venerdì 8 maggio 2020

"Il sacramento della mascherina: forma e contenuto del culto cristiano" di Andrea Grillo

"Il sacramento della mascherina:
forma e contenuto del culto cristiano" 
di Andrea Grillo



Una mia prozia, anziana ma di non indiscutibile saggezza, soleva dire che la prima cosa che faceva la domenica, al ritorno dalla messa, era lavarsi le mani, avendo toccato col segno della pace le mani di diversi sconosciuti. Ogni volta che sento ripetere le “normative del presidio sanitario” – che dai primi di marzo vengono ripetute da tutti i canali della comunicazione civile – ripenso alla prozia e alla sua profezia della diffidenza. Non solo nella grande Chiesa, ma anche nelle nostre piccole chiese domestiche abbiamo inossidabili profeti di sventura, che da sempre hanno fatto della distanza, della sanificazione e della mascherina un “sacramento”.

Perché inizio dalla prozia “igienista”? Perché il ricordo di lei, e delle sue “fissazioni”, ci è utile per considerare il dissidio nel quale tutti siamo caduti dal momento in cui, a causa del “distanziamento imposto” e del “divieto di assembramento” che l’autorità sanitaria e pubblica ha disposto a livello nazionale, ci siamo accorti di essere entrati in un grave dissidio. Tale dissidio investe in pieno il “culto cristiano”, perché lo deforma, lo ammutolisce, lo emargina, lo silenzia, lo svilisce. Ma ci è utile fermarci un attimo in una riflessione che vorrei proporre in tre momenti. Dopo un passaggio preliminare, di esame della realtà che ci ha investito, provo a distinguere le questioni “formali” dalle questioni “sostanziali”. Perché una cosa è la “garanzia della libertà di culto” e un’altra cosa è “che cosa fare della libertà garantita”.

1. La condizione di “confinamento sociale”
Poiché la malattia mortale si trasmette “per contatto”, e ne vediamo gli effetti devastanti su tanti fratelli e sorelle, tutte le forme del tatto rilevante pubblicamente risultano alterate: nessuna vera vicinanza, la mano protetta dal guanto e sempre “sanificata”, il volto coperto dalla mascherina. 
La prossemica dello spazio, il tatto della mano e lo sguardo del volto e sul volto sono bloccati, censurati, impediti. Questo “blocco del contatto” agisce in ogni luogo che non sia “casa privata”. La “clausura” definisce in modo molto più netto del solito una differenza tra “ambito pubblico” – sottoposto ad una legge non negoziabile – e ambito “privato”, che continua – al di qua della soglia – a gestire prossimità, intimità, tatto, abbraccio, bacio: si può riconoscere il volto altrui e si può mostrare, spudoratamente nudo, il proprio volto. Il fatto culturalmente più rilevante, almeno per gestire correttamente il problema ecclesiale, è che lo “stato di eccezione” approfondisce radicalmente la differenza pubblico/privato, quasi annullando totalmente gli “spazi intermedi”, nei quali si coltivava un “non privato” che però restava “non pubblico”. Sono i luoghi della “gratuità sociale”, che oggi vengono tutti risucchiati dalla emergenza pubblica. Per così dire: tutto ciò che non è privato diventa “ex lege” pubblico. E la Chiesa, tutte le chiese, ricadono in questa riduzioni di emergenza e vengono risucchiate in questo vortice dell’anonimato.

2. La forma: libertà di culto come diritto
Notevole è il fatto che, almeno in prima battuta, una parte della Chiesa abbia saputo rispondere a questa sfida restando rigorosamente sullo stesso piano. Se infatti contrappongo alla logica di emergenza, che elimina la mediazione comunitaria tra privato e pubblico, il “mio diritto di libertà di culto”, accetto di restare sul piano formale. Sollevo una questione che riguarda “soggetti singoli”, i cui diritti sarebbero (eventualmente) violati. Di me, prete, che non posso esercitare il “diritto di dire messa”. Di me, non prete, che non posso esercitare il diritto di “andare a messa”. La risposta è di “privati” di fronte alla “legge pubblica”. Non importa se a questo proposito anche uomini politici, la cui fede è ben nota da secoli, si siano prestati a difendere i diritti conculcati dal tiranno. Resta il fatto che la risposta in termini di “libertà di culto” – per quanto possa essere giustificata – implica una considerazione meramente formale del culto stesso. E rischia di ridurre la questione alla possibilità che al soggetto individuale – ministro o semplice fedele – possa essere riservata di esercitare un “diritto” che fa capo al soggetto stesso. Difendiamo la fede privatizzandola e pubblicizzandola, ma trascurando il profilo comunitario, di cui vive.


3. La sostanza: il culto cristiano è azione comune
La questione vera riguarda non soltanto la forma, ma la sostanza del culto cristiano. Infatti, se accettiamo di ridurre la questione del culto ai diritti dei soggetti che lo pongono o che ne fruiscono, restiamo immediatamente imbrigliati in una cattiva teologia: una considerazione meramente “formale” – giuridica o amministrativa – del culto cristiano rischia di falsarlo irrimediabilmente. Proviamo ad esaminare meglio questo profilo, in una serie di punti:

a) Se la messa è riconosciuta come “azione della comunità sacerdotale” – composta da tutti i battezzati che si riuniscono, sotto la presidenza del presbitero/parroco – essa ha costitutivamente carattere comunitario e per questo rientra nell’ambito delle normative comuni a tutti gli spazi pubblici. Solo se la pensiamo come “atto del prete” al quale “assistono” – opportunamente distanziati e isolati e protetti – un numero massimo di fedeli, possiamo cavarcela e porre atti che inevitabilmente contraddicono ciò che si fa. Lo stato ha tutto il diritto di considerare la messa una “cerimonia pubblica”; ma la comunità cristiana dovrebbe anzitutto custodire la qualità comunitaria del proprio raduno.

b) La messa è luogo di contatto, di riconoscimento, di prossimità: la mano inguantata, il volto coperto e la distanza “di sicurezza” sono forme corporee di controtestimonianza simbolica, poiché dicono diffidenza, non confidenza. Possono essere sopportate, anche con fatica, solo per “riti di passaggio”, non per “riti di strutturazione comunitaria”. Non a caso i funerali, o eventualmente i matrimoni, possono sopportare le limitazioni formali, perché sono inseriti in percorsi vitali irreversibili e tendenzialmente non procrastinabili. Altro sono le esequie e altro è la celebrazione eucaristica: la chiara differenza tra un rito necessario in vista di altro (come il funerale) e un rito gratuito, che è fine a se stesso (come la messa), dovrebbe aiutare non solo a comprendere, ma anche a provvedere alle soluzioni più equilibrate.

c) La Chiesa cattolica sa che nel culto trova, allo stesso tempo, il culmine e la fonte di tutta la sua azione. In un lungo percorso di riflessione e di esperienza, che comincia nei primi anni del XX secolo, la tradizione ecclesiale ha iniziato a recuperare la “dimensione comunitaria” del culto. Questo è il frutto anche dei traumi che due guerre mondiali hanno recato alle vite. Ma tutto questo è avvenuto assai lentamente, contro due “nemici”, che restano sempre in agguato, e che sono la cattura privata e la cattura pubblica del culto. Se riduciamo il culto a devozione privata o a “funzione istituzionale” cadiamo in contraddizione con la nostra storia più alta degli ultimi 100 anni. E qui dovremmo dire: 100 anni fa iniziavamo a vedere meglio ciò che oggi possiamo custodire! Il culto sta prima sia della sua versione privata, sia della sua versione pubblica: vive della comunione comunitaria, della intimità del contatto, del riconoscimento dello sguardo, del contatto diretto – di parole e di pasto – della Chiesa con il suo Signore.

d) I nostri linguaggi sono vecchi: e la loro arretratezza emerge proprio “in extremis”. Appena è arrivata la “pandemia” la comunicazione ecclesiale è come impazzita. Abbiamo comunicato “ufficialmente” che il papa avrebbe “celebrato in forma privata” (quale contraddizione in termini peggiore si potrebbe escogitare?). Abbiamo sottolineato la autosufficienza del prete nei confronti della messa; abbiamo fatto normative “sul culto” che riguardavano solo i ministri, non il popolo. Così scopriamo di avere, proprio nel cuore delle nostre istituzioni, ciò che ci immunizza da una lettura vera e comunitaria del culto. Da un lato è facile pensare, ancora oggi, che tutta la liturgia sia ancora semplicemente “ufficio ecclesiastico”. Dall’altro si può leggere, alla fine del Codice di Diritto canonico, che tutta la struttura giuridica ha, come “lex suprema”, la “salus animarum”. Proprio qui, in questo “salto mortale” tra pubblico e privato, sta il cortocircuito che oggi viviamo in modo traumatico. Il soggetto della salvezza – come ha detto Guardini già nel 1918 – non è l’anima, ma l’uomo. Almeno nel culto non possiamo cavarcela “saltando” da pubblico a privato, dalla cerimonia all’anima. O elaboriamo una strategia “di comunità” o non ne veniamo fuori.

e) Perciò una liturgia “a numero chiuso” resta una contraddizione in termini: può essere sopportabile solo se un “rito di passaggio” ha fuori di sé la propria ragione. Ma quando la Chiesa si raduna per celebrare la propria intimità con il Signore può farlo solo a certe condizioni. Se le condizioni non si danno, la Chiesa deve parlare e fare esperienza negli unici luoghi in cui si dà ancora una intimità e una gratuità della esperienza e della espressione: ossia nelle case. Che, con i loro limiti “privati”, soddisfano solo alcune delle condizioni di vita della Chiesa, ma almeno non la contraddicono.

f) Qui aggiungo, infine, un’ultima questione delicata, che riguarda la vita “celibataria” dei ministri ordinati. La clausura civile mette in luce un aspetto di questa vita che è oggi è diventato molto rilevante. La vita celibataria è una vita “senza casa”. Una vita che fa, profeticamente, della comunità cristiana la propria casa. Ma le condizioni di pandemia violentano in profondità questa vocazione: poiché trasformano la comunità in spazio pubblico, sottraendo ai preti la loro casa. Questo giustifica, almeno in parte, alcune reazioni “affettive” proiettate sulla vita “confinata”. Ovviamente questo appare diverso per quei preti che, con una logica nuova, hanno accettato da tempo di “vivere insieme”. Per loro c’è anche la casa della comunità presbiterale. Anche in queste case può essere una possibilità che il digiuno eucaristico della Chiesa corrisponda ad una scelta dei ministri stessi. Che possono essere consolati dalla parola proclamata e dalla parola pregata. Luogo di presenza e luogo di salus animarum et corporum, su cui la comunità può fiorire. Per ora potrà farlo nelle “case”, per tornare presto alla “casa del Signore”, con nuovo e più esplicito desiderio di parola e di pasto, perchè il cuore arda e gli occhi riconoscano. E il corpo risorto del Signore si renda visibile nella comunità di coloro che fanno dell’amore la loro legge.

(Fonte: Blog - 7 maggio 2020)