sabato 13 giugno 2020

MIGRANTI, STRAGE DI DONNE E BAMBINI AL LARGO DELLA TUNISIA “Non si può e non si deve volgere lo sguardo dall’altra parte dinanzi a simili tragedie”

“Non si può e non si deve – conclude – volgere lo sguardo
 dall’altra parte dinanzi a simili tragedie”

di Andrea De Angelis


Il bilancio del naufragio a largo della Tunisia è salito a 53 morti, nessuna delle persone a bordo dell’imbarcazione è sopravvissuta. Si moltiplicano gli appelli, in vista dell’estate, per evitare che il Mediterraneo torni ad essere un cimitero. Le partenze dalla Tunisia verso l’Italia sono già aumentate del 156% rispetto all’anno scorso.
Mamme, con i loro figli. Sono la gran parte delle persone migranti morte a largo della Tunisia. Sono 53 i cadaveri recuperati dalla Marina tunisina subito dopo il naufragio. Nessuno è sopravvissuto. Una strage del mare che arriva a pochi giorni dall’inizio dell’estate, la stagione in cui solitamente si moltiplicano le partenze per l’Europa. Anche queste 53 persone avevano come meta il vecchio continente, tutte provenienti dall’Africa sub-sahariana. Sono almeno 25 le donne, di cui una incinta, e tre i bambini che hanno perso la vita.

“A causa della continua diminuzione della capacità di effettuare salvataggi in mare – sottolinea l’Organizzazione internazionale delle migrazioni – il rischio di altre vittime aumenta anche in considerazione della situazione economica globale e dell’impatto del coronavirus”. “Salvare vite umane – ribadisce l’Oim – rimane la priorità assoluta”. E mentre Medici senza Frontiere sottolinea come l’unica via di fuga per le 1.500 persone rinchiuse nei centri di detenzione libici sia il mare, Save the Children chiede all’Unione Europea di attivare, al più presto, un meccanismo coordinato di soccorso e di protezione creando vie di accesso legali e sicure dalle aree di crisi o di transito. “Si deve fare in modo che la tutela della vita umana – afferma Raffaela Milano nella nostra intervista – sia al centro delle preoccupazioni e delle scelte dei governi. Questo significa, innanzitutto, considerare che la Libia non può essere un porto sicuro”.

La pandemia e l’indifferenza
“Abbiamo ripetuto in questi mesi che il Covid-19 ci ha fatto riscoprire tutti più fragili, insieme su una sola barca. Eppure non tutti uguali. L’indifferenza di chi volge lo sguardo dall’altra parte dinanzi ad un naufragio o ai centri di detenzione in Libia è reale”. Lo afferma nell’intervista a VaticanNews padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli.
“Se si riconoscesse la Libia come porto non sicuro, si dovrebbero adottare delle decisioni diverse. Invece – sottolinea padre Ripamonti – si fanno accordi con quel Paese affinchè trattenga le persone, basti pensare a quello di pochi giorni fa firmato da Malta”. Gli sbarchi proseguono e l’estate è ormai alle porte. “Le persone continuano ad arrivare, noi abbiamo sempre detto che la questione migratoria non poteva risolversi concentrandosi solo su un aspetto”, prosegue il presidente del Centro Astalli riferendosi alle Ong. “Non si può e non si deve – conclude – volgere lo sguardo dall’altra parte dinanzi a simili tragedie”. 

Sul barcone il triplo di persone
Le autorità tunisine hanno avviato un’indagine per chiarire le dinamiche del naufragio. È stato accertato che sull’imbarcazione potevano salire non più di 20 persone. Tra le vittime è stato recuperato anche il corpo di un 48enne tunisino che probabilmente, al momento della tragedia, si trovava al timone del peschereccio. Le città della Tunisia meridionale sono i principali punti di partenza delle persone migranti, provenienti soprattutto da Paesi subsahariani. Fuggono da povertà e da conflitti e spesso dopo drammatiche esperienze vissute in centri di detenzione in Libia. Secondo dati dell’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite, da gennaio ad oggi le partenze dalla Tunisia verso l’Italia sono aumentate del 156% ed il timore è che possano crescere sensibilmente durante l’estate.

Nuovo sbarco a Lampedusa
Ieri sera, intanto, nell’isola siciliana di Lampedusa sono sbarcati 49 tunisini a bordo di un barcone di circa 15 metri, avvistato poco dopo il tramonto a circa 2 miglia dalla costa dell’isola dalle motovedette della Guardia costiera e Guardia di finanza che hanno scortato l’imbarcazione fino al molo Favarolo. I profughi, subito dopo i primi accertamenti sanitari, sono stati trasferiti all’hotspot di contrada Imbriacola che nelle ultime settimane ha spesso superato il limite massimo di persone da poter ospitare. Non sempre, infatti, lo spazio è sufficiente e così anche lo scorso mese diverse persone hanno trascorso la prima notte nei locali della parrocchia dell’isola. Molti altri hanno dormito sul molo. Nelle ultime due settimane sono sbarcate quasi 800 persone.

(Fonte:  Vatican News - 12 giugno 2020)


SE 24 DONNE AFFOGANO 
NEL SILENZIO CINICO DELL’EUROPA
Karima Moual

Erano soprattutto donne. Qualche bambino e pochi uomini. Forse erano mamme e qualche papà. Ma i 24 corpi di donne, insieme a tre bambini di età fra i 3-4 anni, trovati tra le decine di cadaveri recuperati dalla Marina tunisina, raccontano un viaggio nuovo soprattutto al femminile. Che non ha riscontrato la nostra empatia per raccontarlo nella sua crudele tragicità e disumanità. Eppure, quei corpi dovevano essere di donne forti, indipendenti e coraggiose per lasciare l’Africa sub sahariana e incamminarsi verso il nord Africa, Tunisia. Avevano deciso di sfidare il mare ma soprattutto la nostra ignavia e il nostro cinismo come Europa, culla dei diritti e della civiltà, ma oggi incapace di gestire uno dei fenomeni della storia dell’umanità, l’emigrazione, lasciandola compiersi nell’ennesimo naufragio.

Le continue morti nel Mediterraneo, che non ci indignano più da farci prendere non solo posizione ma iniziative lungimiranti, sono il naufragio della nostra civiltà.

Presi dall’emergenza coronavirus, e nella bulimia degli eventi – da ultimo gli Stati Generali – rischiamo di non aver raccolto la lezione di quanto questa pandemia ci ha voluto segnalare: nessuno può farcela da solo. Dove quel “nessuno” siamo noi ma anche il resto del mondo che ci circonda. Continuare a ignorare, o peggio a delegare ad altri il lavoro sporco di gestire – lontano dai nostri occhi e dalla fragilità dei nostri cuori – quanto accade a poche miglia dalle nostre coste, non è solo miope politicamente, simbolo di codardia, ma anche un campanello d’allarme sulla nostra incapacità di avere una visione su una sfida che è epocale, dove l’Italia è centrale, insieme al nostro senso di civiltà, che abbiamo faticato a conquistare e dovremmo difendere a tutti i costi invece di barattarla per calcoli politici fondati sulle percezioni e le paure del momento, più che sulla realtà contingente che va studiata, calcolata con uno sguardo a lungo termine.
E allora penso a questo ultimo naufragio e a quelle tante donne negli abissi del Mar Mediterraneo insieme a quei piccoli corpi di bambini e quegli altri forzuti dei nove uomini, e sento quanto laggiù non si possa respirare.
Anche loro come i tanti morti nel Mediterraneo intenti ad arrivare in Europa, non riuscivano più a respirare. Mi torna in mente l’immagine di George Floyd, la sua testa sotto il ginocchio del poliziotto. Non riesce a respirare e soffoca. Nel naufragio non si respira e si affoga, senza nemmeno poter gridare. E non c’è nessuno scatto, filmato che immortali quella tragedia, quella morte violenta che da anni continua a essere seppellita nel Mar Mediterraneo. Penso a tutti coloro che si sono inginocchiati giustamente per George Floyd e mi domando quando arriverà il momento e a quanti naufragi e corpi si dovrà arrivare per provare empatia per quell’umanità immensa, che continua ad affogare nel nostro stesso mare.

(Fonte: pubblicato su  “La Stampa” - 12 giugno 2020)


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