Siamo tutti sulla stessa barca
di Alessandro Vergni
Tempore famis
Una storia di gratuità in un carcere di periferia
Italia, ai tempi della grande pandemia. La gente torna timidamente ad affacciarsi sulle strade. La situazione economica, per il Paese e per tante famiglie, si annuncia simile a quella della ricostruzione postbellica. In una Casa circondariale di provincia i detenuti decidono di compiere un gesto di solidarietà: donare una parte della propria spesa settimanale a chi, fuori, si trova in condizioni precarie. Lo fanno aderendo all’iniziativa La Colletta Alimentare promossa dalla Direzione generale e trattamento dell’amministrazione penitenziaria in collaborazione con la Fondazione Banco Alimentare onlus, l’organizzazione che da oltre trent’anni si occupa di recuperare e distribuire agli enti di assistenza presenti sul territorio nazionale le eccedenze della produzione alimentare e le donazioni di milioni di persone che l’ultimo sabato di novembre di ogni anno regalano una parte della spesa fatta nei supermercati. Questa colletta, invece, è straordinaria perché richiesta dalla situazione drammatica in cui ci siamo venuti a trovare recentemente. I volontari del Banco Alimentare passano dal carcere a ritirare la donazione e insieme ai pacchi trovano un biglietto con il quale, chi ha partecipato alla colletta, vuole spiegare le ragioni che l’hanno spinto a compiere questo atto. Il messaggio è indirizzato direttamente a chi riceverà i generi alimentari. Parla di sentimento comune, della consapevolezza che, pur in contesti differenti, ci troviamo tutti in un momento di enorme difficoltà e ristrettezza. Proprio per questo, scrivono dal carcere, non possiamo che restare uniti e aiutarci a credere che un miglioramento sia possibile. Il desiderio espresso è quello di portare un sorriso, fosse anche solo per un momento. A chiudere, una richiesta bellissima: l’invito rivolto a chi leggerà, a credere che anche chi si trova all’interno di quelle mura ha un cuore.
Parole semplici. Scritte in stampatello. Firmate di pugno. Parole, però, che segnano. C’è dentro la consapevolezza che nessuno basta a sé, il rendersi conto che siamo fatti di bisogno: di condividere ciò che si ha e ciò che si è. Poi quell’appello radicale: essere riconosciuti per quello che siamo, uomini fragili che commettono errori e al tempo stesso hanno necessità di essere amati, nonostante gli sbagli che costellano la vita. Lo scriveva Victor Hugo più di un secolo fa ne I Miserabili: «La suprema felicità della vita è la convinzione di essere amati; amati per se stessi, anzi, diciamo meglio, amati malgrado se stessi». Amati malgrado se stessi, ma amati, perché da questo dipende la letizia. La letteratura, anche in questo caso aiuta a comprendere certi tornanti della vita, ed essere attenti alla propria vita permette di cogliere la straordinaria contemporaneità di certi passaggi della letteratura. È contemporaneo ciò che ha a che fare con me nel presente.
Così, se dovessimo individuare dei punti di ripartenza per il nostro Paese, dopo mesi di clausura forzata, in cui anche i rapporti interpersonali sono stati duramente provati, prima dei tanti finanziamenti che inevitabilmente serviranno, prima delle dovute precauzioni sanitarie necessarie da adottare, dovremmo indicare l’educazione alla gratuità e al dono. Scorgere, custodire e incentivare innanzitutto questo. Sostenere e promuovere contesti e relazioni capaci di valorizzare un bene che alcuni chiamano Carità, la quale, prima ancora che essere una forma di assistenza è uno sguardo buono su sé e sugli altri. In questo scenario inedito, in cui più che tornare al mondo di prima siamo costretti a reinventare tutto, piccoli grandi gesti — già presenti — come questo in un carcere di periferia, rappresentano una risorsa e un metodo rivoluzionario per una rifondazione sociale.
La chiave di volta di tutto resta, come sempre, un ingrediente indisponibile, un ingrediente frutto anch’esso di un originario gesto di gratuità, un elemento che si gioca istante per istante e perciò in grado di tenere continuamente tutti in gioco: la libertà del cuore. È nell’incontro con essa che sta il rischio più alto e il rischio più bello. Quello per cui si comprende che è ancora ragionevole sperare.
(fonte: L'Osservatore Romano 11/05/2020)