mano la propria vita, costruendo il proprio futuro e insieme il futuro del proprio Paese. Non è una questione privata: è una delle priorità di ogni nazione che voglia costruire il futuro: staremo a vedere, se davvero la Italian Next Generation sarà al centro delle attenzioni e delle priorità del nuovo piano di rilancio che in queste settimane potremo costruire, con risorse mai avute prima, che tolgono ogni alibi a chi deve decidere. Perché per costruire il futuro è indispensabile affidarlo nelle mani delle nuove generazioni.

*Direttore del Cisf - Centro Internazionale Studi Famiglia
(fonte: Famiglia Cristiana 29/09/2020 )

Età media di uscita di casa:
la mappa relativa ai giovani in Europa
(dati Eurostat)




I 30enni italiani a casa con i genitori: il rapporto Eurostat

De Masi: è l’effetto della mancanza di lavoro. 
De Rita: ma nel nido non si sta senza fare niente


Li hanno chiamati sfigati o choosy, che in inglese sta più o meno per schizzinosi. E ancora inoccupabili, sdraiati o addirittura (come dimenticare?) bamboccioni. Etichette indovinate oppure no, il fenomeno che le ha generate è vivo e lotta insieme a noi. Anzi, sta crescendo. A ricordarcelo è un file di Eurostat, l’ufficio statistico dell’Unione europa. Per ogni Stato membro, il documento dice a quale età i figli vanno via di casa, lasciando il nucleo familiare d’origine, cioè mamma e papà. La media europea è intorno ai 26 anni, 25,9 perla precisione. In Italia siamo un filo sopra quota 30, 30,1 anni. Più tardi di noi, escono di casa solo gli slovacchi e i croati, rispettivamente a 30,9 e 31,8 anni. 

La forbice si allarga

Non è una sorpresa, certo. Come non stupisce che in Svezia il momento del distacco arrivi ancora prima di diventare maggiorenni, in media a 17,8 anni. Tutti i Paesi del Sud Europa tendono a ritardare il momento dell’indipendenza, e questo non solo perché è più difficile trovare lavoro o perché il lavoro si cerca per altri canali, ma anche per una diversa visione della vita. Colpisce però che la forbice si stia allargando. Nel 2011, quando la grande crisi che di fatto non ci ha mai abbandonato era agli inizi, i giovani italiani lasciavano la famiglia d’orgine prima dei 30 anni. Per carità, appena prima, 29,7. Ma che cosa è successo se nel 2019 abbiamo superato la soglia non solo psicologica di quota 30 anni, mentre la media europea è scesa, seppure di uno zero virgola?

Un mondo senza lavoro?

«A me non sembra un segnale negativo, ma un aggiustamento per adattarci al mondo senza lavoro che sta arrivando» dice il sociologo Domenico De Masi, serafico come sempre. Lui invita ad alzare la lente di ingrandimento dalle tabelle dell’Eurostat e guardare quella che definisce la «striscia lunga dei dati». In che senso? «Nel 1891, in Italia eravamo 30 milioni e lavoravamo 70 miliardi di ore. Adesso siamo il doppio e lavoriamo quasi la metà di ore. Che la tecnologia non distrugga posti di lavoro è una bugia che ci raccontiamo tutti per stare un po’ più tranquilli. E se c’è meno lavoro è inevitabile che si resti di più nella famiglia d’origine». Nessun problema, dunque? «No, un problema c’è. Chi resta in una famiglia ricca se la cava, chi resta in una famiglia meno ricca se la cava meno. Bisogna trovare altri modi per dividere la ricchezza. Finora lo abbiamo fatto proprio sulla base del lavoro, con gli stipendi e le pensioni. Ma se il lavoro tende a scomparire?».

L’effetto Covid

«In una stagione difficile come questa è inevitabile che le famiglie d’origine diano una mano ai figli per il sostentamento o per l’investimento in istruzione, e li tengano vicini», dice il fondatore del Censis Giuseppe De Rita. Ma non c’è il rischio che andando via di casa più tardi, i giovani italiani fatichino poi a nuotare in mare aperto? «Questo dipende molto dalle famiglie di provenienza. In linea di massima questo rischio non c’è anche perché non è mica vero che chi rimane nel nido ne approfitta sempre per non fare nulla. Semmai il rischio vero è un altro». E quale? «Che ad addormentarsi sia proprio la famiglia di provenienza. Specie dopo il Covid e questo anno di assoluta mancanza di mobilità, non solo fisica, il problema può essere questo».

L’adolescenza protratta

Ma se ci spostiamo dalla sociologia alla psicologia, spuntano altre domande, altri problemi: «C’è sicuramente un fascino nell’essere trattenuti e la famiglia mediterranea tende a inseguire questa chimera del non lasciarsi», dice la psicoterapeuta Anna Salvo. «Il rischio è quello di finire in un’adolescenza protratta, quasi interminabile». E questo può essere un guaio serio. «Certo, perché noi abbiamo bisogno di movimenti oscillatori, di andata e ritorno. Altrimenti compromettiamo la nostra capacità di metterci alla prova. E quella è una ferita che può restare aperta per tutta la vita».

(fonte: San Francesco Patrono d'Italia 29/09/2020)

martedì 29 settembre 2020

Il nuovo libro di Simone Varisco sulla Giornata Mondiale del Migrante. - Qualche anteprima e alcune confessioni dell'autore



Il mio nuovo libro sulla Giornata Mondiale del Migrante. 
Qualche anteprima e alcune confessioni
di Simone M. Varisco

E siamo a sette. Ci si potrebbe leggere un significato biblico di totalità e completezza. La verità è che sembra piuttosto l’inizio di un cammino.

Il mio settimo libro, Il giorno di chi è in cammino. Storia della Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato in Italia (Presentazione di S. Em. Card. Gualtiero Bassetti, Prefazione di padre Fabio Baggio c.s., Tau Editrice, 250 p.), è un libro nato nel pieno dell’emergenza sanitaria provocata dal Covid-19. Vi confesso che è innanzitutto una restituzione dei silenzi, delle riflessioni, delle provocazioni, dei “pugni nello stomaco” di quel periodo, vissuto a stretto contatto con le allora “zone rosse” della pandemia nel Nord Italia.

In realtà, ricostruire la storia della Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato significa ricostruire un momento simbolo dell’impegno plurisecolare della Chiesa a favore delle persone migranti. La Chiesa è, infatti, interpellata in maniera profonda dal mondo delle migrazioni, da sempre. Questo è tanto più vero per la Chiesa che è in Italia, che da secoli vive accanto ai milioni di uomini e di donne, di bambini, di giovani e di anziani che hanno lasciato e continuano a lasciare la propria terra in cerca di una vita migliore. La storia millenaria della nostra Penisola, d’altronde, dice di una terra da sempre attraversata dal movimento di popoli, anche molto diversi fra loro, che insieme, talvolta agendo in concordia e in altri casi in conflittualità, hanno plasmato quel risultato unico al mondo che è oggi sotto i nostri occhi, ma che spesso siamo portati a sottovalutare o a svilire.

Nel libro, per la prima volta con fonti di archivio inedite, ricostruisco i rapporti e gli scambi, anche epistolari, fra i Pontefici, gli organismi della Santa Sede, la Conferenza Episcopale Italiana e le Chiese locali circa il senso e l’organizzazione della Giornata, che da oltre un secolo rappresenta un momento fondamentale della pastorale della mobilità. Si tratta di «un cammino di oltre un secolo, per nulla scontato in ogni sua tappa», come scrivo in un passo del libro.

Come ci riguarda, questa Giornata, e cosa la rende importante? Lo sottolinea molto bene padre Fabio Baggio, sottosegretario del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, Sezione Migranti e Rifugiati, che mi ha donato la sua prefazione a questo libro: l’autorità che sancisce la celebrazione della Giornata, il Papa; l’insegnamento magisteriale contenuto nel messaggio del Santo Padre diffuso in occasione della Giornata, come avviene dal 1985, con Giovanni Paolo II; l’appello alla solidarietà dei fedeli cattolici verso i migranti, i rifugiati e coloro che si dedicano alla loro assistenza, anche pastorale; il legame della Giornata con le istituzioni della Santa Sede e della Chiesa in Italia, alle quali è affidato il compito di promuovere la celebrazione presso le Chiese locali.

Sono tre i passaggi storici che individuo nel libro a proposito della Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato. Il suo essere pontificia, ma per lungo tempo “italiana”: la Giornata, infatti, nasce nel 1914 per volere di papa Pio X, ed è celebrata per la prima volta in Italia l’anno successivo e così sarà per molti decenni, in virtù dello speciale legame dei Pontefici con l’Italia e dell’emigrazione italiana di massa che caratterizza gran parte del ’900.

Il suo aprirsi da una dimensione nazionale ad una realmente mondiale: la prima Giornata formalmente mondiale, in Italia, è celebrata nel 2006, secondo il tema “Migrazioni segno dei tempi”, scelto da Benedetto XVI. In verità si tratta di un passaggio ben più profondo di una semplice questione nominale o organizzativa, con un processo che prende avvio almeno dal 1952, con la costituzione apostolica Exsul Familia con la quale Pio XII getta lo sguardo oltre i confini raggiunti dall’emigrazione italiana.

Questo ci porta alla terza e ultima “svolta” nella storia della Giornata: dall’attenzione ai soli emigrati italiani a tutti i fenomeni della mobilità, globale e mondiale nel suo significato più profondo, sempre più evidente nel corso degli anni ’80, non a caso in concomitanza con il pontificato di Giovanni Paolo II.
C’è, però, un vero protagonista della mobilità, della Giornata e anche di questo libro: le persone. È importante sottolineare, come provo a fare in questo volume, la dimensione profondamente umana della Giornata: non soltanto un “evento istituzionale”, fine a se stesso, ma soprattutto un’occasione per accostarsi alle vite degli uomini e delle donne migranti, così come dei numerosi altri uomini e donne, vescovi, presbiteri, diaconi, religiosi, religiose e laici, per i quali il “prossimo” non è soltanto una categoria del Vangelo, ma il richiamo ad un impegno di vita. Con tutte le difficoltà, la genialità, i limiti personali e collettivi di quanti abitano le diverse epoche di questa storia lunga oltre un secolo.

Il card. Gualtiero Bassetti, nella Presentazione a questo libro, fa notare che scorrendo l’elenco dei temi delle Giornate celebrate in Italia, posto in conclusione al volume, sono le numerose categorie coinvolte dalla mobilità e di volta in volta ricordate nella Giornata: lavoratori, famiglie, donne, giovani, anziani, studenti, bambini, minoranze etniche e linguistiche. Ciò suggerisce che, accanto ai numerosi migranti segnati dalla povertà, dalla sofferenza, dalla morte e troppo spesso dall’indifferenza e dalla strumentalizzazione, esiste un universo di ricchezze umane fatte di lavoro tenace, di studio proiettato verso il futuro, di desideri da esprimere, di talenti da mettere a frutto e di spiritualità da donare.

Proprio la spiritualità è un tratto delle migrazioni spesso dimenticato, ma che in verità ha un’importanza unica. Nel libro torno più volte su questo aspetto, rimarcando come l’attenzione pastorale verso le necessità delle persone migranti costituisca l’autentico filo conduttore dell’intera storia della Giornata. E non è un caso che ogni capitolo di questo libro si apra con un passo tratto dall’intero arco della Bibbia, dalla Genesi agli Atti.

Ma cosa c’è, allora, in questo libro? Ci sono certamente la storia e l’evoluzione della Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, di decennio in decennio, di pontefice in pontefice, di segretario generale in segretario generale. C’è la storia delle dinamiche che coinvolgono Pontefici, Santa Sede e Chiesa in Italia rispetto alla Giornata. Ci sono, analizzati brevemente, i messaggi e le riflessioni che di anno in anno accompagnano le Giornate, fino a quest’ultimo del 2020. E poi ci sono, qua e là, alcune curiosità, com’è nel mio stile. C’è anche spazio per un po’ di arte, con le riproduzioni di alcune delle locandine delle Giornate, per avere anche un quadro dell’evoluzione “pop” della Giornata (quelle anni ’70 sono inconfondibili).

La pandemia ha fatto da sfondo anche alla stesura di questo libro e ha aperto in tutti noi ferite che è ancora difficile rimarginare, ma anche spazi inediti di opportunità e di riflessione. Lo ha ricordato anche il Santo Padre, richiamando l’attenzione su un virus che rischia di essere ancora più pericoloso del Covid-19: l’egoismo indifferente. Per la verità, il Papa recentemente ha parlato anche della peste del pettegolezzo e delle maldicenze, e anche qui si potrebbe aprire un libro sterminato. In tutti questi aspetti hanno un ruolo fondamentale anche i mezzi di comunicazione sociale, dei quali papa Francesco ha più volte evidenziato i grandi meriti – veri – ma anche le tante contraddizioni. Anche dei mezzi di comunicazione e di informazione, in riferimento alla Giornata del Migrante e del Rifugiato, nel libro richiamo più volte storia, ruoli e responsabilità, ad esempio nei legami della Giornata con la Rai, con i cinegiornali e con alcuni dei principali quotidiani italiani.

Metto a disposizione alcune parti del volume (qui per leggere/scaricare): l’Indice, la Presentazione scritta da S. Em. Card. Gualtiero Bassetti, arcivescovo metropolita di Perugia-Città della Pieve e presidente della Conferenza Episcopale Italiana, la Prefazione di padre Fabio Baggio c.s., sottosegretario del Dicastero per lo Sviluppo Umano Integrale, Sezione Migranti e Rifugiati, e la mia stessa Introduzione.
(fonte: CaffèStoria, 24/09/2020)

AURELIO, IL GUARDIACOSTE EROE

AURELIO, IL GUARDIACOSTE EROE

Non ha esitato insieme ai suoi due colleghi a spogliarsi e gettarsi nel mare in tempesta per salvare due ragazzini. Mettendo il coraggio davanti alla paura


Gli eroi non sono santi, non hanno bisogno di morire per essere proclamati tali. Aurelio Visalli, il secondo capo della Guardia Costiera morto annegato nel mare di Milazzo mentre stava cercando di soccorrere due ragazzini in difficoltà, è uno di questi. Lo ha detto con parole semplici e toccanti il fratello minore Roberto, con una lucidità che ci commuove e ci sgomenta: «Mio fratello era un eroe già da vivo. Penso che ogni persona che si sveglia la mattina per compiere il proprio dovere affrontando tanti sacrifici debba essere considerato un eroe».

La Guardia Costiera piange uno dei suoi uomini migliori. Un uomo buono, professionale e protettivo, sorridente e disponibile con tutti, come ha lo ricordato il padre in lacrime. Un uomo di mare.

Gli uomini di mare sanno che quella distesa infinita d’acqua può trasformarsi in una tempesta mortale, ne conoscono i pericoli sin dai primi approcci, imparano a rispettarlo, a temerlo, a studiarne le previsioni meteorologiche. Intervengono sempre con prudenza, conoscendo i limiti e i pericoli dell’intervento, che è ciò che distingue un professionista da un dilettante. Ma i guardiacoste hanno anche il senso della loro missione. Questo guardiacoste quarantenne ieri non ha esitato un solo istante, di fronte a due ragazzi in preda ad onde alte nove metri, a togliersi gli abiti e a gettarsi in mare per salvarli. Perché la sua missione andava addirittura al di là della sua professionalità, da tutti riconosciuta. Togliersi la divisa, tuffarsi in mare e andare a prendere quei due ragazzini. Un imperativo della coscienza. Ed è quello che fa di un uomo un eroe.
Sarà la magistratura a fare luce su una vicenda su cui ci sono molti punti oscuri e che fa trasparire l’inadeguatezza di quell’operazione di salvataggio. Il cognato della vittima, che è capo dei vigili urbani di Venetico, la città dell’eroe di mare Aurelio, ha parlato di responsabilità molto gravi sulle modalità di intervento e sulla mancanza totale di mezzi adeguati.

Secondo il suo resoconto, alla motovedetta sulla quale viaggiava Visalli non era stato consentito di intervenire per le condizioni proibitive del mare, ma gli sarebbe stato permesso in un secondo tempo dalla spiaggia. Ma non c’erano giubbotti di salvataggio, corde, mute, galleggianti, insomma tutto ciò che permette un recupero in mare in sicurezza. In questi casi ci si getta in acqua muniti di un sistema di corde tale da poter essere recuperato dai colleghi in caso di pericolo. Ma Aurelio e i suoi colleghi non avevano nulla di tutto questo. Il che non gli ha impedito di spogliarsi e di gettarsi in mare tra i flutti. Con un coraggio che ha dell’incredibile. Il secondo capo Visalli è stato colpito da un’onda e ha perso i sensi. A recuperare il suo corpo senza vita, ore dopo, è stata la sua stessa motovedetta.

Venetico piange il suo eroe, piange quel signore simpatico e cordiale, che in paese definiscono addirittura carismatico. Ma il suo sacrificio rappresenta il sacrificio quotidiano e silente degli uomini della Guardia Costiera, gente che con uno stipendio di poco più di mille euro al mese si prodigano per recuperare vite e fare onore al codice del mare, che impone di salvare chiunque faccia naufragio. Per loro salvare vite è un dovere della coscienza. Gli uomini che in questi anni così tragici e turbolenti hanno salvato centinaia di migliaia di profughi che tentano la fortuna traversando il Mediterraneo. Pronti ad affrontare il mare forza nove. Pronti a spogliarsi e tuffarsi senza nemmeno i mezzi adeguati, come ha fatto Aurelio. Mettendo il coraggio e il dovere di fronte alla paura.
(fonte: Famiglia Cristiana, articolo di Francesco Anfossi 28/09/2020)


lunedì 28 settembre 2020

IL GOVERNO DI FRANCESCO È ancora attiva la spinta propulsiva del pontificato? di Antonio Spadaro

IL GOVERNO DI FRANCESCO
È ancora attiva la spinta propulsiva del pontificato?
di Antonio Spadaro


Dopo sette anni, qual è la spinta propulsiva di questo pontificato? Alcuni commentatori e analisti si sono chiesti se questa spinta sussista ancora, altri hanno cercato di riflettere sulla sua sostanza. La domanda si potrebbe tradurre così: che tipo di governo è quello di Francesco, e come interpretarlo alla luce di questi anni? Intendiamo dunque affrontare qui tale domanda, esaminando il significato proprio di questo modo di governare, che viene espresso da una personalità concreta con la sua propria storia di vita e di formazione[1].
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Il riformatore come «svuotato»

Se leggiamo ciò che il Pontefice ha detto dei gesuiti, comprendiamo meglio il cuore della sua riforma e del suo atteggiamento radicale. ...

Il discernimento non ideologico

La spiritualità di Ignazio di Loyola è una spiritualità storica, legata alla dinamica della storia. ...

Un appunto del Papa condiviso con «La Civiltà Cattolica»

La Congregazione generale di un Sinodo, ad esempio, per il Papa è un tempo di «esercizio spirituale», nel quale si sperimentano consolazioni e desolazioni, dove parlano lo spirito buono e lo spirito cattivo e dove sono comuni anche le tentazioni sotto apparenza di bene. ...

Un processo aperto e storico

... Le decisioni di governo del Papa «sono legate a un discernimento spirituale», che «riscatta la necessaria ambiguità della vita e fa trovare i mezzi più opportuni, che non sempre si identificano con ciò che sembra grande o forte»[13]. Ascolta dunque consolazioni e desolazioni, cerca di capire dove lo conducono e prende le sue decisioni in accordo con questo processo spirituale. ...

Un processo attento a trovare il massimo nel minimo

Il principio che sintetizza questa visione evolutiva è il motto: Non coerceri a maximo, contineri tamen a minimo, divinum est, che si potrebbe tradurre: «Non esser costretto da ciò che è più grande, essere contenuto in ciò che è più piccolo, questo è divino»[19]. ...

Un processo che affronta limiti, conflitti e problemi

Bergoglio non parla mai di un desiderio eroico e sublime. Non è «massimalista». Egli non crede a un idealismo rigido né a un «eticismo» né a un «“astrazionismo” spiritualista»[23]. ...

Un processo che affronta tentazioni

La tentazione si annida spesso nelle istituzioni, specialmente in quelle alte, santamente sublimi. ...

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Oggi la tentazione nella quale rischiano di cadere alcuni commentatori e analisti è quella di immaginare un Papa che costruisce una road map di riforme istituzionali, elaborate con spirito progettuale, funzionalistico e organizzativo. Come pure la tentazione di proiettare i contenuti di tale mappa sul procedere del pontificato, e infine giudicarlo alla luce di tali criteri. Francesco ha nel discernimento la chiave dello sviluppo e del dinamismo – attualmente ben attivo – del suo ministero petrino.

Non c’è un piano astratto di riforma da applicare alla realtà. ...

Leggi l'articolo integrale dal sito La Civiltà Cattolica

«La vita cristiana, che non è fatta di sogni e belle aspirazioni, ma di impegni concreti, per aprirci sempre alla volontà di Dio e all’amore verso i fratelli.» Papa Francesco Angelus 27/09/2020 (testo e video)

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 27 settembre 2020


Cari fratelli e sorelle,

nella mia terra si dice: “A tempo brutto buona faccia”. Con questa “buona faccia” vi dico: buongiorno!

Con la sua predicazione sul Regno di Dio, Gesù si oppone a una religiosità che non coinvolge la vita umana, che non interpella la coscienza e la sua responsabilità di fronte al bene e al male. Lo dimostra anche con la parabola dei due figli, che viene proposta nel Vangelo di Matteo (cfr 21,28-32). All’invito del padre ad andare a lavorare nella vigna, il primo figlio risponde impulsivamente “no, non ci vado”, ma poi si pente e ci va; invece il secondo figlio, che subito risponde “sì, sì papà”, in realtà non lo fa, non ci va. L’obbedienza non consiste nel dire “sì” o “no”, ma sempre nell’agire, nel coltivare la vigna, nel realizzare il Regno di Dio, nel fare del bene. Con questo semplice esempio, Gesù vuole superare una religione intesa solo come pratica esteriore e abitudinaria, che non incide sulla vita e sugli atteggiamenti delle persone, una religiosità superficiale, soltanto “rituale”, nel brutto senso della parola.

Gli esponenti di questa religiosità “di facciata”, che Gesù disapprova, erano in quel tempo «i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo» (Mt 21,23) i quali, secondo l’ammonizione del Signore, nel Regno di Dio saranno sorpassati dai pubblicani e dalle prostitute (cfr v. 31). Gesù dice loro: “Saranno i pubblicani, cioè i peccatori, e le prostitute a precedervi nel Regno dei cieli”. Questa affermazione non deve indurre a pensare che fanno bene quanti non seguono i comandamenti di Dio, quelli che non seguono la morale, e dicono: «Tanto, quelli che vanno in Chiesa sono peggio di noi!». No, non è questo l’insegnamento di Gesù. Gesù non addita i pubblicani e le prostitute come modelli di vita, ma come “privilegiati della Grazia”. E vorrei sottolineare questa parola “grazia”, la grazia, perché la conversione sempre è una grazia. Una grazia che Dio offre a chiunque si apre e si converte a Lui. Infatti queste persone, ascoltando la sua predicazione, si sono pentite e hanno cambiato vita. Pensiamo a Matteo, ad esempio, San Matteo, che era un pubblicano, un traditore alla sua patria.

Nel Vangelo di oggi, chi fa la migliore figura è il primo fratello, non perché ha detto «no» a suo padre, ma perché dopo il “no” si è convertito al “sì”, si è pentito. Dio è paziente con ognuno di noi: non si stanca, non desiste dopo il nostro «no»; ci lascia liberi anche di allontanarci da Lui e di sbagliare. Pensare alla pazienza di Dio è meraviglioso! Come il Signore ci aspetta sempre; sempre accanto a noi per aiutarci; ma rispetta la nostra libertà. E attende trepidante il nostro “sì”, per accoglierci nuovamente tra le sue braccia paterne e colmarci della sua misericordia senza limiti. La fede in Dio chiede di rinnovare ogni giorno la scelta del bene rispetto al male, la scelta della verità rispetto alla menzogna, la scelta dell’amore del prossimo rispetto all’egoismo. Chi si converte a questa scelta, dopo aver sperimentato il peccato, troverà i primi posti nel Regno dei cieli, dove c’è più gioia per un solo peccatore che si converte che per novantanove giusti (cfr Lc 15,7).

Ma la conversione, cambiare il cuore, è un processo, un processo che ci purifica dalle incrostazioni morali. E a volte è un processo doloroso, perché non c’è la strada della santità senza qualche rinuncia e senza il combattimento spirituale. Combattere per il bene, combattere per non cadere nella tentazione, fare da parte nostra quello che possiamo, per arrivare a vivere nella pace e nella gioia delle Beatitudini. Il Vangelo di oggi chiama in causa il modo di vivere la vita cristiana, che non è fatta di sogni e belle aspirazioni, ma di impegni concreti, per aprirci sempre alla volontà di Dio e all’amore verso i fratelli. Ma questo, anche il più piccolo impegno concreto, non si può fare senza la grazia. La conversione è una grazia che dobbiamo chiedere sempre: “Signore dammi la grazia di migliorare. Dammi la grazia di essere un buon cristiano”.

Maria Santissima ci aiuti ad essere docili all’azione dello Spirito Santo. Egli è Colui che scioglie la durezza dei cuori e li dispone al pentimento, per ottenere la vita e la salvezza promesse da Gesù.


Dopo l'Angelus

Cari fratelli e sorelle!

Sono giunte preoccupanti notizie di scontri nell’area del Caucaso. Prego per la pace nel Caucaso e chiedo alle parti in conflitto di compiere gesti concreti di buona volontà e di fratellanza, che possano portare a risolvere i problemi non con l’uso della forza e delle armi, ma per mezzo del dialogo e del negoziato. Preghiamo insieme, in silenzio, per la pace nel Caucaso.

Ieri, a Napoli, è stata proclamata Beata Maria Luigia del Santissimo Sacramento, al secolo Maria Velotti, fondatrice della Congregazione delle Suore Francescane Adoratrici della Santa Croce. Rendiamo grazie a Dio per questa nuova Beata, esempio di contemplazione del mistero del Calvario e instancabile nell’esercizio della carità.

Oggi la Chiesa celebra la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato. Saluto i rifugiati e i migranti presenti in Piazza intorno al monumento intitolato “Angeli senza saperlo” (cfr Eb 13,2), che ho benedetto un anno fa. Quest’anno ho voluto dedicare il mio messaggio agli sfollati interni, i quali sono costretti a fuggire, come capitò anche a Gesù e alla sua famiglia. «Come Gesù costretti a fuggire», così gli sfollati, i migranti. A loro, in modo particolare, e a chi li assiste va il nostro ricordo e la nostra preghiera. 

Oggi ricorre anche la Giornata Mondiale del Turismo. La pandemia ha colpito duramente questo settore, così importante per tanti Paesi. Rivolgo il mio incoraggiamento a quanti operano nel turismo, in particolare alle piccole imprese familiari e ai giovani. Auspico che tutti possano presto risollevarsi dalle attuali difficoltà.

E saluto ora voi, cari fedeli romani e pellegrini di varie parti d’Italia e del mondo. Ci sono tante bandiere diverse! Un pensiero speciale alle donne e a tutte le persone impegnate nella lotta ai tumori del seno. Il Signore sostenga il vostro impegno! E saluto i pellegrini di Siena venuti a piedi fino a Roma.

E a tutti voi auguro una buona domenica, una domenica in pace. Per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci.

Guarda il video


domenica 27 settembre 2020

Preghiera dei Fedeli - Fraternità Carmelitana di Pozzo di Gotto (ME) - XXVI Domenica Tempo Ordinario – Anno A




Fraternità Carmelitana 
di Pozzo di Gotto (ME)






Preghiera dei Fedeli

  XXVI Domenica Tempo Ordinario – Anno A

27 settembre 2020  



Colui che presiede

Fratelli e sorelle, dopo aver ricevuto il dono della Parola di Dio, che è alimento della nostra fede e sostegno della nostra speranza, eleviamo al Signore Gesù la nostra fraterna preghiera ed insieme diciamo: 

R/ Abbi pietà di noi, Signore 


Lettore 

- Signore Gesù, con la forza del tuo Santo Spirito spingi la tua Chiesa ad uscire dai propri recinti, dalle proprie sicurezze, per poter corrispondere sempre più alla sua vocazione di popolo adunato nel tuo Nome ed essere in mezzo all’umanità segno e strumento di unità e di pace. Preghiamo

- Suscita, Signore Gesù, in mezzo ai popoli ed in mezzo alle varie fedi religiose uomini e donne, che con la loro parola e la loro vita siano capaci di prendere le difese delle minoranze e di tutti i poveri. I cambiamenti climatici, così evidenti, possano provocare nel cuore di ogni uomo e ogni donna un vero pentimento, che porti ad un cambiamento del proprio stile di vita. Preghiamo. 

- La celebrazione della odierna “giornata del migrante” diventi, o Signore Gesù, per tutti i cattolici e per tutti i cristiani del nostro Paese un’occasione propizia per ripensare ai vari pregiudizi, alle varie paure, che impediscono di procedere ad una vera e sapiente integrazione, che contempli anche il diritto di cittadinanza. Preghiamo. 

- Guarda, Signore Gesù, e custodisci quanti sono impegnati nel lavoro anche in giorno festivo. Accompagna quanti sono in viaggio. Sii vicino a tutte le persone malate e al personale sanitario che li assiste. Risveglia in tutte le nostre parrocchie un maggiore impegno per il servizio verso i malati ed i poveri. Preghiamo. 

- Davanti a te, Signore Gesù, umile nostro Servo, ci ricordiamo dei nostri parenti e amici defunti e di tutte le vittime del coronavirus [pausa di silenzio]; ci ricordiamo anche dei migranti morti nel Mar Mediterraneo o nascosti nei camion, delle vittime della mafia, del caporalato e dell’usura. Accogli tutti nella Gerusalemme celeste, che non ha mura né barriere. Preghiamo. 

Colui che presiede 

Ricordati, Signore Gesù, della tua fedeltà e della tua misericordia. Ascolta ed esaudisci le nostre preghiere, perché possiamo essere come tu ci vuoi, seguendo la via tracciata dal tuo Vangelo. Te lo chiediamo perché sei nostro Signore e Fratello, vivente nei secoli dei secoli. AMEN.


"Un cuore che ascolta lev shomea" - n. 46/2019-2020 (A)

"Un cuore che ascolta - lev shomea"
"Concedi al tuo servo un cuore docile,
perché sappia rendere giustizia al tuo popolo
e sappia distinguere il bene dal male" (1Re 3,9)




Traccia di riflessione sul Vangelo della domenica
a cura di Santino Coppolino

XXVI Domenica del Tempo Ordinario (ANNO A) 

Vangelo:



«Pubblicani e prostitute vi precedono nel Regno!». Parole durissime quelle che Gesù rivolge ai sommi sacerdoti e agli anziani del popolo che ritengono di essere giusti. Questa parabola rivela la situazione di quanti riteniamo di non avere bisogno di conversione solo perché diciamo di sì a Dio a parole, ma poi con la vita manifestiamo il contrario: «Dicono e non fanno!» ( 23,3). Sempre pronti a puntare il dito contro il fratello che sbaglia, siamo come il fico che è pieno di foglie, ma senza frutti o come il tempio che invece di essere «Casa di preghiera per tutti i popoli» (Is 56,7) è stato trasformato in una spelonca di ladri. I due fratelli della parabola, in verità, sono una sola persona: siamo noi che la ascoltiamo anche se riteniamo di essere una terza persona. «Leggiamo questa parabola pensando di identificarci con un terzo fratello, che fa come il primo e parla come il secondo. Questo fantomatico fratello, però, non esiste.» (cit.). I Pubblicani e le prostitute sono dei pubblici peccatori, ufficialmente ritenuti tali, ma finché non abbiamo l'umiltà di riconoscerci in loro, di sentire il disagio per la nostra ipocrisia, non potremo mai convertirci. Per questo siamo chiamati a riconoscerci in coloro che gridano: «Signore, Signore!» (7,21), ma poi non facciamo. «Siamo la "Casta Meretrix" che diventa casta sposa in quanto si riconosce prostituta; diventa "sì" ogni qualvolta riconosce il proprio "no" e si converte» (cit.)


sabato 26 settembre 2020

MIELE PER TUTTI - Mi convertirò non al Dio del dovere, ma della scelta in totale libertà. - Commento al Vangelo - XXVI domenica del Tempo Ordinario (A) a cura di P. Ermes Ronchi

MIELE PER TUTTI
Mi convertirò non al Dio del dovere,
ma della scelta in totale libertà. 


I commenti di p. Ermes al Vangelo della domenica sono due:
  • il primo per gli amici dei social
  • il secondo pubblicato su Avvenire
In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: “Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna”. Ed egli rispose: “Non ne ho voglia”. Ma poi si pentì e vi andò. Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: “Sì, signore”. Ma non vi andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Risposero: «Il primo».
E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli». Mt 21,28-32


per i social


Un uomo aveva due figli.
Si potrebbe dire che aveva due cuori, perché quei due figli sono il nostro essere diviso tra il sì e il no, sono le contraddizioni di cui Paolo si lamenta: non mi capisco, faccio il male che non vorrei, e il bene che vorrei non riesco a farlo (Rm 7,15.19).
Primo attore è il padre che cerca i figli, si fa vicino, chiede loro di lavorare nella vigna di casa, padre che al primo rifiuto non si deprime.
C’è poi un figlio impulsivo, che prova subito un bisogno imperioso, vitale, di fronteggiarlo, di misurarsi con lui e contraddirlo. Non ha nulla di servile, è libero da sudditanze e da paure.
L’altro figlio, che dice sì e non fa, è un immaturo cui basta apparire, cui non importano verità e coerenza, ma solo il giudizio degli altri.

In uno dei salmi più belli il cantore chiede: Signore, dammi un cuore integro, fa che non abbia due cuori in lotta tra loro (Sl 101).
È il contrasto eterno tra persona e personaggio: il primo figlio fa il personaggio, e così sono io: dico sì, uso il nome di Dio, e poi abbandono questa vigna di uve aspre che è il mondo. Il secondo figlio, che poi andrà, non importa se in segreto, a lavorare nella vigna di Dio e nostra, è invece persona.
Personaggio siamo noi quando agiamo per la scena, quando le azioni valgono solo se approvate dagli altri, burattini i cui fili sono tirati dall'apparire e dall'immagine.
Persona invece siamo noi se coerenti in pubblico come in privato, di fronte o alle spalle, nel dire e nel fare.
La differenza decisiva tra i due ragazzi è che uno diventa figlio coinvolto, l’altro rimane servo esecutore di ordini.

Chi dei due ha fatto la volontà del padre?
È il passaggio centrale: volontà del padre non è l'obbedienza, ma la vigna da coltivare in maturità e bellezza, trasformando una porzione di selva e rovi in vigneto, profezia di vino buono e di grappoli colmi di sole e di miele.

La scelta sta nell’avere una vita sterile oppure fruttuosa.
Una morale non del divieto, ma della fecondità, del seme che ostinatamente diventa creatura, della prostituta che ridiventa donna, del cuore che diventa uno, della porzione di deserto trasformato in vigna, del mio mondo in sogno di Dio.
Anche se non si vede, anche lavando i piedi di coloro che ci sono affidati, nel segreto della nostra casa, se agisci così fai vivere te stesso, dice Ezechiele, e sarai tu che ti farai del bene.
Gesù prosegue con parole dure ma consolanti: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno.
Dura frase, che si rivolge dritta a noi, cristiani di facciata o di sostanza?
Ma Dio non rinchiude nessuno nei propri ergastoli passati, nessuno.
Allora anch'io mi convertirò non al Dio del dovere, ma della scelta in totale libertà.
Con lui coltiveremo grappoli gonfi di mosto e di miele nel sole, per una grande vendemmia di vita.


per Avvenire

(…) Dio ha fiducia sempre, in ogni uomo, nelle prostitute e anche in noi, nonostante i nostri errori e ritardi nel dire sì. Dio crede in noi, sempre. Allora posso anch'io cominciare la mia conversione verso un Dio che non è dovere, ma amore e libertà. Con lui matureremo grappoli, dolci di terra e di sole.