martedì 10 dicembre 2019

LE SARDINE E L’ASCOLTO: UNA QUESTIONE SERIA. LUOGHI POLITICI, PREPOLITICI e METAPOLITICI DELLA CITTA’ di Andrea Grillo


LE SARDINE E L’ASCOLTO: UNA QUESTIONE SERIA. 
LUOGHI POLITICI, PREPOLITICI e METAPOLITICI DELLA CITTA’
di Andrea Grillo




La domanda è forte. Potremmo formularla così: è forse indice di “non democrazia”, o addirittura di “dispotismo”, affermare che qualcuno “non ha il diritto di essere ascoltato”? In effetti, nelle discussioni intorno al “movimento delle sardine”, di recente, e con una certa insistenza, si è sottolineato un aspetto che emerge da un testo abbastanza forte, nel quale è stata espressa una posizione molto chiara da parte del Movimento. Ecco testualmente che cosa dice:

“Perché grazie ai nostri padri e madri, nonni e nonne, avete il diritto di parola, ma non avete il diritto di avere qualcuno che vi stia ad ascoltare“.

Questo è un passo del “manifesto” diffuso nei giorni scorsi e rivolto contro i “sovranisti”. Un equivoco mi sembra sia nato sulla giusta interpretazione di questa frase. La quale può suonare in modo ostile, può sorprendere e può anche preoccupare. Riflettere su di essa può essere una buona occasione per capire meglio che cosa è in gioco in queste manifestazioni “silenziose”, prive di bandiere, senza slogan, ma nello stesso tempo forti ed esigenti. Proviamo a riflettere un poco su questo tema, in modo libero e sincero.

a) La differenza tra “diritto di parola” e “diritto di essere ascoltati”.

In effetti, se guardiamo in faccia la condizione di una società democratica, in essa esiste un diritto universale di parola, garantito ad ogni cittadino, ma non esiste e non può esistere un diritto universale ad essere ascoltati. Anzi, proprio l’esercizio del “diritto di parola”, che nessuno può conculcare, determina la possibilità di “scegliere chi merita di essere ascoltato”. Proviamo a dirlo “a contrario”: al diritto di parola di ognuno corrisponde il divieto di impedire la sua espressione. Invece all’eventuale “diritto di essere ascoltati” corrisponderebbe un “dovere di ascolto” che, appunto, non può essere previsto in modo universale, ma solo in casi specifici.

Così nessuno può permettersi di negare il diritto di parola a chiunque, anche ai peggiori populisti e sovranisti. Ma non arrendersi alla parola populista e sovranista, e in generale alle parole vuote e doppie, non concedere loro alcuno spazio nell’ambito dei nostri ascolti e della nostra cultura, è proprio la possibilità che nel breve testo sopra citato mi pare di trovare rappresentata in modo tanto corretto quanto lucido. Se ci fosse un dovere di ascolto, stabilito come regola generale della comunicazione politica, non potremmo sfuggire né ai comizi di Salvini, né agli editoriali di Sallusti, né ai programmi di Vespa. A loro, come è ovvio, resta il diritto di parlare. Ma rispetto a noi, per nostra fortuna, non possono vantare alcun diritto di essere ascoltati. Il non ascolto non è gesto di intolleranza, ma di scelta su chi merita di essere ascoltato: questo non è affatto un gesto antidemocratico. Anzi, è la giusta resistenza allo svuotamento della democrazia. Possiamo dirlo in altri termini: sul piano politico, le parole vuote e false comunicazioni non hanno il diritto di essere ascoltate. Questo è il principio di ogni cultura politica degna di questo nome.

b) I luoghi prepolitici e istituzionali: il “dovere di ascoltare”

Come abbiamo visto, sul piano politico al diritto di parola corrisponde il dovere di lasciar parlare. Ma non vi è alcun dovere di ascolto che corrisponda ad un presunto “diritto di essere ascoltati”. A ciò fa eccezione quanto accade in condizioni “pedagogicamente o istituzionalmente determinate”. Ad esempio a scuola, o in caserma, o in ospedale o in una stazione ferroviaria o in un aeroporto o in un Ministero degli interni. Questi luoghi sono caratterizzati da relazioni particolari, in cui il diritto di parola può essere limitato, e il dovere di ascolto può essere massimizzato. E’ un rapporto di “ufficio” che modifica la relazione tra “parola” e “ascolto”. Tuttavia nel caso del sovranismo e del populismo politico, non si può certo parlare di un tale rapporto “pedagogicamente o istituzionalmente determinato”. Se il diritto di essere ascoltati imponesse all’altro cittadino un dovere di ascolto – come per il figlio o per lo scolaro o per il medico o per il pilota –sul piano politico saremmo già fuori dall’ambito democratico e cadremmo nell’ambito di un arbitrio paternalistico assai rischioso. Occorre pertanto recisamente negare a qualunque politico populista – a Di Maio, a Salvini, a Meloni o a chichessia - qualsiasi titolo “istituzionale” o “pedagogico” per poter imporre l’ascolto a chiunque altro. Ma vi è di più. Anche il ruolo pedagogico o istituzionale, che inevitabilmente limita il diritto di parola e impone le logiche del dovere di ascolto, è a sua volta sottoposto a limiti. Se un Ministro degli Interni imponesse ad un militare di lasciar morire in mare dei naufraghi, il militare, per quanto tenuto per ufficio al dovere di ascoltare, non dovrebbe riconoscere il diritto di essere ascoltata ad una parola che viola la salvaguardia della vita degli uomini. In questi casi un diritto universale alla vita è più forte di un dovere di ascolto. O, meglio, il diritto del naufrago alla vita ha più diritto di essere ascoltato della parola del Ministro.

c) I luoghi metapolitici: il “dono di ascoltare”.

Vi sono però anche i luoghi della “marginalità e della ulteriorità escatologica”, che scoprono il “dono dell’ascolto” e pongono in essere una relazione non legale, ma morale e religiosa con l’ascolto: il dono dell’ascolto si manifesta verso quel maestro sommo, che parla dalla grazia dei cieli e dall’abisso del bisogno: lo Spirito, la Scrittura, il Signore,il Padre, l’affamato, l’assetato, il senza patria, il senza speranza, il senza vestiti, il perduto, il dimenticato. Questi sono i soggetti inaggirabili di un ascolto radicale, di una obbligazione originaria, di un “volto” che pone il soggetto nella sua prima identità. Qui sarebbe davvero paradossale che il sovranismo populista pretendesse per sé – senza alcun motivo e dall’alto della sua indifferenza più cinica – ciò che non riconosce all’altro bisognoso. Tu mi dici di trascurare il povero e di ignorare lo straniero e pretendi che io ti ascolti. Ma io resto libero di non ascoltarti e di ascoltare, al posto tuo, proprio lui, l’ultimo; rimango libero di trascurare le tue parole per non trascurare la sua vita ferita. Resto libero di ascoltare la voce dell’altro bisognoso e di non dare ascolto alla tua pretesa di ostilità. Nessun diritto ad essere ascoltato deve essere riconosciuto a chi ostenta indifferenza verso le vite ferite, a chi usa la menzogna per ottenere applausi, a chi semina odio tra le case e tra le persone per assicurarsi un piatto di lenticchie.

Il “diritto di non ascoltare” è perciò espressione insieme preziosa e complessa. Essa può essere del tutto adeguata, per definire i rapporti politici non vincolanti e in questo senso mi pare che sia stata utilizzata correttamente da parte delle “sardine”; la stessa espressione, tuttavia, costituisce un “caso limite” nei rapporti istituzionalmente e pedagogicamente vincolati, che vivono di un “ascolto dovuto”; infine la “negazione del diritto di essere ascoltati” indica una inclinazione pericolosa verso quei luoghi-limite – di sovrana trascendenza e di radicale immanenza – in cui il “sacramento di Dio” e/o il “sacramento del fratello” esigono anzitutto il mio ascolto della loro parola, come inizio della mia storia con loro e della loro storia con me. Che l’ascolto possa essere allo stesso tempo un diritto (anche da negare con decisione), un dovere (sia pur limitato e condizionato) o un dono (originario ed essenziale) costituisce forse il punto su cui si intrecciano quelle questioni brucianti, su cui sta o cade non solo la nostra città, ma anche la nostra cultura comune. L’affollarsi silenzioso di uomini e donne nelle piazze, muti come pesci, ma determinati a resistere, dice forse proprio un cambiamento nei rapporti tra queste forme dell’ascolto: una obiezione di coscienza risoluta contro l’ascolto forzato di parole vuote; un recupero di spessore nell’ascolto dovuto e istituzionalmente prezioso; forse anche una nuova irruzione dell’ascolto donato, in cui la santità del Dio fatto uomo e il bisogno del prossimo abbandonato ritrovano eloquenza, inventano uno stile e così aprono varchi inattesi e accendono speranze nuove.



(Pubblicato il 6 dicembre 2019 nel blog: Come se non)