sabato 14 settembre 2019

Óscar Romero: essere umano, cristiano e arcivescovo esemplare di Jon Sobrino

Óscar Romero: 
essere umano, cristiano e
 arcivescovo esemplare 
di Jon Sobrino


Pubblicato su "Concilum"
numero 3/2019





Scrivo da San Salvador, dove avevo vissuto già tre anni, dal 1977, quando Romero fu nominato arcivescovo, fino al suo assassinio avvenuto nel 1980. Ciò che sto per dire è una cosa nota tra noi. Altrove, nonostante si accetti e persino si ammiri monsignor Romero, l’approccio può essere diverso, e spesso lo è.

Ritengo che persone come Ellacuría — martire a sua volta — oppure quel servitore che io sono, possano aggiungere qualcosa, ossia l’esperienza personale, diretta e immediata di monsignor Romero. Durante la messa esequiale, Ellacuría ebbe a dire: «Con monsignor Romero Dio è passato per il Salvador». Non lo disse in virtù della sua acuta intelligenza, ma del suo contatto reale con l’arcivescovo. Da parte mia, anch’io in virtù di un contatto personale con lui, la prima cosa che scrissi e dissi dopo il suo assassinio è che «monsignor Romero credette in Dio».

Quel che è accaduto in Vaticano il 14 ottobre 2018 — la sua canonizzazione — è stato importante, ma nel linguaggio degli antichi è stato un “accidente”. La “sostanza” fu l’Óscar Romero reale, la sua azione e la sua parola, la sua fiducia totale in Dio, la sua obbedienza totale a Dio e la sua dedizione totale ai poveri e alle vittime di questo mondo.

In Salvador il 24 marzo 1980, giorno del suo assassinio, nessuno pensò in termini di canonizzazione, ma molta gente parlò dell’eccellenza umana, cristiana e arcivescovile di monsignor Romero. Piangendo, una contadina disse: «Hanno ucciso il santo». Pochi giorni dopo don Pedro Casaldáliga scrisse: «San Romero d’America, nostro pastore e nostro martire». Nessuno pensò che sarebbe stato necessario lavorare in qualche curia per dichiararlo santo.

Non accadde come in altre occasioni. Quando morì José Maria Escrivá de Balaguer molti si precipitarono per ottenere la sua canonizzazione. Quando morì madre Teresa di Calcutta la stima per le sue virtù era già grande, soprattutto per la sua amorevole parzialità verso i sofferenti e gli abbandonati, e ci si aspettava la sua canonizzazione. Quando morì Papa Giovanni Paolo II si sentì levare il grido «santo subito».

Non accadde nulla di tutto questo alla morte di Óscar Romero. E vale la pena ricordare che il giorno stesso in cui si seppellì il Romero morto, si vissero gli orrori che aveva affrontato il Romero vivo: nella piazza della cattedrale stracolma di gente esplosero bombe, molti se ne fuggirono di corsa in cerca di riparo e lasciarono lì un mucchio di centinaia di scarpe. Lo stesso delegato ufficiale del Papa, monsignor Corripio, fra gli altri, chiese che lo portassero immediatamente all’aeroporto. Per contro c’è una foto in cui si vedono sei sacerdoti che portano a spalle il feretro di monsignor Romero, e tra loro c’era padre Ignacio Ellacuría.

Andiamo alla sostanza. Monsignor Urioste era solito ripetere che Romero fu il salvadoregno più amato dalle maggioranze oppresse e il più odiato dalle minoranze degli oppressori.

Quale è stata allora la sostanza del 14 ottobre? Chiesero a un contadino chi fosse monsignor Romero, e senza esitare quello rispose: «Monsenõr Romero ha detto la verità. Ha difeso noi poveri. E per questo l’hanno ucciso». Cioè visse e morì come Gesù di Nazaret.

Proclamò la verità, ne fu posseduto e la proclamò con passione. Quando la realtà era positiva per i poveri, monsignor Romero proclamava la verità come vangelo — buona notizia — con gioia ed esultanza. Quando la realtà era negativa, era miseria, oppressione e repressione, crudeltà, morte — soprattutto per i poveri — monsignor Romero diceva la verità come una brutta notizia, denunciando e smascherando, e la diceva con dolore. Ricco di verità, Romero fu evangelizzatore sincero e profeta incorruttibile.

Come «annunciatore della verità», l’arcivescovo Romero espresse giudizi sulla realtà, su tutta la realtà. Lasciò «che la realtà prendesse la parola» (Karl Rahner) ed ebbe l’onestà di rendere pubblica la parola pronunciata dalla realtà stessa.

Sulla base di questi princìpi monsignor Romero disse la verità in un modo senza eguali nel Paese, né prima né dopo di lui.

La disse vigorosamente, perché si rifaceva al principio essenziale e fondamentale: «Non vi è nulla di così importante come la vita umana, come la persona umana. Soprattutto la persona dei poveri e degli oppressi» (16 marzo 1980). A Puebla chiese a Leonardo Boff: «Voi teologi aiutateci a difendere il minimo, che è il dono massimo di Dio: la vita». La proclamò diffusamente, per poter dire «tutta» la verità. Per questo le sue eucaristie nelle messe domenicali in cattedrale potevano durare un’ora e mezza o più. La disse pubblicamente, «dai tetti» come chiedeva Gesù, nella cattedrale e attraverso l’emittente radio diocesana, Ysax, che più volte fu oggetto di attentati dinamitardi e subì interferenze. La sua ultima omelia dovette pronunciarla davanti a un telefono collegato a una radio del Costa Rica. La Ysax trasmette ancora ma, senza monsignor Romero, ha perso lo straordinario valore che aveva. Romero disse la verità in modo popolare, imparando molte cose del popolo, di modo che, senza saperlo, i poveri e i contadini erano in parte coautori delle sue omelie e delle sue lettere pastorali: «Voi e io abbiamo scritto la quarta lettera pastorale» (6 agosto 1979); «Voi e io facciamo questa omelia» (16 settembre 1979). E formulò sentenze notevoli sul suo rapporto con il popolo per dire la verità: «Sento che il popolo è il mio profeta» (8 luglio 1979); «Abbiamo fatto una riflessione talmente profonda che credo che il vescovo abbia sempre molto da apprendere dal suo popolo» (9 settembre 1979).

E fu popolare anche perché monsignor Romero rispettava e apprezzava la «ragione», il pensiero del popolo, della gente semplice. Ed evitava con successo di assecondare l’infantilizzazione religiosa, rischio sempre presente nella pastorale.

In America latina, e sicuramente in Salvador, credo che un buon numero di persone accetti l’«opzione per i poveri». Possiamo dire che appartenga già all’ortodossia ecclesiale, con il rischio che tutta l’ortodossia smussi le asperità e diluisca ciò che è fondamentale. Senza sottovalutare le cose ben dette a Puebla sui poveri e sulla povertà, soprattutto l’impressionante litania dei volti dei poveri (nn. 32-39), la loro moltitudine (n. 29), le cause strutturali della povertà e le esigenze dei poveri (n. 30), insisto su una comprensione più precisa dell’opzione, che compare nella formulazione teologale di Puebla. Vi si dice al n. 1142 del documento: «I poveri meritano un’attenzione preferenziale, qualunque sia la situazione morale o personale in cui si trovano. Fatti a immagine e somiglianza di Dio per essere suoi figli, questa loro immagine è offuscata e persino oltraggiata. Perciò Dio prende le loro difese e li ama».

Quel contadino aveva compreso bene l’opzione per i poveri di monsignor Romero: «Ha difeso noi poveri». Non ho altro da aggiungere a questa sentenza solenne del contadino. Né al linguaggio che usò: ha difeso «noi poveri», cioè noi «che siamo poveri». La conclusione è che monsignor Romero non solo amò i poveri e gli oppressi del Paese, ma anche li difese. Settimana dopo settimana, difese i poveri e le vittime con la verità che proclamava pubblicamente nelle sue omelie. Stimolò l’organizzazione popolare e l’Assistenza legale per difendere i contadini e le vittime. Quando la repressione infuriava aprì le porte del seminario centrale di San José de la Montana per accogliere i contadini che fuggivano da Chalatenango, cosa che di certo infastidì vari altri vescovi.

È chiaro che monsignor Romero difendeva l’oppresso. Ma deve anche essere chiaro cosa implica l’atto di difendere. Difendere presuppone di affrontare e, quando è necessario, lottare nel modo più umano possibile contro chi aggredisce, impoverisce, perseguita, opprime e reprime. Per difendere i poveri monsignor Romero affrontò chi mente e chi uccide, che si trattasse di persone, istituzioni o strutture. E la sua fu una difesa primordiale, che andava ben oltre ciò che in genere si intende con «difendere una causa» con il fine, oltretutto, di «vincere una causa». Lavorava e lottava perché vincesse la realtà malconcia, la giustizia e la verità. Ancora, lavorava e lottava perché non perdessero sempre gli stessi. Prendiamo uno scontro notevole. La Corte suprema di giustizia l’aveva convocato pubblicamente perché dicesse i nomi dei «giudici venduti» che monsignor Romero stesso aveva denunciato durante la sua omelia domenicale. I consiglieri dell’arcivescovo erano spaventati e non sapevano come avrebbe fatto a cavarsela con questa convocazione. Egli non si lasciò turbare. Nell’omelia successiva chiarì in primo luogo che non aveva parlato di «giudici che si vendono», bensì di «giudici venali».

Ma non si soffermò sul fatto di aver detto o meno questo o quello, perché poco importava, e senza tanti complimenti il 30 aprile 1978 andò al fondo del problema: «Cosa fa la Corte suprema di giustizia? Dov’è il ruolo trascendentale di questo potere che, in una democrazia, dovrebbe stare al di sopra di tutti i poteri ed esigere giustizia da chiunque la calpesti? Credo che gran parte del malessere della nostra patria trovi qui la chiave principale, nel presidente e in tutti i collaboratori della Corte suprema di giustizia, che con maggiore integrità dovrebbero esigere dalle Camere, dalla magistratura, dai giudici, da tutti gli amministratori di questa parola sacrosanta — la giustizia — che siano veramente operatori di giustizia».

Monsignor Romero difese il povero con tutto se stesso e con tutto ciò che aveva. Cinque giorni prima di essere assassinato, a un giornalista straniero che gli chiedeva come fosse possibile, in una situazione così difficile, essere solidali con il popolo salvadoregno, rispose: «Chi non può fare altro, preghi». Ma «Fate, fate, fate tutto ciò che potete», arrivò a dire. E ricordò il motivo per cui questa azione era necessaria: «Non dimenticate che siamo uomini (...) e che qui si soffre, si muore, si fugge rifugiandosi sulle montagne».

All’Università di Lovanio aveva detto: «La gloria di Dio è il povero vivente». Difendere i poveri è difendere Dio.

Il contadino colpì nel segno. Nella tradizione biblica «dire la verità» è un imperativo che viene da lontano. E da lontano viene anche la pericolosità dell’ambito in cui si muove la verità. «Il maligno è omicida e menzognero», dice il quarto vangelo (Giovanni 8, 44). Prima dà la morte, poi la nasconde. Monsignor Romero fu circondato dalla morte e da morti, e, cosa alquanto nuova, da sacerdoti assassinati, sui quali ora ci concentriamo. Durante la sua vita furono assassinati sei sacerdoti. E dal primo assassinio fino a quello dei gesuiti dell’Università cattolica argentina nel 1989, si è arrivati a diciotto. In Guatemala avvenne qualcosa di simile.

Romero parlò molto dell’assassinio di sacerdoti non perché li considerasse più importanti delle altre persone uccise e di fatto ricordava sempre scrupolosamente tutti coloro che erano stati assassinati, laici e laiche, ma perché, per il simbolismo ecclesiale, e molte volte cristiano, di quelle morti violente, parlava e rifletteva con maggior forza quando l’ucciso era un sacerdote. «Mi tocca continuamente raccogliere cadaveri»: cominciò così l’omelia del 19 giugno 1977 ad Aguilares, riferendosi all’assassinio di padre Rutilio Grande e dei suoi due parrocchiani. Monsignor Romero capì molto presto che «raccogliere cadaveri» sarebbe diventato un elemento essenziale del suo ministero come arcivescovo.

Nel 1979 furono uccisi altri tre sacerdoti (Octavio Ortiz, Rafael Palacios e Alirio Macías). Monsignor Romero andò al fondo della realtà di questi assassinii e concluse in termini perentori: «Si uccide chi dà fastidio» (23 settembre). Li ebbe sempre esplicitamente presenti: «Desidero ricordare con affetto ed essere solidale con i sacerdoti assassinati» (16 settembre). Con parole che fecero scalpore proclamò l’importanza ecclesiale del fatto che gli assassinati fossero stati sacerdoti: «Sarebbe triste che in una patria in cui si uccide tanto orrendamente non contassimo tra le vittime anche dei sacerdoti. Sono testimoni di una Chiesa incarnata negli interessi del popolo» (24 giugno). E un mese dopo disse: «Sono contento, fratelli, che la nostra Chiesa sia perseguitata proprio per la sua opzione preferenziale per i poveri e perché cerca di incarnarsi nell’interesse dei poveri» (15 luglio).

Era consapevole della difficoltà di realizzare ciò che diceva: «Come è difficile lasciarsi uccidere per amore del popolo!» (12 agosto). Ma rimase fermo: «Il pastore non vuole sicurezza mentre non danno sicurezza al suo gregge» (22 luglio). Fu coerente e sempre più radicale sino alla fine della sua vita: «Come pastore sono obbligato per mandato divino a dare la vita per coloro che amo, che sono tutti i salvadoregni, anche quelli che mi uccidessero (...) Si può dire, se arrivassero ad uccidermi, che io perdono e benedico quelli che lo faranno» (marzo 1980). Non voglio concludere senza chiarire che non uccisero Óscar Romero solo perché amava la verità — il che corrisponde al vero — ma perché la diceva. Questo atteggiamento martiriale fu fondamentale sin dal principio. Il 21 agosto 1977, festeggiando il suo compleanno, disse nell’omelia: «Ho capito ancora una volta che la mia vita non appartiene a me, ma a voi».

Torniamo al 14 ottobre. Quel giorno con monsignor Romero è stato canonizzato anche Papa Paolo VI. Penso che i due si stimassero reciprocamente. Romero apprezzò la Evangelii nuntiandi di Paolo VI e la mise a frutto nella sua missione pastorale. E ciò che più lo colpì del Papa accadde nel suo viaggio a Roma. Parlò con lui poco dopo l’assassinio di padre Rutilio Grande. Paolo VI, con una grande tenerezza, gli prese la mano e gli disse: «Avanti, coraggio!». Chiudo con le parole già citate di Ignacio Ellacuría: «Con monsignor Romero Dio è passato per il Salvador». Parole da martire a martire.