lunedì 18 maggio 2020

Il ricordo di Giovanni Paolo II - Quel giorno con i rom a Tor Bella Monaca

18.05.1920 -18.05.2020
Il ricordo di Giovanni Paolo II 
Quel giorno con i rom a Tor Bella Monaca
di Matteo Zuppi
Cardinale e arcivescovo di Bologna



Il ricordo di Giovanni Paolo II che desidero condividere è uno dei suoi tanti incontri fuori programma che in realtà ne rivelano il programma e l’umanità. Ogni incontro per lui diventava speciale, unico, generativo a iniziare dallo sguardo, pieno di interesse, comunicativo, penetrante. Anche il mio primo incontro con il nuovo vescovo di Roma avvenne in una periferia, il 3 dicembre 1978, pochi giorni dopo la sua elezione, a Garbatella, quartiere che lui conosceva bene e oggetto della sua prima visita pastorale alla città. Fuori programma visitò l’asilo che la Comunità di Sant’Egidio aveva aperto pochi anni prima per rispondere alle esigenze delle madri della borgata che dovevano andare a lavorare. Si sedette sui sedili piccolissimi e rise dicendo che “mi fate tornare bambino!”.
Il secondo fuori programma e il mio secondo incontro con Giovanni Paolo II fu dopo pochi mesi, a seguito di un episodio di cronaca terribile: l’uccisione nel pieno centro della città, a due passi da piazza Navona, di un somalo senza fissa dimora, Alì Jama, morto per le ustioni provocate da alcuni giovani. Ricevette la delegazione della Comunità di Sant’Egidio nella sacrestia della Chiesa Nuova dove era andato per san Filippo Neri. Il desiderio di san Giovanni Paolo II è sempre stato quello di incoraggiare tutte le risposte capaci di portare l’annuncio evangelico da parte dei laici vicine alle domande delle persone e alle loro sofferenze. Cristiani nella storia senza paura e con tanto cuore. Siamo al 10 aprile 1988, durante una delle visite a una delle sue parrocchie, incontro emozionante, senza filtri con la realtà umana ed ecclesiale della città, con i problemi concreti che questa presentava. Il quartiere di Tor Bella Monaca era stato terminato da poco, con le sue “torri” che davano casa a migliaia di cittadini ma che contenevano anonimamente storie di povertà umana e materiale. Nel quartiere, in realtà ancora in costruzione, vi era un grande insediamento di rom, quasi 600 persone, che si erano stabiliti nelle zone in cui verde e terreni incolti si sovrapponevano in un’urbanizzazione ancora largamente incompleta. Il quartiere era stato segnato da episodi di intemperanza nei confronti degli zingari. Le tensioni sociali trovavano, come spesso avviene, un nemico che veniva incolpato di essere la causa delle difficoltà, il capro espiatorio, che finisce per non aiutare a identificare le vere responsabilità e i veri responsabili. Quanto antigitanismo allora e ancora oggi!

Pochi giorni prima della visita del Papa era morto, bruciato nel rogo della sua roulotte, proprio accanto alla parrocchia, il piccolo Elvis, di 9 mesi. Probabilmente sarebbe bastata una fontanella alla quale attingere acqua per domare le fiamme e salvare il bambino dalla morte. Il suo grido di giustizia,
purtroppo, era coperto dal pregiudizio e, come peraltro anche in troppe occasioni simili, non ha portato a un’assunzione del problema da parte delle istituzioni per garantire condizioni di vita umane al popolo rom e da parte di tutti per piangere di una morte così.
Il Papa doveva recarsi subito nella parrocchia e invece, vedendo i rom, don Bruno Nicolini, loro amico da sempre e un gruppo della Comunità di Sant’Egidio che già si impegnava ostinatamente alla scolarizzazione dei bambini, fece fermare la macchina e scese a salutarli. «Noi chiediamo solo di vivere in pace e di essere accolti come tutti gli altri» disse Moussa, il più anziano, al Papa. "Siamo usciti dalla Jugoslavia tanti anni fa. I nostri figli sono nati e chiediamo solo di essere aiutati a vivere e di essere accettati perché siamo cittadini. Vorremmo poter lavorare come tutti e vorremmo che i nostri figli potessero avere un’istruzione. Non abbiamo nulla: né acqua, né luce, né, a volte, riparo. Ma soprattutto non abbiamo compreso"
Moussa parlò in uno stentato italiano pieno di commozione, presentando il loro regalo, un cestino di uova, un disegno fatto dai bambini della scuola, alcuni vasi di rame con dentro due fiori finti. Giovanni Paolo II benedisse e strinse tante mani, sorridendo a persone che vedevano solo volti ostili, impauriti e aggressivi rivolgersi a loro. Fu il primo incontro con il quartiere: quello con gli ultimi,
“quelli” verso cui così poca era ed è la comprensione e la solidarietà.
Il Papa si augurò che la carità, l’amore non mancasse mai a chi viveva in condizioni disumane, nell'indifferenza o nell’aperta ostilità della gente e nell’incapacità delle amministrazioni di offrire soluzioni. La carità, disse, «è sempre più veloce ad arrivare della giustizia. Sappiamo bene che i sistemi della giustizia, dello Stato, sono molto lenti, a volte anche troppo lenti; ma la carità deve essere svelta; e tra voi si è dimostrato che la carità è svelta, è rapida». Era l’incontro con il rom, cioè l’uomo. I suoi occhi erano pieni di Dio, di quel «Tu, in cui ognuno trova il suo spazio», aveva scritto con il suo animo poetico e mistico. Ecco uno di quelle migliaia di uomini incontrati, nei quali Giovanni Paolo II riconobbe e insegnò a contemplare il volto del fratello e di Dio.

(Fonte : L'Osservatore Romano - Speciale San Giovanni Paolo II - 17.05.2020)