sabato 4 aprile 2020

Coronavirus. Don Mimmo Battaglia: «Il vitello d'oro ha tradito. La Chiesa resta con l'uomo»

Coronavirus
Don Mimmo Battaglia:
«Il vitello d'oro ha tradito.
 La Chiesa resta con l'uomo»

03.04.2020 - Lettera pastorale 
"IL MISTERO PASQUALE: 
MISTERO DI MORTE E DI RISURREZIONE ANCHE NELL’EPIDEMIA"
di don Mimmo Battaglia, 
vescovo di Cerreto Sannita - Telese - Sant'Agata de' Goti




Carissimi fratelli e sorelle,

non mi è facile quest’anno scrivere la presente lettera “pastorale” sulla Pasqua. Non è facile per nessuno intervenire con parole adeguate nella situazione particolarmente difficile che stiamo vivendo e che genera tanta incertezza sul presente e sul futuro. Una situazione che non riguarda solo una regione o una nazione, ma il mondo intero. La pandemia ha cambiato tante cose, ha preso tutti alla sprovvista, ci ha privati da un giorno all’altro di troppe cose che davamo per scontate e non avremmo mai pensato che potessero essere messe in discussione.

E’ una situazione che ha messo a nudo la fragilità di questo nostro mondo, l’inconsistenza di ciò in cui pensavamo di aver trovato la chiave risolutiva di tutti i nostri problemi, la gracilità di quell’economia, che sia a livello locale, sia a livello globale, è stata ritenuta l’unica meta ed è stata vista e osannata come l’unica via, che al di fuori di ogni regola, porta l’umanità verso la felicità sulla terra.

Non è facile nemmeno a un vescovo intervenire in una situazione siffatta, che sta provocando morti, sofferenze, ulteriore povertà tra quanti erano già poveri. È una situazione che tuttavia sta dimostrando anche che non c’è altro cammino di sopravvivenza per tutti, se non quello di restare umani, di crescere in umanità, di riagganciare politica, economia e finanza a quella umanità senza della quale il mondo diventa già su questa terra un inferno. Gli esempi di umanità che la situazione sta paradossalmente facendo emergere, tra medici, infermieri e persone che a vario titolo spendono la loro vita per gli ammalati e per gli altri, sono una conferma della validità di questa strada, come l’unica percorribile, l’unica che può assicurare il futuro di tutti.

La situazione straordinaria in cui ci troviamo a vivere questa Settimana Santa richiede parole straordinarie, che certo non possono venire dagli uomini. Possono venire solo dalla Parola di Dio. Pertanto ricorriamo ad essa, perché almeno ci orienti e ci indichi un possibile cammino da percorrere comunitariamente, ecclesialmente.

Mettendoci in profondo sentimento di ascolto e cercando di cogliere ciò che la Parola di Dio può dirci in un tempo come il nostro, sono tre le icone che affiorano alla mia mente ed indicano degli incontri (ciò di cui maggiormente oggi avvertiamo il bisogno): i tre giovani deportati nella fornace ardente; Simeone e Gesù con Maria e Giuseppe nel tempio di Gerusalemme; Pietro Paolo che raggiungono il Signore morendo a Roma.

1) Tre giovani deportati buttati nel fuoco
Il libro di Daniele racconta l’ingiunzione del Re Nabucodonosor a tre giovani, compagni d’esilio dello stesso Daniele a Babilonia, di adorare la statua d’oro da lui fatta erigere, con queste parole: «Ora, se voi sarete pronti, quando udirete il suono del corno, del flauto, della cetra, dell’arpicordo, del salterio, della zampogna e d’ogni specie di strumenti musicali, a prostrarvi e adorare la statua che io ho fatta, bene; altrimenti in quel medesimo istante sarete gettati in mezzo ad una fornace dal fuoco ardente. Qual Dio vi potrà liberare dalla mia mano?» (Dan 3,15).

La storia del re che ha saccheggiato la città di Gerusalemme, spogliato il tempio della sua suppellettile sacra, deportato in schiavitù i suoi giovani, costretti a servirlo, ad adorare una statua d’oro idolatrica, a costo della loro vita. Al rifiuto dei tre, li condanna a morire in una fornace ardente. Eppure da quella fornace Dio li libera.

La perenne attualità della Parola di Dio ci induce a pensare che anche noi siamo oggi in una situazione di esilio. Paradossalmente siamo in esilio a casa nostra. Non possiamo abbracciare i nostri cari, non possiamo frequentare i nostri luoghi di culto, non possiamo celebrare le liturgie della Settimana Santa, alle quali tanto teniamo. A tutto ciò ci ha portato non un re, ma il suo idolo: un idolo d’oro. Una statua immensa: rappresenta quel “capitalismo finanziario senza regole” denunciato dall’allora Papa Benedetto XVI, quando nell’ultimo suo messaggio per la Giornata Mondiale della Pace, il 1/01/2013, lo denunciava esplicitamente con queste parole: «Allarmano i focolai di tensione e di contrapposizione causati da crescenti diseguaglianze fra ricchi e poveri, dal prevalere di una mentalità egoistica e individualista espressa anche da un capitalismo finanziario senza regole».

Un capitalismo selvaggio, che ha pensato solo ai profitti, causato guerre per vendere armi, lasciato morire i poveri nell’indifferenza, ha respinto i più disperati in cerca di pane, erigendo muri contro di loro e armando le navi dei guardacoste, ha criminalizzato i loro soccorritori, ha fatto scrivere editoriali, giorno dopo giorno, contro chi li di difendeva (incluso Papa Francesco), ha predicato odio continuo contro i “diversi”, ha reclamato uomini forti, come gli unici che avrebbero potuto salvare le nazioni. Alcuni uomini forti sono effettivamente venuti, ma l’umanità non è stata salvata. Al contrario è precipitata nell’insicurezza e nell’angoscia. L’insicurezza per il proprio futuro e quello dei propri figli, l’angoscia di chi ha visto tagliare ogni anno, mese dopo mese, il bilancio della sanità pubblica, quello della spesa sociale a svantaggio dei più poveri, persino dei portatori di handicap e di quanti nel capitalismo finanziario senza regole non possono permettersi né azioni, né titoli e nemmeno carte di credito, sebbene per pochi spiccioli.

La statua d’oro non parla, eppure butta nel fuoco i più deboli e gli infelici.

Tutti ora in esilio a casa propria, anche i manager e i detentori delle grandi finanziarie internazionali, quelle che non hanno mai pagato un centesimo di tassa, vedono oggi morire migliaia di uomini e pur tremando per il futuro dei propri profitti, non vogliono allargare i cordoni della borsa. Non lo sanno fare: hanno finora vissuto solo per se stessi e per il loro denaro. La statua d’oro è preziosa ma dura e insensibile come il loro cuore.

Dal fuoco i tre giovani esiliati, dal fuoco della malattia, del contagio e della povertà milioni ormai di esseri umani gridano a Dio e noi con loro, noi vescovi e presbiteri, con l’intero popolo cristiano: «Signore soccorrici, vieni in nostro aiuto! Non sei tu l’unico Signore che riconosciamo e adoriamo?». Dal fuoco «quei tre giovani, ad una sola voce, si misero a lodare, a glorificare, a benedire Dio …» (Dan 3,51). Più forte fu il fuoco della fede di quello della fornace, più forte deve essere la nostra fede. Più forte dell’egoismo che tanto ha distrutto, portandoci sull’orlo dell’abisso.

Da quella fornace i giovani furono salvati, ma prima avevano elevato il loro canto delle creature, antecedente a quello di Francesco di Assisi, al quale questi si sarà certamente ispirato: «Benedite opere tutte del Signore, il Signore, lodatelo ed esaltatelo nei secoli» (Dan 3,57). Ciò che salvò i tre giovani e salvò anche il proprio popolo fu saper restare insieme, nella stessa fede, nell’attaccamento alle proprie radici, nella solidarietà con il proprio popolo. È la traccia da seguire, indicata dalla Parola di Dio, in tempo di esilio, in tempo di incendio.

Anche per noi, oggi, è di importanza vitale saper levare a Dio la nostra preghiera dalla fornace in cui siamo in parte precipitati. Non perdiamo la fede, cari fratelli e sorelle. Ora più che mai, ora più che nel resto di tutti gli anni vissuti, è tempo di credere, di affidare la nostra vita, quella dei nostri cari, il futuro dell’umanità a Colui che ci ha creati e ci ha affidato questa terra. Terra da amare e con la quale pregare.



2) Simeone e Gesù con Maria e Giuseppe nel tempio di Gerusalemme
L’icona di Gesù sulle braccia di Simeone di fronte a Maria e Giuseppe, proprio in quel tempio intanto ricostruito, ci riporta a una seconda esperienza che stiamo facendo in questi giorni di sofferenza diffusa: lo smascheramento. Alla santa coppia che gli sta davanti Simeone dice di Gesù: «Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima -, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori» (Lc 2,34-35).

Gesù è stato effettivamente colui che ha fatto cadere la maschera degli uomini del suo tempo ed è tuttora capace di farlo anche per il nostro tempo. Smascherò il fariseismo come osservanza esteriore e pura formalità perché privo di misericordia; smascherò il dominio dei regnanti come esercizio di un potere sanguinario, di cui anche lui fu vittima, perché orientato non al servizio ma allo sfarzo auto celebrativo; fece cadere persino la maschera di chi gli stava vicino come Pietro e i discepoli, quando questi dichiaravano il loro amore solo a parole.

La crisi globale dovuta al Covid-19 ha fatto cadere tante maschere. Sta mostrando la vera faccia degli uomini, a qualsiasi livello: la generosità e il senso di responsabilità di persone come medici e infermieri, capaci anche di rischiare la loro vita per soccorrere e curare i malati, la disponibilità di altri a mettere in discussione tutto e l’indisponibilità di altri, il loro attaccamento non tanto alla poltrona, ma a un mondo che in un solo mese è radicalmente cambiato e ci dice ogni giorno di più quello che qualcuno aveva già detto nell’altro secolo: che non basta proclamare né difendere la libertà per sé e per gli altri, ma occorre sentire tutta la responsabilità verso l’altro, quando la sua vita è in pericolo ed io posso e debbo soccorrerlo (H. Jonas, Il principio responsabilità).

La situazione attuale ci mostra, mai come adesso con tanta chiarezza, che la vita di ogni essere umano interdipendente con la vita degli altri. Ha messo in luce l’importanza dell’aiuto reciproco e dimostrato solidarietà e coraggio anche da parte di coloro che alcuni ritenevano avventurieri o peggio dei delinquenti che volevano saccheggiare il nostro paese.

Ha anche smascherato l’inconsistenza di alcuni grandi della terra che si ritenevano al riparo da ogni attacco e superiori a qualsiasi limite. Ha mostrato anche come persone umili e semplici, siano preziose e importanti e quanto siano da tutelare le fasce più precarie e più deboli, come gli anziani negli ospizi, i carcerati e gli immigrati di ogni genere.

Infine, per chi sa leggere la realtà con gli occhi della fede, ha mostrato anche la partecipazione della Chiesa e di noi uomini e donne di Chiesa al comune destino dell’umanità. Le nostre chiese vuote di assemblee, per chi coltiva una percezione di fede e di comunione, sembrano a tratti colme della presenza della Chiesa invisibile e anche di voi fratelli e sorelle, che per adesso solo spiritualmente potete unirvi a noi nella preghiera. Davvero, anche la fede e la percezione di fede mai come adesso possono venire fuori dalla profondità nella quale forse si erano perse oppure emergere dalla superficialità delle celebrazioni divenute abitudinarie e rituali.

La spada che da Simeone fu annunciata tagliente e inesorabile a Maria è anch’essa divenuta reale per le persone più sensibili, per noi pastori come per tutti coloro che vivono il mistero pasquale di Gesù, ma in maniera del tutto particolare: come assenza di sacramenti visibili e desiderio di una sacramentalità reale, quella che ci unisce a Cristo nella sua passione e nel suo dolore per il mondo intero e per ogni uomo.

La sofferenza che ha trafitto il cuore di Maria, la madre addolorata per tutti i suoi figli, oggi più di tutte le altre volte. Ma è proprio questo dolore, unito a quello di Gesù suo figlio, che farà sì che la Pasqua, che ora viene nella ricorrenza liturgica, venga presto in tutta la sua gioia assembleare. Questa gioia io vi annuncio anche quest’anno, convinto come sono, che Maria sta già guardando alla sofferenza di tutti noi figli e che lei, trafitta nel suo cuore anche per tanto dolore, si mostrerà presto come la “salus infirmorum”, la salute degli infermi e la stella che annuncia il nuovo giorno.



3) Pietro e Paolo raggiungono il Risorto morendo a Roma
Era una spada reale quella che troncò la testa e la vita del grande apostolo Paolo a Roma per ordine di Nerone. Fa sorridere di sofferenza l’ironia di quel “privilegio” di morire di spada riservato a Paolo, che si ritrovava il titolo di “cittadino di Roma”. La tradizione cristiana associa la sua morte per decapitazione a quella di Pietro che aveva ricevuto un privilegio ben più alto: essere condannato a morire sulla croce, come Gesù. Pietro, però, non se ne era ritenuto degno ed esprimendo l’ultimo desiderio del condannato, aveva ottenuto di morire con la croce piantata in terra all’incontrario. Morivano così i due grandi apostoli, rinascendo per la vita eterna che non può più morire. Ponevano fine alla loro sofferenza in quell’assurda persecuzione, che con tutte le altre ha seminato più morti di quante ne sta provocando l’attuale pandemia. Partecipavano al mistero pasquale di Gesù in tutta la sua estensione. L’avevano entrambi attesa, ne avevano parlato chissà quante volte alle comunità che si riunivano intorno a loro. Pietro aveva atteso quell’ora come il crepuscolo che precede il nuovo giorno, guardando verso il cielo e avvistando la stella del mattino: «abbiamo anche, solidissima, la parola dei profeti, alla quale fate bene a volgere l’attenzione come a lampada che brilla in un luogo oscuro, finché non spunti il giorno e non sorga nei vostri cuori la stella del mattino» (2Pt 1,19). Quella stessa nella quale si identifica espressamente il Risorto nel libro dell’Apocalisse: «Io, Gesù, ho mandato il mio angelo per testimoniare a voi queste cose riguardo alle Chiese. Io sono la radice e la stirpe di Davide, la stella radiosa del mattino» (Ap 22,16).

Paolo ha lasciato tracce ancora più vistose del desiderio di quell’incontro con Gesù, per incontrare da vicino Colui che lo aveva atterrato e conquistato sulla via di Damasco. Non desiderando la morte, ma desiderando ardentemente di raggiungere il Signore, aveva scritto: «Quanto a me, il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede» (2Tm 4,6ss).

Del resto, aveva già scritto, incoraggiando tutti a rafforzare la fede nel Risorto: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati» (Rm 8,35.37). La consapevolezza di stravincere in forza di Colui che ci ha amati è il motivo incrollabile di tutta la nostra fiducia in Dio. Lo è anche in questi giorni, in cui i pericoli relativamente alla salute e alla vita per noi stessi e per i propri cari sono diventati più reali.

E tuttavia soprattutto adesso è tempo di credere ancora più profondamente nella forza trainante della Risurrezione di Gesù. Così come egli è morto a nostro favore, per noi tutti, è ugualmente risorto non solo per sé, ma per noi.

Siamo figli della risurrezione dal giorno del battesimo, quel battesimo che, seconda un’antica interpretazione dei Padri della Chiesa, era scaturito dal cuore di Cristo, quando egli aveva donato a noi il suo Spirito nel momento in cui dal suo cuore squarciato fuoruscivano sangue ed acqua, i due sacramenti fondamentali che ci associano a lui ogni istante, in vita e in morte. Oltre la morte.

Lì sotto la croce, racconta ancora l’evangelista Giovanni, era presente quel nucleo di Chiesa, costituito da tre donne e un uomo: le tre Marie e l’apostolo amato. Erano pochi, ma sufficienti perché ciò che veramente conta per essere Chiesa, accomunava tutti e quattro. L’amore. L’amore di Giovani e l’amore di quelle donne salvate da Gesù, l’amore sconfinato di Maria: amore immenso come immenso era il suo dolore. Eppure l’amore lo rendeva sopportabile. L’amore deve rendere anche a noi tutto sopportabile. Più forte della morte, della sofferenza, della solitudine, è infatti l’amore.

Maria è l’icona di questo amore che va oltre la soglia sopportabile del dolore. La varca e la supera perché ha un amore sconfinato.

A Te, perciò, o Madre ci rivolgiamo perché se una spada ha trafitto il tuo cuore e trafigge il cuore di tante mamme, di noi pastori e di tutte le persone sensibili, la gioia della risurrezione, di questa Pasqua, possa inondare ugualmente le nostre comunità, spiritualmente radunate intorno a Cristo e a te, sua madre. Gesù morente sulla croce, prima ancora di affidare te al discepolo amato, aveva affidato proprio quel discepolo e, attraverso di lui, tutti noi a te, Maria, nostra Madre dolcissima. Così racconta l’evangelista Giovanni: «Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: “Donna, ecco tuo figlio!”. Poi disse al discepolo: “Ecco tua madre!”. E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé» (Gv 19,26-27).

Tu, diventata la Madre di tutti noi, dopo quei giorni oscuri e dolorosi, hai potuto gioire con Giovanni e con tutti i discepoli della presenza del figlio tuo, che, risorto, si è presentato ripetutamente a quanti lo avevano seguito durante la sua vita, anche a quelli che nell’ora suprema si erano dileguati.

Lo stesso Risorto, per la tua intercessione, madre sua e Madre nostra che mai ci abbandoni, guarisca l’umanità da quest’immane flagello che sta colpendo tutti. E se dobbiamo vivere la Pasqua liturgicamente insieme solo attraverso i mezzi audiovisivi, ci conceda di poterci riabbracciare presto nella gioia della festa, nelle nostre chiese e nelle nostre piazze, nelle nostre case e sulle nostre strade.

Forti della lezione che nessuno può vivere e può morire da solo, renda la nostra vita trasparenza del tuo amore e della tua solidarietà.

Maria, madre di Gesù e Madre nostra, soccorrici con la tua sensibilità di Madre, Gesù ascolti le tue preghiere e faccia cessare la pandemia e tutto ciò che minaccia la nostra vita e quella delle altre creature sulla terra. Amen!

† don Mimmo, vescovo