Poveri naufraghi, bombe e turisti.
Tre navi, due morali
In Italia ci sono "porti chiusi" che finalmente si aprono; "porti aperti" di nascosto che andrebbero sorvegliati, "porti canali" che sarebbero da spostare. E nell’approdo in queste banchine di tre navi – ognuna con carichi diversi: l’uno di vita, l’altro di morte, il terzo soprattutto di denaro – stanno racchiuse molte delle contraddizioni del nostro Paese.
Il primo porto è Genova, dove ha attraccato la nave della Marina Militare "Cigala Fulgosi" alla fine di due giorni di navigazione dal mare di fronte alla Libia, dalle cui acque aveva tratto in salvo cento persone. Tra loro 17 donne, 6 incinte, 23 minori, alcuni di qualche anno appena e 11 rimasti soli, non accompagnati. Naufraghi dell’esistenza prima ancora che del Mediterraneo: ragazzi e adulti che hanno attraversato deserti di sabbia, si sono persi nei gironi infernali dei trafficanti in Libia, sono stati fatti partire su un gommone lasciato poi, mezzo sgonfio, alla deriva. Un’umanità ferita molte volte che, sulla "Cigala Fulgosi" prima e a Genova poi, ha trovato infine chi quelle ferite, nel corpo e nell’anima, ha cominciato a fasciare, spalmando balsamo sulle ustioni o semplicemente «facendo un girotondo e giocando coi bimbi piccoli con tutto il repertorio italiano», come ha raccontato il comandante della Fregata della Marina. «Come uomini di mare, e per diritto internazionale – ha detto – se troviamo qualcuno in pericolo di vita lo soccorriamo. È anche un dovere morale».
E non c’è nulla da aggiungere: i naufraghi si soccorrono per dovere d’umanità e per diritto di legge, si salvano dalle onde e si portano in un "porto sicuro". Come non è Tripoli (dove altri profughi in queste stesse ore sono stati invece ricondotti) ed è invece Genova. Qui forze dell’ordine e tanti volontari di associazioni laiche e cristiane si sono presi cura delle persone, si sono chinati sulle sofferenze di donne e uomini, hanno cercato per loro un posto dove stare che non fosse una prigione.
Prima di etichettarli semplicemente come "migranti", senza considerarli, come invece aveva fatto il ministro dell’Interno nei giorni scorsi, anzitutto un peso da evitare «per i contribuenti italiani», promettendo che «nessuno di loro sarebbe rimasto in Liguria», come se quella Regione, guarda caso governata da Lega e Centrodestra, dovesse essere preservata da chissà quale invasione di appestati o barbari e non semplicemente accogliere temporaneamente qualche decina di persone. Tutto, alla fine, è andato meglio di come le premesse lasciassero presagire. La Marina ha soccorso, il porto chiuso s’è aperto, è scattata la ripartizione dei richiedenti asilo in sei Paesi europei, la collaborazione tra organi dello Stato e organismi di carità della Chiesa è ripartita, come in tante altre occasioni, e lo stesso ministro Matteo Salvini lo ha riconosciuto e ha ringraziato soddisfatto.
Il secondo porto è invece quello di Cagliari, dove giovedì scorso si è infilata di sera, senza preavviso, la "Bahri Tabuk". Una nave saudita, giunta da Marsiglia per caricare anonimi container che in realtà celano bombe in grado di radere al suolo intere città. Sono gli ordigni fabbricati in Sardegna dalla Rwm che riesce a "oltrepassare" la legge che vieta al nostro Paese di commerciare armi con Paesi coinvolti in conflitti bellici, come in questo caso l’Arabia Saudita impegnata nella guerra in Yemen che sta mietendo decine e decine di migliaia di morti e ha provocato una terribile carestia con migliaia di bambini vittime di denutrizione.
Per questo carico di morte e distruzione non ci sono stati né problemi né intoppi né proclami politici: i portuali non erano stati avvisati e non hanno potuto protestare, come era invece avvenuto nelle scorse settimane sia in Francia sia a Genova.
Le bombe sono arrivate nel porto canale con la scorta privata dell’azienda, caricate con le gru e solo l’attento monitoraggio delle associazioni pacifiste ha potuto documentare quanto era avvenuto nel segreto d’un porto troppo aperto a potenze straniere.
Il terzo approdo, infine, è quello piuttosto disastroso della nave da crociera 'Msc Opera' domenica a Venezia, con lo speronamento di un vaporetto e il ferimento di quattro persone. È stato sollevato da anni il problema di queste enormi città-galleggianti che si infilano nel delicato tessuto dei canali di quella città scrigno, e altrettanto galleggiante, che è Venezia. La politica, però, a tutti i livelli e in maniera trasversale, non sembra volersi assumere l’onere di un progetto alternativo e soprattutto la responsabilità di una decisione.
Evidentemente troppo grandi sono gli interessi economici legati al turismo da crociera, da sconsigliare persino l’adozione del principio di precauzione, che avrebbe fatto dirottare le grandi navi da crociera quanto meno in banchine meno centrali. Un porto, che non è un porto ma un canale come quello della Giudecca, per puro interesse economico viene lasciato navigabile anche da giganti in grado di distruggere un’intera piazza senza che si alzi uno dei tanti ministri che oggi rivendicano poteri sulla navigazione per stabilire con una semplice ordinanza che 'no, da lì a Venezia non si passa più per motivi di sicurezza, punto'.
Sbarcano direttamente in centro città o salpano carichi di armi gli stranieri nei porti del nostro Paese. Purché, però, siano turisti abbienti o sceicchi con grandi eserciti. Uomini vittime di torture e donne violate e bambini alla fame, quelli no, non hanno approdo facile: non sono neppure persone, sono solo 'migranti', 'irregolari', 'clandestini', un peso per il contribuente.
(fonte: testo Avvenire, articolo di Francesco Riccardi 4 giugno 2019 - immagini web, a cura dello staff)