L’insensatezza di alzare muri tra i popoli
del 1 luglio 2019
C’è chi ha nostalgia della Cortina di Ferro e magari pure del Muro di Berlino; chi ha concretamente vissuto all’ombra di quei muri ne ha un po’ meno e considera ad esempio una carnevalesca e cupa regressione ai fantasmi del passato l’idea di sbarrare di nuovo la frontiera, a Trieste, tra Italia e Slovenia. Quando ero un ragazzino la frontiera, vicinissima, non era una frontiera qualsiasi, bensì una frontiera che divideva in due il mondo — la Cortina di Ferro. Io vedevo quella frontiera sul Carso, quando andavo a passeggiare e a giocare. Dietro quella frontiera c’era un mondo sconosciuto, immenso, minaccioso; il mondo dell’Est sotto il dominio di Stalin, un mondo in cui non si poteva andare, perché la frontiera, in quegli anni, era invalicabile, almeno fino al 1948, sino alla rottura tra Tito e Stalin e sino alla successiva normalizzazione dei rapporti tra Italia e Jugoslavia. Era l’Est – l’Est così spesso ignorato, rifiutato, temuto, disprezzato.
Ogni Paese ha il suo Est da respingere. Ma quel mondo dietro la frontiera era anche un mondo che conoscevo bene, perché si trattava di terre che avevano fatto parte dell’Italia e che la Jugoslavia aveva occupato alla fine della Seconda guerra mondiale; terre in cui ero stato da bambino, quindi un mondo familiare, noto. In qualche modo sentivo che dietro la frontiera c’era un qualche cosa di noto e di ignoto e credo che la vita sia sempre, consapevolmente o no un viaggio dal noto all’ignoto e viceversa, partenze e ritorni a luoghi materiali e del cuore ogni volta nuovi. Quella chiusura divideva allora anche italiani da italiani e sloveni da sloveni; amputava l’esistenza come una cicatrice sempre fresca. Ora sembra che una parte del Governo italiano voglia rialzare le sbarre e ledere la nostra esistenza, l’esistenza di noi che viviamo a Trieste. È una piccola tessera del grande, sdrucito e sporco mosaico della politica nei confronti del problema dei migranti.
A parte le considerazioni generali d’ordine anzitutto umano e certo anche politico nei confronti del grande problema dei migranti, si tratta di una tessera assurda, un cerotto che non fermerebbe nulla e solo irriterebbe la pelle di chi se lo trovasse appiccicato addosso. La realtà, la nostra vita quotidiana a Trieste è una realtà transfrontaliera, un’esistenza che pressoché ignora quel confine di Stato e lo valica di continuo come si valica il limite di un rione per andare a fare acquisti, a tuffarsi in mare in un’altra spiaggia, andare a cena, passeggiare in un bosco o in un altro adiacente. Tutto ciò non cancella la dolorosa, colpevole e intricata Storia che ha creato quel confine — la violenza nazionalista, fascista e non solo fascista, italiana nei confronti degli slavi, la vendetta di questi ultimi indiscriminata e ingiusta come è spesso la vendetta, gli esodi come quello istriano, il confine invisibile fra italiani e sloveni nella stessa città. Tutto ciò soffocava la vita di Trieste, spingeva molte delle sue forze migliori ad abbandonare la città. Una delle mie fortune è stata quella di essere — in quegli anni ciechi, come li definisce Quarantotti Gambini — ancora un ragazzo che l’età proteggeva dal senso pesante di chiusura e di un grigio futuro.
Da tanti decenni la situazione è migliorata; l’atmosfera è divenuta più aperta e più libera e non solo nei rapporti tra italiani e sloveni, oggi tanto più vivi e sereni, ma in generale nell’esistenza della città, nella qualità della sua vita. Rialzare sbarre significherebbe ottundere questa vitalità, questo piacere di vivere e non si vedono orde immani in arrivo tali da giustificare la trasformazione di una città in una caserma, in cui giustamente è vietato l’ingresso a chi non è un soldato. La città, oggi, non è una città invasa; il riciclaggio del denaro sporco, di cui mi diceva un funzionario della Questura, che vede nascere e sparire di continuo ristoranti e ritrovi, è più pericoloso dei neri che cercano di vendere occhiali o, nei giorni di pioggia, ombrelli.
Non è solo in nome dell’accoglienza e della fraternità umana che è insensato rialzare quelle sbarre; in questo caso le sbarre rialzate colpirebbero non solo i disperati in cammino, ma anche la stessa qualità di vita.
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