Disabilità e scuola,
il buco nero della didattica a distanza
Non uno di meno. A pagare il lockdown sopratutto gli alunni autistici che hanno perso insegnamento e relazioni. «Per il 90% dei disabili psichici la Dad, semplicemente, non è esistita», denuncia Antonio Nocchetti, presidente dell’onlus partenopea “Tutti a scuola”
Roma, il flash-mob di genitori e alunni della Di Donato per l’ultimo giorno di scuola
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Secondo gli ultimi dati disponibili forniti dal ministero dell’Istruzione, riferiti all’anno scolastico 2017/18, gli alunni con disabilità, dalla scuola dell’infanzia alla scuola secondaria di secondo grado, sono 268mila in tutto il territorio nazionale. Di questi l’1,4% ha una disabilità visiva, il 2,3% uditiva mentre il resto (96,4%) è di natura psicofisica. La disabilità psicofisica è per il 68% di natura intellettiva.
La chiusura delle scuole, imposta per le regioni settentrionali già dal 22 febbraio ed estesa dal 9 marzo a tutta Italia, ha registrato, proprio per gli alunni e le alunne con disabilità, le maggiori difficoltà. La sostituzione della didattica in presenza con la DaD (didattica a distanza) ha rappresentato un vero e proprio cono d’ombra nel quale sono caduti moltissimi studenti a partire dai primi cicli formativi. Un’inchiesta promossa dalla Fondazione Agnelli con le Università di Bolzano, Trento e Lumsa e coordinata dal professor Dario Ianes, ha cercato di fare emergere le criticità che gli insegnanti hanno riscontrato nel mese di aprile, in pieno lockdown, su questo nuovo strumento didattico legato all’emergenza.
Il questionario volontario è stato compilato da 3.100 docenti (l’87% di sostegno) e ha evidenziato, tra le altre cose, quanto sia stato difficile poter integrare i Piani educativi individualizzati (Pei) con questi strumenti informatici. Il dato più preoccupante, come ci conferma il professor Ianes, è il peggioramento per i soggetti con disabilità in termini comportamentali, di apprendimento, autonomia e comunicazione determinatosi dalla chiusura prolungata delle scuole.
La fotografia della situazione la delinea la referente per l’inclusione scolastica dell’Angsa (Associazione genitori soggetti autistici) Stefania Stellino: «L’autismo va declinato al plurale e forse non esiste parola, o meglio, concetto più plurale di autismo. Quindi va da sé che per un autismo con lieve necessità di supporto è più facile il coinvolgimento nella DaD, coinvolgimento che diventa sempre più complesso man mano che si aumenta il livello di necessità di supporto».
Sono proprio questi bambini e ragazzi a rappresentare la parte più consistente delle disabilità psichiche presenti nelle nostre scuole. «La pandemia ha rivelato quanto il nostro sistema scolastico sia arretrato rispetto all’utilizzo della tecnologia, quanto sia impreparato a garantire uniformità di continuità didattica, per non parlare di quella di supporto alla relazione» continua Stellino. L’essere stati totalmente impreparati a gestire questa emergenza fa dire ad Antonio Nocchetti, presidente dell’onlus partenopea “Tutti a scuola” che «per il 90% dei disabili psichici la didattica a distanza, semplicemente, non è esistita». «Le nostre famiglie utilizzano i supporti digitali con molta attenzione sapendo che per molti dei nostri figli il rischio concreto è che si producano comportamenti ossessivi e stereotipie» continua Nocchetti.
Secondo il presidente di “Tutti a Scuola” non è possibile immaginarsi una ripartenza a settembre che non sia in presenza: «O tutti dentro, nelle scuole, nelle classi, oppure non faremo che aumentare le diseguaglianze» conclude.
Dello stesso avviso il professor Dario Ianes che ha condotto la ricerca citata. Il docente dell’Università di Bolzano parla della DaD come di un «surrogato, scarso, della scuola in presenza» e aggiunge alla riflessione il tema delle relazioni non solo tra studenti e insegnanti ma anche all’interno del gruppo dei pari.
In questi mesi di pandemia c’è stato anche il tema dei “compagni spariti” quelli che, da un giorno all’altro, gli studenti con disabilità non hanno più visto. Secondo Ianes è fondamentale ragionare proprio su questi legami microsociali costruendo in classe delle “cordate” tra alunni.
Sarebbe necessario che gli insegnanti di sostegno divengano cotitolari della classe a tutti gli effetti permettendo un’inclusione fattiva tra i bambini con disabilità e tutti gli altri, potendo organizzare gli spazi e i tempi della didattica tenendo conto dei bisogni di ciascuno. Per fare questo, continua il professore, «dobbiamo chiudere le aule di sostegno, molte volte veri e propri ghetti nei quali si relegano i bambini disabili e i loro insegnanti».
Ultimo aspetto evidenziato da tutti è il tema degli oltre 60mila assistenti all’autonomia e comunicazione, figure per lo più sconosciute, afferenti ai consorzi socioassistenziali e agli enti locali, non inquadrati all’interno del ministero dell’Istruzione. e veri e propri “tappa buchi” per il completamento delle ore curriculari degli alunni con disabilità. Sarebbe necessario che questi lavoratori (per lo più educatori) assumessero la caratteristica di “figura ponte” tra scuola, famiglia e territorio (Asl, associazioni…) e non sparissero come invece è avvenuto in questi mesi di emergenza.
(fonte: Il Manifesto, articolo di Roberto Pietrobon 10/06/2020)