lunedì 16 settembre 2019

Promemoria per l’autunno di Franco Lorenzoni


Promemoria per l’autunno
di Franco Lorenzoni

Foto di Progetto Rebeldia

L’importanza di azioni comuni coordinate dal tavolo interassociativo Saltamuri

È sempre più evidente che l’Italia si stia trasformando in una immensa discarica in cui quotidianamente vengono sversate dosi massicce di veleni tossici, tesi a rendere sempre più difficile ogni futura convivenza fondata sull’apertura e il rispetto dei diritti di tutti.

Nella terra dei fuochi dell’avvelenamento sociale

A differenza dei governi che possono cambiare e degli esiti elettorali che variano in mutate contingenze, l’avvelenamento delle relazioni sociali ha conseguenze che durano decenni perché, proprio come nella terra dei fuochi, disinquinare e tornare a rendere coltivabili e abitabili terreni avvelenati fin negli strati più profondi, richiede sforzi di lunga durata dagli esiti incerti. Risulta assai difficile, infatti, capire quali siano le misure più efficaci per disintossicarci e da dove cominciare.

Nonostante tutto ciò e pur tra molte contraddizioni la scuola, soprattutto quella di base, continua a essere un luogo di incontro e di costruzione comunitaria in cui la compresenza di bambini e ragazzi delle più diverse provenienze culturali e sociali sedimenta le basi di quel “sentirsi di casa”, che è una delle condizioni per la costruzione di una società plurietnica aperta.

Ora, poiché la gran parte dei segnali che giungono dalla società, da media vecchi e nuovi e dagli osceni atti messi in atto in oltre un anno del governo giallo verde portano a una crescente intolleranza, il ruolo di chi educa diventa cruciale e chiama a una più intensa e coerente responsabilità.

Lo scorso anno, nel mese di settembre, un nutrito numero di gruppi e associazioni che in modo diretto o indiretto si muovono sul terreno educativo ha dato vita al Tavolo Saltamuri, che ha scelto questo nome in omaggio ad Alexander Langer e al suo limpido e sempre attuale “Tentativo di decalogo per la convivenza interetnica”.

La tensione e convinzione che ha dato luogo a questa ricerca di coordinamento, che in pochi mesi ha raccolto oltre 130 associazioni in tutta Italia, sta nella necessità condivisa di opporsi alla degenerazione crescente e virulenta del discorso pubblico non limitandosi a denunciare i sempre più frequenti casi di violazione dei diritti umani, ma proponendo a studenti e insegnanti di trovare coraggio e forme opportune per mostrare e dimostrare che convivere si può e ci arricchisce tutti, che le scuole, quando sono luoghi vivi e attivi di costruzione culturale, sono in grado di fare della conpresenza tra diversi la principale leva di comprensione del mondo e di interpretazione critica di ciò che vi accade.

Nei prossimi mesi ci aspettano almeno tre appuntamenti di cui tenere conto, che riguardano il clima, la storia e i diritti.

La responsabilità dei docenti nei venerdì per il futuro

A settembre, a partire da venerdì 27, riprenderanno in tutto il mondo le mobilitazioni studentesche contro il surriscaldamento globale, che già oggi costituisce la principale causa di migrazioni forzate e della moltiplicazione esponenziale dei profughi ambientali.

Il movimento suscitato dalla radicalità e dall’ostinazione di Greta Thunberg chiama in causa le responsabilità di noi insegnanti riguardo ai temi da trattare a scuola e ai metodi di coinvolgimento attivo di bambini e ragazzi. E allora perché non immaginare tempi e modi per favorire e accompagnare i momenti di protesta degli studenti assumendoci la responsabilità noi insegnanti, all’interno delle scuole, di proporre l’interruzione simbolica e concreta del normale corso delle lezioni ogni primo venerdì del mese, dedicando quelle giornate a momenti pluridisciplinari di approfondimento serio del tema del surriscaldamento globale, le cui conseguenze riguardano già oggi centinaia di milioni di abitanti del nostro pianeta. Uscire dalla “Grande cecità” riguardo al futuro, denunciata qualche anno fa da un libro importante di Amitav Ghosh, non è forse un tema obbligatorio per chi educa?

Contro la moltiplicazione dei muri mondo

Il 9 novembre di trenta anni fa l’abbattimento del muro di Berlino segnò la fine di un’epoca. Per non soccombere all’onda retorica che accompagnerà quest’anniversario, potrebbe essere interessante ragionare e studiare, discutere e comprendere come in questo trentennio la storia non solo non sia finita, come qualcuno aveva predetto, ma nelle convulsioni di una globalizzazione che ha moltiplicato guerre, ingiustizie e discriminazioni, ha visto crescere la tendenza a costruire muri e divisioni interetniche in ogni latitudine, a dispetto delle speranze suscitate da quell’evento liberatorio rapidamente tradito.

A compensare la scomparsa di quel simbolo della guerra fredda, dagli anni Novanta nel mondo ne sono sorti tanti di muri, che segnano fisicamente e irrigidiscono nel sentire di tanti antiche e nuove divisioni etniche, spesso pretestuose e inventate. Da poco meno di venti, in trenta anni i muri costruiti nel mondo sono diventati oltre settanta. Chi meglio di una classe multietnica può azzardare dialoghi e ragionamenti per provare a intendere e a smontare pezzo a pezzo i tanti muri mentali che avviliscono la convivenza nel mondo e nelle nostre città?

Inciampare per ricordare

Per ricordare milioni di vite spezzate dalla furia nazista, l’artista tedesco Gunter Demnic percorre le città d’Europa dal 1992, cementando a terra le sue pietre d’inciampo (Stolpersteine), in modo che si depositi in forma indelebile, nel tessuto urbano delle città, una memoria visiva dei cittadini deportati nei campi di sterminio nazisti.

Diffidando forse dei grandi monumenti che costellano le nostre città, di cui spesso si perde il senso, Gunter Demic insegue l’idea, artistica e poetica, di affidare la memoria dei singoli innocenti uccisi nei campi di sterminio a delle piccole pietre di inciampo ricoperte di ottone, leggermente sollevate dal piano del marciapiede, con su inciso il nome di chi abitava oltre quel portone e fu costretto a uscire da una casa dove non sarebbe mai più tornato. In venticinque anni l’artista tedesco ha incastonato oltre 56.000 pietre d’inciampo nelle città di 18 nazioni europee.

Insegnanti, ragazzi e dirigente del liceo “Mangino” di Pagani, in provincia di Salerno, hanno fatto loro il suggerimento dell’artista tedesco incastonando, nel pavimento dell’atrio della loro scuola, una piccola targa in ottone che ricorda il ragazzo del Mali senza nome, la cui pagella è stata trovata insieme ai resti del suo corpo recuperato in fondo al mare, in seguito al più spaventoso naufragio avvenuto nel Mediterraneo dalla seconda guerra mondiale, nell’aprile del 2015.

La scelta coraggiosa di cementare quella targa a terra, come segno indelebile in grado di continuare a denunciare nel tempo l’assenza di un ragazzo che avrebbe potuto frequentare quella scuola, è particolarmente significativa e sta piano piano diffondendosi in altre scuole.

Tornare con Korjak ai diritti fondamentali dell’infanzia

Il 20 novembre festeggeremo i trent’anni della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo, che è uno dei documenti internazionali più significativi, anche perché nato da una rilettura dei testi più lucidi e lungimiranti di Janus Korjak, che nel secolo scorso è stato certamente tra i più profondi e coerenti sperimentatori in campo educativo, a partire dalle condizioni estreme vissute dagli orfani ebrei nel ghetto di Varsavia.

Oltre ogni rituale, quella settimana di novembre può e deve trasformarsi in un momento di riflessione corale con azioni e momenti pubblici in cui le scuole possono cercare di coinvolgere la popolazione dei propri territori proponendo giornate di incontro e riflessione pubblica intorno a ciò che è possibile fare per salvaguardare i diritti dei più piccoli e dei più fragili.

Battaglie locali, se ben condotte, possono portare a piccole vittorie, certo parziali ma non per questo meno significative. A Lodi l’arrogante assessora leghista che nel silenzio complice del ministero tentò di discriminare dalla mensa i figli di famiglie immigrate chiedendo loro documenti impossibili da reperire nei loro paesi d’origine, è stata costretta alle dimissioni in seguito a una campagna d’opinione che ha visto una forte mobilitazione locale e nazionale. In quel caso ha avuto grande rilevanza la capacità di porre la questione all’attenzione di tanti, coinvolgendo stampa e televisione.

A Roma est, nella scuola che porta il nome e cerca di mantenere vivo lo straordinario impegno sociale di Simonetta Salacone, un gruppo di genitori insieme ad alcuni insegnanti hanno dato vita la scorsa primavera a una concreta azione di solidarietà sociale presidiando a turno l’appartamento assegnato alla mamma rom di una bambina che frequenta la scuola e che rischiava di essere espulsa dalla casa popolare che le era stata assegnata.

Una scuola capace di farsi carico nelle sue diverse componenti di un tema di uguaglianza sociale così evidente e disatteso non è cosa da poco e ci indica una prospettiva di lavoro necessaria ed urgente.

Per rovesciare l’arrogante semplificazione distruttiva dei discorsi correnti abbiamo bisogno di atti simbolici forti che in qualche modo ribaltino la percezione delle cose.

Per questo è stato importante che il ragazzo che ha salvato i suoi compagni dal rogo dell’autobus scolastico, di fronte alla possibilità di ottenere la cittadinanza italiana come compenso per il suo atto di presenza e generosità abbia domandato, con semplicità e chiarezza: “Perché io posso diventare cittadino di un paese che abito da quando sono nato e non mio fratello?”. Questa semplice frase così nitida ci invita a riprendere con impegno e nuove energie la battaglia per lo ius soli e ius culturae perché, se siamo insegnanti che abbiamo a cuore la Costituzione, non possiamo tollerare che 800.000 ragazze e ragazzi che frequentano le nostre classi siano costretti a vivere come italiani privi di cittadinanza.