martedì 7 gennaio 2020

«Portateveli in Vaticano!». Quando l’accoglienza fa paura

«Portateveli in Vaticano!». 
Quando l’accoglienza fa paura

Facciamo fatica a mettere in pratica la parola di Gesù che ci chiede di riconoscerlo nel più povero




Alcuni mezzi di comunicazione strumentalizzano queste paure e fanno intravedere il rischio di un’invasione che ci porterà a perdere la nostra identità: questi stranieri sono troppo numerosi!

Parole queste che non possono non evocare quel conflitto narrato nei primi capitoli del libro dell’Esodo: gli Egiziani vedono crescere il numero degli Ebrei e hanno paura. Il Faraone decide perciò di inasprire le loro fatiche e di sterminare i loro figli maschi. Ma Dio ascolta il grido di quel popolo oppresso.

Tutta la Sacra Scrittura fa spesso ricorso all’immagine dello straniero, presentato come colui che ci mette in discussione: Gesù guarisce la figlia della donna Siro-fenicia, l’unico lebbroso che torna a ringraziare è un samaritano, come un samaritano è colui che si ferma davanti all’uomo mezzo morto. Alla fine del Vangelo di Marco, Gesù è riconosciuto solo da un centurione romano. Nell’Antico Testamento, come anche Gesù ricorda, il profeta Elia è inviato a una vedova straniera.

Purtroppo la politica strumentalizza – quando non la ignora – questa visione cristiana e la utilizza per giustificare strategie e finalità che hanno motivazioni differenti. Questa confusione rende ancora più difficile il discernimento del cristiano.

Al di là di queste paradossali convergenze, nel confessionale dobbiamo confrontarci con il Vangelo. Se la Chiesa deve annunciare il Vangelo, non può pronunciarsi diversamente. È vero, occorre riconoscerci peccatori quando facciamo fatica a mettere in pratica la parola di Gesù che ci chiede di riconoscerlo nel più povero, anche a costo di essere ingannati e di perdere noi stessi, proprio come ha fatto Lui.