venerdì 27 settembre 2019

Il testo integrale dei dialoghi di Papa Francesco con i gesuiti di Mozambico e Madagascar: "L’evangelizzazione libera! Il proselitismo, invece, fa perdere la libertà. ... (da Papa) credo che fondamentalmente la mia esperienza di Dio non sia cambiata. Io resto sempre lo stesso di prima... non c’è alcuna magia nell’essere eletto Papa. ... Il clericalismo è una vera perversione nella Chiesa. ... È importante che la gente preghi per il Papa e per le sue intenzioni. Il Papa è tentato, è molto assediato: solo la preghiera del suo popolo può liberarlo. ... La xenofobia distrugge l’unità di un popolo, anche quella del popolo di Dio...

Dopo le anticipazioni pubblicate da "La Repubblica" e da "Il Corriere della Sera, "La Civiltà Cattolica" pubblica il testo integrale delle interessanti conversazioni di Papa Francesco durante gli incontri privati con i gesuiti di Mozambico e Madagascar 



«LA SOVRANITÀ DEL POPOLO DI DIO»
I dialoghi di papa Francesco con i gesuiti di Mozambico e Madagascar
di Antonio Spadaro


Giovedì 5 settembre, durante il suo viaggio in Mozambico, papa Francesco ha incontrato in maniera privata un gruppo di 24 gesuiti, dei quali 20 del Mozambico, 3 dello Zimbabwe e uno dal Portogallo. Tra di loro c’era il Provinciale, p. Chiedza Chimhanda. L’incontro è avvenuto in Nunziatura alle 18,15 circa, dopo il rientro dagli impegni della giornata. La Provincia dei gesuiti dello Zimbabwe-Mozambico è stata costituita a fine dicembre 2014. Conta attualmente 163 membri, dei quali 90 giovani in formazione[1]. Al suo arrivo, i gesuiti hanno applaudito il Pontefice, che ha chiesto ai presenti di formare un cerchio con le sedie. La conversazione è durata un’ora abbondante. Dopo i saluti del Provinciale, il Papa ha invitato i gesuiti a porre domande per avviare la conversazione. 

Il primo a prendere la parola è stato p. Paul Mayeresa, che lavora a Beira nell’apostolato educativo. Ha chiesto un pensiero sulle preferenze apostoliche della Compagnia[2] e un consiglio su come viverle in Mozambico. Il Papa ha risposto così:

Non è facile ricostruire una società divisa. Voi vivete in un Paese che ha vissuto lotte tra fratelli. Penso che, ad esempio, la preferenza apostolica che riguarda gli Esercizi spirituali possa aiutare molto in questo contesto. Si possono dare Esercizi a persone impegnate nei diversi settori della società e così renderle più adatte a svolgere il loro compito per unire e riconciliare. Si tratta dell’esperienza del discernimento spirituale che guida all’azione.

Serve un adeguato accompagnamento, specialmente se nella società e nella nazione c’è bisogno di unità, di riconciliazione. Sappiamo che, a volte, l’ottimo è nemico del bene, e in un momento di riconciliazione vanno inghiottiti molti rospi. In questo processo, si deve insegnare ad avere pazienza. Serve la pazienza del discernimento per andare all’essenziale e mettere da parte l’accidentale. Ci vuole davvero tanta pazienza, a volte! Poi, però, serve anche insegnare i contenuti, cioè la dottrina sociale della Chiesa. Ma attenzione: in ogni caso il gesuita non deve dividere. C’è bisogno di riconciliazione nella società del Mozambico: unire, unire, unire, unire, unire, avere pazienza, aspettare. Mai fare un passo per dividere. Noi siamo uomini del tutto, non della parte.

Tu lavori nell’apostolato educativo, e stai in mezzo ai giovani. Il tuo lavoro è importante e impegnativo. I giovani hanno buona volontà, ma possono essere una facile preda dell’inganno, dell’impazienza. È necessario essere vicini ai giovani, dare loro spazio perché possano discernere ciò che accade nel loro cuore. La formazione considera insieme le idee e i sentimenti. Per agire bene bisogna sempre considerare le idee e i sentimenti che si provano. Ad esempio, bisogna aiutare i più giovani a riconoscere quando vivono nella rassegnazione, e quindi nella stagnazione. E anche a riconoscere quando invece vivono una sana inquietudine. Insomma, serve un’opera di discernimento spirituale, di accompagnamento per il bene della società.

Quindi parla p. Bendito Ngozo, cappellano della scuola secondaria «Santo Inácio de Loyola»: «Alcune sètte protestanti per fare proseliti usano le promesse di ricchezza e prosperità. I poveri si fanno affascinare e sperano di diventare ricchi aderendo a queste sètte che usano il nome del Vangelo. Così lasciano la Chiesa. Quale raccomandazione ci può dare affinché la nostra evangelizzazione non sia fare proselitismo?».

Questo che dici è molto importante. Intanto bisogna distinguere bene tra quelli che vengono chiamati «protestanti». Ce ne sono tanti con i quali possiamo lavorare molto bene e che hanno a cuore l’ecumenismo serio, aperto, positivo. Ma ce ne sono altri che cercano solamente di fare proselitismo e usare una visione teologica della prosperità. Sei stato molto preciso nella tua domanda.

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Ciò che intendo dire è che l’evangelizzazione libera! Il proselitismo, invece, fa perdere la libertà. Il proselitismo è incapace di creare un percorso religioso in libertà. Prevede sempre gente in un modo o nell’altro assoggettata. Nell’evangelizzazione il protagonista è Dio, nel proselitismo è l’io.

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San Francesco d’Assisi ha detto ai suoi frati: «Andate nel mondo, evangelizzate. E, se necessario, anche con le parole». L’evangelizzazione è essenzialmente testimonianza. Il proselitismo è convincente, ma è tutta appartenenza e ti toglie la libertà. Credo che questa distinzione possa essere di grande aiuto. Benedetto XVI ad Aparecida ha detto una cosa meravigliosa, che la Chiesa non cresce per proselitismo; cresce per attrazione, l’attrazione della testimonianza. Le sètte, invece, facendo proseliti, separano le persone, promettono loro tanti vantaggi e poi le abbandonano a loro stesse[4].

Tra di voi certamente ci sono teologi, sociologi e filosofi: vi chiedo di studiare e approfondire la differenza tra proselitismo ed evangelizzazione. Leggete bene l’Evangelii nuntiandi di san Paolo VI. Lì è chiaro che la vocazione della Chiesa è quella di evangelizzare. Anzi, l’identità stessa della Chiesa è evangelizzare. Purtroppo, però, non solamente nelle sètte, ma anche all’interno della Chiesa cattolica ci sono gruppi fondamentalisti. Sottolineano il proselitismo più che l’evangelizzazione.

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L’evangelizzatore non viola mai la coscienza: annuncia, semina e aiuta a crescere. Aiuta. Chiunque faccia proselitismo, invece, viola la coscienza delle persone: non le fa libere, le fa dipendere. L’evangelizzazione ti dà una dipendenza «paterna», cioè ti fa crescere e ti libera. Il proselitismo ti dà una dipendenza servile, di coscienza, e sociale. La dipendenza dell’evangelizzato, quella «paterna», è il ricordo della grazia che Dio ti ha dato. Il proselito invece dipende non come un figlio, ma come uno schiavo, che alla fine non sa che cosa fare se non gli viene detto.
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Prende la parola uno scolastico, Leonardo Alexandre Simão, che fa il suo periodo di formazione a Beira. Racconta del suo lavoro con i giovani. Il Papa gli dice che è un lavoro importante e che suo «compito è comunicare il Vangelo e far sì che i giovani siano interiormente liberi». Poi il gesuita gli chiede se e come è cambiata la sua esperienza di Dio da quando è stato eletto Papa. Francesco prende un breve tempo per riflettere e poi risponde…

Non so dirti, a dire il vero. Cioè credo che fondamentalmente la mia esperienza di Dio non sia cambiata. Io resto sempre lo stesso di prima. Sì, avverto un senso di maggiore responsabilità, senza dubbio. La mia preghiera di intercessione poi si è fatta molto più ampia di prima. Ma anche prima vivevo la preghiera di intercessione e avvertivo la responsabilità pastorale. Continuo a camminare, ma non ci sono stati cambiamenti davvero radicali. Parlo al Signore come prima. Sento che mi dà la grazia che mi serve per il tempo presente. Ma il Signore me la dava anche in precedenza. E poi commetto gli stessi peccati di prima. L’elezione a Papa non mi ha convertito di colpo, in modo da rendermi meno peccatore di prima. Io sono e resto un peccatore. Per questo mi confesso ogni due settimane.

Non mi era mai stata posta questa domanda prima d’ora, e ti ringrazio di avermela posta, perché mi fai riflettere sulla mia vita spirituale. Capisco, come ti dicevo, che il mio rapporto con il Signore non è cambiato, a parte un maggiore senso di responsabilità e una preghiera di intercessione che si è allargata al mondo e a tutta la Chiesa. Ma le tentazioni sono le stesse e anche i peccati. Il solo fatto che adesso io mi vesta tutto di bianco non mi ha affatto reso meno peccatore e più santo di prima.

Mi conforta molto sapere che Pietro, l’ultima volta che appare nei Vangeli, è ancora insicuro come lo era prima. Presso il mare di Galilea, Gesù gli chiede se lo ama più degli altri e gli chiede di pascere le sue pecore, e poi lo conferma. Ma Pietro resta la stessa persona che era: testardo, impetuoso. Paolo dovrà confrontarsi e lottare con questa sua testardaggine in merito ai cristiani che venivano dal paganesimo e non dal giudaismo. All’inizio Pietro ad Antiochia viveva la libertà che Dio gli ha dato e sedeva a tavola con i pagani e mangiava con loro tranquillamente, mettendo da parte le regole alimentari giudaiche. Poi però giunsero lì alcuni da Gerusalemme, e Pietro, per timore, si ritirò dalla tavola dei pagani e mangiava solo con i circoncisi[6]. Insomma: dalla libertà egli passa di nuovo alla schiavitù della paura. Ecco Pietro ipocrita, l’uomo del compromesso! Leggere dell’ipocrisia di Pietro mi conforta tanto e mi mette in guardia. Soprattutto mi aiuta a capire che non c’è alcuna magia nell’essere eletto Papa. Il conclave non funziona per magia.

Interviene p. Joaquim Biriate, segretario del Provinciale, per porre una domanda: «Come si fa a evitare di cadere nel clericalismo nel corso della formazione al ministero sacerdotale?».

Il clericalismo è una vera perversione nella Chiesa. Il pastore ha la capacità di andare davanti al gregge per indicare la via, stare in mezzo al gregge per vedere cosa succede al suo interno, e anche stare dietro al gregge per assicurarsi che nessuno sia lasciato indietro. Il clericalismo invece pretende che il pastore stia sempre davanti, stabilisce una rotta, e punisce con la scomunica chi si allontana dal gregge. Insomma: è proprio l’opposto di quello che ha fatto Gesù. Il clericalismo condanna, separa, frusta, disprezza il popolo di Dio.

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In America Latina c’è molta pietà popolare, ed è molto ricca. Una delle spiegazioni che si dà del fenomeno è che questo è avvenuto perché i sacerdoti non erano interessati, e dunque non hanno potuto clericalizzarla. La pietà popolare ha cose da correggere, sì, ma esprime la sovranità del popolo santo di Dio, senza clericalismo. Il clericalismo confonde il «servizio» presbiterale con la «potenza» presbiterale. Il clericalismo è ascesa e dominio. In italiano si chiama «arrampicamento».

Il ministero inteso non come servizio, ma come «promozione» all’altare, è frutto di una mentalità clericale. Mi viene in mente un esempio estremo. Diacono significa «servo». Ma, in alcuni casi, il clericalismo tocca paradossalmente proprio i «servi», i diaconi. Quando dimenticano di essere i custodi del servizio, allora emerge il desiderio di clericalizzarsi e di essere «promossi» all’altare.

Il clericalismo ha come diretta conseguenza la rigidità. Non avete mai visto giovani sacerdoti tutti rigidi in tonaca nera e cappello a forma del pianeta Saturno in testa? Ecco, dietro a tutto il rigido clericalismo ci sono seri problemi. Ho dovuto intervenire di recente in tre diocesi per problemi che poi si esprimevano in queste forme di rigidità che nascondevano squilibri e problemi morali.

Una delle dimensioni del clericalismo è la fissazione morale esclusiva sul sesto comandamento. Una volta un gesuita, un grande gesuita, mi disse di stare attento nel dare l’assoluzione, perché i peccati più gravi sono quelli che hanno una maggiore «angelicità»: orgoglio, arroganza, dominio… E i meno gravi sono quelli che hanno minore angelicità, quali la gola e la lussuria. Ci si concentra sul sesso e poi non si dà peso all’ingiustizia sociale, alla calunnia, ai pettegolezzi, alle menzogne. La Chiesa oggi ha bisogno di una profonda conversione su questo punto.

D’altra parte, i grandi pastori danno alla gente molta libertà. Il buon pastore sa condurre il suo gregge senza asservirlo a regole che lo mortificano. Il clericalismo invece porta all’ipocrisia. Anche nella vita religiosa.

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 Il clericalismo è essenzialmente ipocrita.

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(testo parziale)

Leggi il testo integrale:
 La Civiltà Cattolica 26/09/2019