mercoledì 26 agosto 2020

"RELIGIONE. IL DESERTO CHE C’É IN CIASCUNO DI NOI" di Enzo Bianchi


RELIGIONE. 
IL DESERTO CHE C’É IN CIASCUNO DI NOI
di Enzo Bianchi



Per noi italiani, che a differenza dei francesi non abbiamo avuto nella nostra storia occasioni di vivere il deserto, esso rinvia a escursioni turistiche di pochi o a libri che ne descrivono il fascino.
Anche il deserto come metafora è poco frequente, eppure nella spiritualità è uno dei temi più esplorati, soprattutto dalla tradizione ebraica e cristiana. Il deserto: spazio inabitato, arido, nel quale la vita è quasi assente; luogo inospitale, che desta paura; spazio pericoloso, da attraversare con prudenza. Nella Bibbia il deserto si oppone alla terra abitata e piena di vita. È un luogo di maledizione, dimora di demoni e di forze oscure che assalgono l’essere umano.
Ben presto il deserto divenne una metafora capace di narrare una situazione personale o collettiva: deserto come solitudine, cammino faticoso, spoliazione dall’inessenziale, lotta contro le presenze mostruose che assalgono il cuore umano fino a farlo disperare. In questo senso, il deserto è anche un tempo di prova per la fede, perché credere a un Dio buono e capace di liberazione, quando regnano l’oppressione e la morte, non è facile. Anzi, l’ossessiva domanda che risuona in chi vive la desolazione del deserto è: “Ma Dio è qui con noi, sì o no?”. Perché il Dio degli ebrei e dei cristiani nessuno l’ha mai visto, non è evidente, non dà segni certi della sua presenza, e chi spera in lui spera in un Dio che appare come un sordo e un muto, quando si è schiacciati da sofferenza e disperazione.
Il deserto è un cammino necessario, che nella vita ognuno di noi deve fare, imparando a vivere senza Dio e senza gli altri. Proprio per questo è un tempo di prova, nel quale siamo spinti a cercare risposte alle domande più essenziali che ci abitano, alle quali tendiamo a sfuggire, perché evocano per noi la morte, la fine, il non-senso. Il deserto è il laboratorio dei nostri sogni e dei nostri fantasmi, spazio che ci denuda con la sua nudità, che non tollera veli né menzogne: è sole accecante o tenebra!
Il deserto, infine, è letto come tempo provvisorio, con un inizio e una fine, è un cammino che solo col senno di poi si mostra liberante: cammino interiore, in uno spazio infinito, solitario, misterioso.
Giovanissimo, ho sostato nel deserto del Marocco e lì ho capito le mie fragilità, le zone d’ombra che mi abitavano, le resistenze in me di fronte alla prospettiva di “vivere insieme” ad altri, di condividere tutto, in trasparenza, piangendo o sorridendo.
I padri del deserto, monaci del IV secolo che, lasciata la città, si rifugiavano in quei luoghi solitari, nei loro detti ci hanno lasciato una vera sapienza pratica. E ci hanno insegnato che il deserto è un’esperienza da cui può scaturire uno sguardo penetrante che vede l’invisibile. Comprendiamo allora le parole del Piccolo principe di Saint-Exupéry: «Ho sempre amato il deserto. Ci si siede su una duna di sabbia. Non si vede né si sente nulla. E tuttavia qualcosa riverbera in silenzio. Ciò che lo rende bello è che nasconde un pozzo da qualche parte…».

(Fonte: “la Repubblica” - 24 agosto 2020)