sabato 28 settembre 2019

"Il cielo non si imprigiona nelle frontiere". Andrea Riccardi

"Il cielo non si imprigiona nelle frontiere"
di Andrea Riccardi,
Storico, fondatore della Comunità di Sant’Egidio



Incontro internazionale promosso dalla Comunità di Sant’Egidio
PACE SENZA CONFINI - MADRID 2019
Assemblea d'Inaugurazione,
Palacio Municipal de Congresos 
15 settembre 2019







Signor Presidente della Repubblica Centroafricana,
Illustri Leader delle grandi religioni mondiali,

vorrei dare il benvenuto da parte della Comunità di Sant’Egidio a quanti partecipano a questo convegno, sul cui significato mi soffermerò. Non prima di aver ringraziato il signor cardinale Don Carlos Osoro Sierra, il quale ha tenuto che Madrid fosse, per qualche giorno, capitale di dialogo, convinto che il dialogo ci salverà, non i confini. Grazie signor cardinale!

Pace senza confini può apparire un’utopia. Le frontiere non sono un argine all’instabilità? I confini, tracciati nei secoli, identificano i Paesi e sono alle identità nazionali: come le pareti della casa che offrono intimità e identità a una famiglia. Del resto esistono anche confini tra religioni e Chiese, che si distinguono per esperienze spirituali e contenuti teologici differenti. 

Nel mondo globale, tutti abbiamo bisogno, per vivere, di una casa dal perimetro delimitato. Una nazione, una lingua, una cultura, rappresentano una casa. In questi tempi, ne abbiamo bisogno anche per ripararci dai venti freddi di una globalizzazione omologante, schiacciante, tutta economica e mercantile, che spazza via culture e radici. La distruzione delle identità porta allo sradicamento, terreno di sviluppo dei fanatismi e dei radicalismi. 

Il problema non è l’esistenza dei confini. E’ invece come vivere le frontiere in un mondo, grande e talvolta terribile. Spesso confini respingenti o impregnati di odio fanno a pezzi il mondo, creano un insidioso clima conflittuale. Si parlerà, nelle tavole rotonde e nelle discussioni di questo convegno, di tanti aspetti della convivenza globale. La questione, che ci angustia, è la pace. Qualcuno dirà che, posta così, è generica, che va articolata in prospettive specialistiche. Sarà ingenuo, ma lasciatemi dire che la visione unitaria della pace è quella ereditata dalle religioni: una pace che abbraccia tutti e va dalla fine dei conflitti ai rapporti tra persone sino alla dimensione del cuore. In questo senso andrà –credo- l’intervento del metropolita Hilarion di Volokalamsk, presente con una significativa delegazione della Chiesa russa. 

La donna e l’uomo credenti sono descritti dai testi religiosi come quelli che volgono gli occhi al cielo, oltre i confini. Il cielo non s’imprigiona nelle frontiere. Vogliamo parlare di pace in modo globale, anche se si è smarrito il senso unitario di questa grande idea. C’è poco allarme per i conflitti in corso, le minacce di guerra, i confini surriscaldati. Siamo troppo abituati all’assenza di pace e ci basta che la guerra sia lontana da noi. Eppure, nel mondo globalizzato –come mostra il terrorismo- nessuno é garantito, se non da una pace più grande. 

Le mie frontiere non mi preservano! Si pensi alle questioni ecologiche, oggi finalmente percepite da tanti come un terreno decisivo, mentre sino a qualche tempo fa sembravano problemi da specialisti. Se vogliamo salvare dalla distruzione il nostro paese, dobbiamo salvare la terra! Ci sono problemi irrisolvibili senza prospettive e azioni oltre i confini.

Non abbiamo ancora approntato gli strumenti per agire in modo globale sull’ambiente. L’ha denunciato papa Francesco nell’enciclica Laudato sì, quando ha detto: “la terra, nostra casa, si sta trasformando sempre più in un immenso deposito di immondizie”. Quel testo è un grido d’allarme per il saccheggio della terra sempre più inabitabile per le generazioni future. Dal grido di dolore, in quell’enciclica, sgorga una preghiera: “O Dio dei poveri…/ Risana la nostra vita,/affinché proteggiamo il mondo/ e non lo deprediamo, /affinché seminiamo bellezza / e non inquinamento e distruzione”. 

Abbiamo troppo poco gli strumenti per agire in modo globale. Le conseguenze dei disastri ecologici non si fermano alle frontiere: coinvolgono tutti. Quando l’Amazzonia brucia, anche noi bruciamo con la grande foresta! La terra rivela che tutti siamo concretamente legati. Le religioni lo insegnano da millenni: l’umanità, le persone, i popoli, hanno tutti un comune destino. L’umanesimo religioso l’ha sempre intuito, anche se talvolta l’ha dimenticato.

Bauman, al nostro convegno del 2016 ad Assisi, affermò di fronte ai leader religiosi: “Siamo tutti dipendenti gli uni dagli altri e non si può tornare indietro: in realtà cerchiamo di gestire questa realtà cosmopolita ancora con i mezzi sviluppati dai nostri antenati per vivere in una realtà limitata. Ma è una trappola”. Aveva ragione: gestiamo la realtà globale con politiche e strumenti del passato, inadeguati alle dimensioni presenti. Con lucida sintesi, Bauman indicò il duplice effetto della globalizzazione: “divide tanto quanto unisce; divide mentre unisce…”. I muri cadono e i muri risorgono allo stesso tempo. E’ quello che stiamo vivendo.

Un anniversario s’impone alla nostra attenzione, il 9 novembre 1989: trent’anni fa cadde il Muro di Berlino e finì il mondo delle frontiere chiuse e dei muri della guerra fredda. L’89 fu la grande sorpresa di un cambiamento pacifico. Per la quasi totalità della gente e dei politici, era imprevisto. Si pensi che -pochi giorni prima della caduta del Muro di Berlino- il cancelliere tedesco Kohl, pur essendo un politico lungimirante, conversando con il ministro degli esteri polacco Geremek (mi piace ricordare Geremek frequentatore dei nostri incontri), disse: “Sappiamo bene tutti e due che non vivremo abbastanza per vedere la Germania riunificata”. Invece il Muro crollò poco dopo e rapidamente si avviò il processo di globalizzazione.

Mi viene un ricordo sulla storia dei nostri convegni nello spirito di Assisi. Eravamo a Varsavia il 1 settembre 1989 per la preghiera per la pace: tanto ribolliva tra speranze e incertezza, mentre si riannodavano i fili del dialogo. Ricordo quei giorni densi di memoria della seconda guerra mondiale in una Polonia che aveva tanto sofferto. Il cuore dell’incontro fu un sogno di pace che sembrava allora più vicino: “mai più la guerra!”. 
Da allora nutriamo la radicata convinzione che la globalizzazione economica e politica vada accompagnata da una globalizzazione spirituale. E’ il contributo dei nostri convegni annuali. Trent’anni fa si avviò la globalizzazione. Molti la videro come l’inaugurazione di un’era di pace. C’è stato un grande impulso nella vita dei popoli: la gente ha cominciato a guardare oltre i confini, a sentirsi parte di un destino unico, a nutrire una visione più larga. Sembrava che la globalizzazione, dopo l’89, stimolasse i processi unitivi: anche religiosi, ecumenici, culturali. Eppure -se guardiamo ai decenni passati- dobbiamo constatare che la globalizzazione è stata un gigante economico e che l’umanesimo spirituale globale è rimasto purtroppo un nano. 

Così, nella vertigine del successo e nella prepotenza dell’interesse economico, il mondo globale ha smarrito l’entusiasmo per la pace; ha perso il senso generoso di una visione globale perché guidato da interessi parziali: ha valorizzato la frontiera degli altri. Quella frontiera dietro alla quale gli altri impallidiscono, come se non esistessero o fossero una minaccia. Nel mondo globale, purtroppo sono state poche le visioni globali; poche quelle nutrite da uno spirito largo e generoso.

In trent’anni, sono sorti nuovi confini. Si pensi a quelli nati dalla fine dell’Unione Sovietica. Se alcuni confini sono stati relativizzati come nell’Unione Europea, altri sono diventati caldi e si è combattuto per crearne di nuovi. Alcuni non sono frontiere, ma muri: per ragioni militari, difensive, per frenare i migranti, per proteggere lo spazio nazionale. Nel mondo globale ci si sposta, emigrati e rifugiati, in largo numero come mai nella storia, eppure i confini si ripropongono. La questione dei migranti e dei rifugiati si pone con una forza tale che è impossibile risolverla con le scelte dei singoli paesi. Ne è testimone Filippo Grandi, che saluto!

In assenza di visioni larghe, c’è una ripresa di prospettive nazionali antagoniste o nazionaliste, reazioni semplificate a una globalizzazione che appare minacciosa, semplificazione che sembra proteggere da problemi complessi. Non mi voglio abbandonare ad allarmismi. Ma non si può vivere però l’oggi con le sue sfide complesse e interconnesse senza cercare una visione larga, senza il respiro umanesimo planetario.

C’è un altro anniversario da evocare: il 1 settembre 1939, quando le truppe naziste violarono i confini polacchi e iniziò la più orribile guerra tra europei che divenne subito mondiale, che ha divorato milioni di persone, producendo morte, devastazioni, orrore, genocidi, inimmaginabili per la mente umana, ma realmente accaduti. Mi inchino davanti a un testimone di quella guerra e della Shoah, un bambino di Buchenwald, come rabbi Meir Lau. La memoria di quella guerra è ammonitrice di quale orrore sia ogni guerra. 

Nel crogiuolo di dolore della guerra, ottant’anni fa, si è sviluppata una forte coscienza del rispetto delle sovranità e libertà dei popoli e dei diritti dell’uomo. La filosofia e la funzione delle Nazioni Unite ha qui le sue radici. Dal secondo conflitto mondiale, cominciò il processo di armamento nucleare, la corsa che –nonostante i passi decisivi dei decenni passati- oggi conosce ritorni preoccupanti. Il 1 settembre 1939 è stato l’inizio della mondializzazione dell’odio e della guerra, come mai nella storia dell’umanità. Rivela quanto male e quanta sofferenza può generare una guerra senza frontiere! Ricorda come la pace non è mai assicurata e come la logica del conflitto può prepotentemente trascinare le volontà politiche e schiacciarle in un ingranaggio. Oggi non c’è uomo di pace, anche giovane, che non debba misurarsi con l’eredità della generazione della guerra.

La complessa realtà del mondo contemporaneo non può essere semplificata con il taglio brutale delle frontiere o degli interessi di parte. E’ poliedrica -come ama dire spesso papa Francesco. Va dunque abitata da un tessuto di un articolato e penetrante dialogo. Per questo siamo fedeli allo “spirito di Assisi”, creatore d’incontro, dialogo e amicizia, che soffia da quel 1986. Un ultimo frutto di tale spirito, proprio a febbraio scorso, è l’innovativo e solido documento sulla fratellanza umana per la pace e la convivenza, firmato ad Abu Dhabi da papa Francesco e dal grande imam di Al Azhar, Al Tayyb, che indica come vie per la pace: ”il dialogo, la comprensione, la diffusione della cultura della tolleranza, dell’accettazione dell’altro e della convivenza”

Non bisogna essere rassegnati di fronte alla ragione pesante degli interessi di parte, come stanno diventando tanti grandi della terra. Spesso i poveri, nel loro bisogno, intuiscono la via. La via dello spirito apre strade, unisce, libera al dialogo. Ed è una vera forza. 
Sì, nonostante la storia faticosa, il dialogo appartiene profondamente alle religioni, come a ogni cultura in cui prevale l’umanesimo. Le religioni infatti coltivano “l’origine trascendente del dialogo” –come diceva uno spirituale del Novecento. Dialogo e universalismo, con storie diverse, sono radicati nei cromosomi e nel vissuto delle religioni. E le radici fruttificano. I confini esistono, ma non possono diventare muri né disegnare il futuro. I credenti li superano con lo sguardo del cuore e con la parola del dialogo. Ci conforta con la sua semplicità il Salmo 60, che dice: “dai confini della terra io t’invoco, Signore.