martedì 8 ottobre 2019

Enzo Bianchi: «Rimettere Gesù al centro»

Enzo Bianchi: «Rimettere Gesù al centro»

Le sfide della missione in un mondo globale: inculturazione, dialogo, ecumenismo, salvaguardia del Creato, migranti, ministerialità… Nel Mese missionario straordinario dialogo a tutto campo con Enzo Bianchi, della comunità di Bose.


«Siamo in un momento di grande trapasso in cui ci rendiamo conto che un certo tipo di missione con ogni probabilità non è più sentito come decisivo e fondamentale per la vita della Chiesa. Quindi il fatto che si celebri un mese straordinario e si cerchi di attirare l’attenzione dei fedeli sul tema della missione è assolutamente necessario e urgente». Enzo Bianchi, fondatore della comunità monastica di Bose, di cui è stato priore sino al gennaio del 2017, si confronta volentieri sulle grandi questioni che interpellano la missione – e i cristiani tutti – nel mondo contemporaneo.

Fratel Enzo, che cosa significa oggi l’evangelizzazione ad gentes in un mondo e in una Chiesa “globali”?
«Da un lato, non possiamo più pensare l’evangelizzazione ad gentes come la pensavo io nella mia infanzia, nel senso di portare semplicemente il Vangelo a chi non lo conosceva. Resta però il fatto che noi cristiani questa speranza del Vangelo della Resur­rezione, dell’unica salvezza che viene da Cristo, l’abbiamo dentro. E abbiamo, prima ancora del dovere, la passione di comunicarla proprio per la fede e l’amore che abbiamo per Gesù Cristo. Ma non si tratta più di andare ad annunciare il Vangelo, imponendolo in qualche modo o “sfruttando” le situazione, ma si tratta di dare una testimonianza in mezzo alle genti. In questo senso, la missione ad gentes non finirà mai finché i popoli non saranno sulla via della conoscenza di Cristo e in attesa della salvezza che viene da Lui. Le forme sono molte. Con ogni probabilità, oggi, in certe zone è possibile essere solo presenti, dare testimonianza, non annunciare il Vangelo a parole, ma viverlo. Ma questo era già previsto. Nella sua regola, ad esempio, Francesco diceva che i frati, quando andavano tra i saraceni – che era l’islam di allora – non dovevano pensare di dirsi cristiani, ma semplicemente testimoniare la fede facendo il bene, con l’amore.
Indubbiamente, sono cambiate le situazioni. Oggi abbiamo un approccio molto diverso nei confronti delle genti e delle loro culture, un approccio di grande rispetto in cui vogliamo scoprire ciò che è già presente del Vangelo, i semi della Parola e dello Spirito Santo, che non mancano mai. Quindi c’è più un incontro che un dono che dobbiamo semplicemente fare loro. Anzi, dobbiamo saper anche accogliere i doni che ci vengono dalle altre culture, dalle loro tradizioni religiose, dalla loro ricerca spirituale e di amore, che non possiamo assolutamente negare».

Papa Francesco ripete spesso la necessità che la Chiesa tutta e ciascun battezzato siano autenticamente missionari. Eppure il tema della missione sembra sempre più estraneo alle comunità cattoliche o relegato a piccoli gruppi di solidarietà. Qual è la sua impressione?
«Manca nei nostri popoli un atteggiamento che possa dirsi davvero missionario soprattutto qui, nelle terre di antica cristianità, dove la fede sta venendo meno e la trasmissione si è inceppata. Ma anche questo desiderio che altri possano conoscere Gesù Cristo si è molto spento; c’è una grande indifferenza nei confronti della missione. È vero che sono diminuite tutte le vocazioni, ma quelle missionarie sono forse le più scarse e difficili. Questo dovrebbe anche farci riflettere su come noi, soprattutto a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, abbiamo chiesto ai laici di partecipare alla missione, proponendo semplicemente qualche forma di volontariato, che però non li metteva in quella possibilità di darsi radicalmente a Gesù, in una dedizione di tutta la vita».

In un mondo in trasformazione, specialmente nelle metropoli, che significato e attualizzazione ha oggi l’inculturazione?
«Quello dell’inculturazione è forse il tema più grave che attende la Chiesa. È la frontiera davanti. È significativo che l’Instrumentum Laboris del Sinodo per l’Amazzonia, al di là del problema ecologico, ponga come altra grande questione quella di come si è inculturata – e se si è inculturata – la fede all’interno della cultura dei popoli dell’Amazzonia. Ma noi dobbiamo chiederci anche se abbiamo fatto un’inculturazione della fede ad esempio in Oriente, oltre che in Africa, dove, di fronte a culture tradizionali, il Vangelo rappresentava una tale novità che era in qualche misura più “facile”. Ma quando affrontiamo culture antiche e raffinate, come l’induismo o il buddhismo, che hanno una ricerca secolare di Dio, fatta in maniera estremamente elaborata, dobbiamo chiederci se abbiamo saputo inculturare il cristianesimo o se lo abbiamo espresso semplicemente con categorie latino-occidentali. A partire dagli anni Settanta, si è riflettuto sul tema dell’inculturazione in maniera molto seria e teologica; poi, però, praticamente siamo rimasti paralizzati.
L’inculturazione non può essere fatta solo con teologi, liturgisti e altri a tavolino, ma si tratta di vedere la creatività reale dei popoli, la loro capacità di fecondità nel dire la fede in termini che sono loro, e di esprimere la liturgia in gesti e segni che non sono i nostri».

A suo avviso, sono stati fatti passi avanti in questo senso?
«Poco o niente. Nei primi secoli, la Chiesa, uscendo dal giudaismo, ha saputo diventare greca, siriaca, copta egiziana… Son fiorite le Chiese che hanno espresso loro liturgie e credo. Poi, invece, c’è stata un’“ingessatura”, soprattutto in Occidente, da parte della Chiesa romana e della latinità. E così oggi continuiamo esattamente a celebrare, ad esempio, in Africa con una liturgia che è quella medievale della Chiesa romana. Non bastano i ritocchi. Va ripensata l’espressione stessa della fede e vanno ripensati i vari riti della liturgia. Non è facile. L’Instrumentum Laboris del Sinodo per l’Amazzonia pone il problema. Ma non ho molta speranza che si faranno dei passi avanti, perché, nell’attuale fase di trapasso, noi occidentali siamo troppo occupati dal tema della mancata trasmissione della fede e della riduzione della comunità cristiana a piccola minoranza, per poter essere attenti a questi temi. Certamente dovrebbero farlo in particolare i missionari e le Chiese che sono in Africa e Asia, perché l’inculturazione è soprattutto in questi due continenti che ci attende. Temo però che la paura si impadronisca del Sinodo e non si riesca ad andare avanti».

Il cristianesimo sta crescendo in varie parti del mondo, mentre, come si diceva, è in crisi nella “vecchia” Europa. Stiamo diventando anche noi terra di missione? La missione non è più solo questione di frontiere geografiche, ma di “periferie” esistenziali?
«Già alla fine della guerra in Francia si diceva: “France, terre de mission”. Qualcuno aveva intuito che la missione andava fatta non solo nelle colonie. Ma ora ne siamo certi, perché le comunità cristiane sono ridotte a minoranza, la marea è l’indifferenza, non è più l’ateismo o una posizione contraria alla Chiesa. Ma in tutto questo, la grande ignoranza riguarda Gesù Cristo. Le nuove generazioni non sanno più assolutamente che cos’è il Vangelo e chi è Gesù Cristo. O c’è veramente un salto missionario, che riesca a evangelizzare le nostre terre o il cristianesimo scomparirà. Entro trenta-quarant’anni, a macchia di leopardo, la maggior parte delle terre europee non saranno più non dico cristiane – non lo sono più già adesso – ma non avranno neppure una presenza e una voce cristiane significative. Le comunità cristiane rischiano di essere delle minoranze in diaspora. E quando c’è la disseminazione la situazione diventa davvero difficile e faticosa per il sopravvivere della fede. In un contesto ostile come in Medio Oriente, i cristiani sono riusciti a vivere in minoranze e piccole Chiese nella marea musulmana; ma sono una cultura e un mondo diversi. Quello che ci è attorno non è ostile, è indifferente; non interessa la ricerca di Dio, non interessa il Vangelo. Allora, o abbiamo la capacità di rendere di nuovo Gesù Cristo eloquente o il cristianesimo in Europa non ha un domani».

Dialogo interreligioso ed ecumenismo sono stati spesso importanti per la missione. Le sembra che ci siano ancora sensibilità e impegno in questi ambiti?
«Nel campo dell’ecumenismo si sono fatti dei passi, soprattutto nelle terre di missione dove c’è una reale collaborazione tra Chiese. In quello delle religioni è indubbiamente più difficile. Con l’islam il dialogo è faticoso, al di là di contesti in cui ci sono organismi che lo portano avanti. Penso al Sudan o alla Nigeria, dove ci sono anche situazioni di persecuzione. Il dialogo con le religioni si impone come impegno sempre più grande e doveroso – ed è quello d’altronde che cercano di fare Papa Francesco e gli organismi del Vaticano – però non è così facile. L’ecumenismo avanza di più ed è semmai più difficile in terre di antica cristianità, come Russia, Romania o Bulgaria».

Il Sinodo per l’Amazzonia pone anche altre questioni cruciali per tutta la Chiesa, come quella della ministerialità. Che cosa ne pensa? E del ruolo delle donne nella Chiesa?
«Per l’Amazzonia qualcosa si può ottenere, ad esempio che le comunità che non hanno un pastore e non hanno l’eucaristia possano averli. E data la scarsità di un clero celibe, credo che passare a un clero uxorato, attraverso la formula di uomini sposati che hanno mostrato sufficiente qualità di vita cristiana e di fedeltà e abbiano un certa preparazione, sia importante. Vorrei che ci fosse il coraggio di una ministerialità riservata alle donne, non nel senso di conferire loro l’ordine. Oggi non c’è neppure la possibilità di discuterlo nella Chiesa cattolica o di ipotizzarlo per il domani; ci sono posizioni da parte della maggioranza dei teologi e del magistero per cui è un tema indiscutibile. Ma senza conferire l’ordine si può inventare un magistero per le donne. Questo, secondo me, sarebbe un cambiamento molto forte nella Chiesa cattolica: poter avere donne che fanno l’omelia, ad esempio, e fanno risuonare il Vangelo all’interno di una visione femminile e non soltanto maschile. Temo però che attualmente non si riesca a farlo. Anche la commissione creata da Papa Francesco è un’operazione archeologica. I diaconi li abbiamo risuscitati dopo il Concilio Vaticano II, ma hanno portato davvero un cambiamento nella Chiesa? Non basta risuscitare un ministero, bisogna avere il coraggio di crearne di nuovi da dare ad alcuni laici, tra cui le donne: questo potrebbe contribuire a cambiare il volto della Chiesa e a dare alle donne responsabilità che attualmente non hanno. Credo che sia importante».

La salvaguardia del Creato è un tema missionario? Quanto è sentito all’interno della Chiesa?
«È un tema decisivo ed essenziale che Papa Francesco con la Laudato Si’ ha portato a un livello di attenzione che la Chiesa cattolica prima non aveva assolutamente. È un tema urgente e credo che per le nuove generazioni possa essere uno sfondo su cui avviene l’evangelizzazione. Anche in questo ambito, dobbiamo inventarci come essere culturalmente significativi nella società di oggi.
L’orizzonte ecologico è molto importante e lo sarà sempre di più. Non dimentichiamo, però, che il principio vero è Gesù Cristo per il quale, attraverso il quale e con il quale Dio ha creato tutte le cose. Per questo dobbiamo avere una visione della creazione che è Cristo-centrica. Allora, forse, faremo anche a livello di fede un cambiamento di atteggiamento verso il cosmo, la natura e il Creato. Gesù Cristo è il fondamento dell’ecologia. È lui cieli nuovi e terra nuova. I due temi, ecologia e poveri, sono sempre strettamente legati. Questo è anche merito di Papa Francesco e della Laudato Si’».

E la questione migranti?
«È una questione assoluta e, d’altro canto, tutta la storia della Chiesa lo dimostra. Gesù stesso lo afferma in quell’orizzonte escatologico in cui dice: “Ero straniero e mi avete accolto”. Oggi Papa Francesco ha giocato la sua popolarità su questo tema, rifacendosi al Vangelo. Ci sono però porzioni della Chiesa che sono critiche proprio su questo. Dal grande entusiasmo iniziale verso il Pontefice, si è passati a una grande porzione di fedeli, ma anche di preti all’interno delle parrocchie, che dicono che Francesco sta esagerando, è ossessionato da questo tema; non lo seguono, restano perplessi. Io li chiamo “cristiani del campanile” che si oppongono ai “cristiani del Vangelo”. Papa Francesco ha il merito di aver fatto “scoppiare” questa divisione all’interno della comunità cristiana, tra quelli che seguono il Vangelo e devono tener conto dei migranti e dare accoglienza; e quelli che in qualche misura si oppongono. Certo, non sono ingenuo, non possiamo accogliere tutti e dobbiamo chiedere una governance dell’immigrazione. Non basta neppure l’Europa. Bisognerebbe chiederla a tutto il mondo. Ma gli organismi internazionali oggi non ci sono, non ci pensano, sono afoni, non fanno nulla, dall’Onu alla Comunità Europea. Anche per questo, il problema diventa tragico».

Per concludere, quali sono, secondo lei, le principali sfide dell’evangelizzazione oggi?
«Cruciale è che nella missione ci sia davvero la centralità di Gesù Cristo e che non si stemperi la missione all’interno di un’azione, seppure necessaria e urgente, che è quella della carità. Si deve avere il coraggio di tenere al centro la nostra fede in Gesù Cristo, perché è lui che ci spinge verso questa carità nei confronti dei fratelli e delle sorelle. Temo che a volte il cristianesimo si stia stemperando in posizioni morali e antropologiche, in cui non ci sono più né l’annuncio del Vangelo né la decisività della Grazia, che è l’unica fonte di salvezza per noi esseri umani».